Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 19118 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 19118 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 04/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME COGNOME nato a Corleone il 7/3/1968
avverso la sentenza del 22/11/2023 della Corte di appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto di rigettare il ricorso; udito l’Avv. NOME COGNOME difensore della parte civile NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; uditi gli Avv.ti NOME COGNOME e NOME NOME COGNOME difensori del ricorrente, che hanno chiesto di accogliere il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 22 novembre 2023 la Corte di appello di Palermo ha confermato la pronuncia emessa il 27 ottobre 2021 dal Tribunale della stessa città,
con cui NOME COGNOME è stato condannato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui agli artt. 81 cpv., 56 e 317 cod. pen.
L’imputato è stato condannato poiché, nella sua qualità di Presidente del Consiglio comunale di Palermo e, dunque, pubblico ufficiale, abusando della qualità, nell’ambito della procedura di selezione interna per la nomina del “Responsabile Ufficio Consulenza giuridico-amministrativa per le attività istituzionali dell’Organo Consiliare”, aveva compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a costringere sia NOME COGNOME che NOME COGNOME a modificare la scelta del candidato, già effettuata in sede di Commissione valutativa, e a nominare NOME COGNOME in luogo di NOME COGNOME.
Ac9 3. AvverVO la sentenza di appello i difensori dell’imputato hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo i motivi di seguito indicati.
3.1. Violazione di legge e vizi della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità del ricorrente per il delitto ascrittogli. Il ricorrente ha ricordato questa Corte ha già affermato che, nell’ipotesi in cui il soggetto passivo sia un pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che l’agente abbia abusato della sua qualità o dei suoi poteri esteriorizzando concretamente un atteggiamento idoneo a intimidire la vittima, tanto da incidere negativamente sulla sua integrità psichica e sulla sua libertà di autodeterminazione. In simili casi, come quello in esame, non basta che la vittima, a fronte di un contegno abusivo, proveniente da un soggetto in posizione sovraordinata, avverta nella sua percezione soggettiva il peso istituzionale della fonte, da cui la richiesta abusiva provenga, avvertendo uno stato di soggezione, ma è necessario che si verifichi l’idoneità oggettiva del contegno, esteriorizzato dall’agente, ad assurgere a minaccia di un male contra ius, ale da essere effettivamente capace di coartare la libertà di autodeterminazione di un soggetto dotato di un particolare obbligo di resistenza. Nel caso in esame, nei dialoghi, valorizzati dalla Corte di appello, tra l’imputato e le persone offese non vi sarebbe traccia della benché minima esteriorizzazione di una minaccia contra ius e NOME non avrebbe mai dato atto di quella condizione di coartazione che, specie in capo a un soggetto passivo dotato di qualifica pubblicistica, andrebbe verificato con prudenza, avendo dichiarato di non essersi mai sentito di fronte alla secca alternativa tra piegarsi al volere dell’imputato, senza alcun tornaconto personale, ma solo per il metus, ingenerato dal primo, o non farlo e patire un male ingiusto. La Corte territoriale, quindi, avrebbe valorizzato lo stato di soggezione del soggetto passivo, frutto non già della necessaria esteriorizzazione di un contegno costrittivo, che non lasciava margini alla libertà di autodeterminazione, ma della combinazione di più fattori, tutti interni al medesimo soggetto, costituiti
da timore reverenziale, debolezza caratteriale, desiderio di non sfigurare, timore autoindotto. Inoltre, la condotta dell’imputato non era ispirata da un intento prevaricatore, bensì dall’idea di perseguire l’interesse della Pubblica amministrazione, avendo suggerito a NOME COGNOME la persona più idonea ad essere nominata nell’incarico dirigenziale, così difettando l’utilità indebita Riguardo alla tentata concussione ai danni di NOME COGNOME, poi, la Corte territoriale avrebbe trascurato che, anche in questo caso, non vi sarebbe traccia di esteriorizzazione della minaccia contra ius, formulata dall’imputato. Quella che secondo il Giudice di merito costituiva condotta con valenza di minaccia (ovvero la possibilità di privare NOME COGNOME del commissario di Polizia municipale COGNOME, suo collaboratore di fiducia in distacco presso il Comune di Palermo, qualora COGNOME non avesse preferito il candidato COGNOME, suggerito dall’imputato) altro non sarebbe che una semplice procedura amministrativa: l’assegnazione dell’anzidetto commissario di Polizia municipale allo staff di COGNOME, infatti, aveva natura temporanea e sarebbe giunta a naturale scadenza nell’ottobre successivo, così che la mali, inviata dall’imputato a COGNOME 1’8 giugno 2015, con la quale chiedeva di riferire in merito alla posizione del personale di Polizia municipale che prestava servizio presso i servizi dal medesimo coordinati, doveva considerarsi mera misura organizzativa e conoscitiva, certamente non idonea a condizionare la libertà di autodeterminazione del suo destinatario nei termini illustrati nella sentenza impugnata.
3.2. Violazione di legge, per non avere la Corte territoriale riqualificato i fatt ai sensi degli artt. 56 e 319-quater cod. pen. Seppure si volesse ammettere la sussistenza di una reale condotta di minaccia, percepita come tale dalle due persone offese, difetterebbe comunque l’elemento oggettivo del delitto di tentata concussione, dal momento che le supposte vittime, lungi dal trovarsi di fronte all’alternativa secca di piegarsi al volere dell’imputato, a causa del metus ingenerato, o non piegarsi al suo volere e patire il male ingiusto, avevano entrambe buone ragioni, di tipo utilitaristico, per accondiscendere alle sue richieste. Da questo punto di vista, il ricorrente non aveva indicato le eventuali conseguenze in cui NOME COGNOME sarebbe incorso in caso di rifiuto della richiesta dell’imputato, così che il timore, ingenerato nella vittima, andrebbe ricondotto non a una prospettazione oggettiva di un male ingiusto, bensì a una percezione soggettiva, che si presterebbe a una duplice plausibile lettura: la prima lettura sarebbe quella rinvenibile nella motivazione della sentenza impugnata; la seconda, altrettanto valida, riguarderebbe l’instaurazione di una dialettica utilitaristica l’imputato e la sua presunta vittima, volta alla possibilità di ottenere futuri favo in termini di progressione di carriera, qualora non avesse firmato il verbale di nomina di NOME COGNOME e avesse receduto da quella valutazione. Ugualmente
dovrebbe dirsi per quanto riguarda l’altra vittima, che avrebbe ottenuto l’indebito vantaggio di conservare presso il suo staff il collaboratore di Polizia municipale COGNOME qualora avesse accolto le indicazioni dell’imputato.
3.3. Violazione dell’art. 62-bis cod. pen. e vizi della motivazione, per non avere la Corte territoriale dato risposta ai rilievi difensivi, con cui erano st evidenziati elementi valorizzabili al fine della concessione delle attenuanti generiche, tra cui, ad es., il contegno processuale dell’imputato, sottopostosi ad esame, la sua incensuratezza, le condizioni di vita sociale e individuali.
3.4. Violazione di legge, per non avere la Corte di appello, previa qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 319-quater cod. pen., dichiarato l’intervenuta prescrizione del reato; in subordine, si è eccepita l’intervenuta prescrizione dopo la sentenza di appello.
Il 14 febbraio 2025 è pervenuta memoria di replica alla requisitoria scritta del Sostituto Procuratore Generale, con cui, nell’interesse del ricorrente, sono state ribadite le deduzioni formulate nel ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel complesso infondato e, quindi, la corretta instaurazione del rapporto processuale impone l’annullamento senza rinvio, agli effetti penali, della sentenza impugnata, per essere il delitto di tentata concussione, ascritto all’imputato, estinto per intervenuta prescrizione.
Quanto ai primi due motivi del ricorso, va rilevato che la sentenza impugnata, conformemente alla pronuncia di primo grado, ha ritenuto accertato che il ricorrente avesse esercitato pressioni su NOME COGNOME e NOME COGNOME affinché, nell’ambito della procedura di selezione interna per la nomina del “Responsabile Ufficio Consulenza giuridico-amministrativa per le attività istituzionali dell’Organo Consiliare”, fosse scelto NOME COGNOME anziché NOME COGNOME. Era risultato, infatti, che l’imputato, nel primo pomeriggio dell’8 giugno 2015, una volta appreso che la Commissione, incaricata della valutazione dei candidati per il conferimento dell’anzidetto incarico, aveva optato per NOME COGNOME, aveva convocato nella propria stanza il Commissario COGNOME e, manifestando con toni adirati il suo disappunto per la scelta operata, alla presenza anche del candidato COGNOME lo aveva invitato perentoriamente a non firmare il verbale; dopodiché, a fronte delle ulteriori obiezioni sollevate da COGNOME lo aveva licenziato in malo modo, gettandogli in faccia alcune carte che lo stesso COGNOME aveva portato con sé per mostrargliele. L’imputato, poi, poche ore dopo aver
appreso la sgradita valutazione, aveva inviato due mali a NOME COGNOME con cui aveva chiesto informazioni sul personale appartenente al corpo di Polizia municipale, che prestava servizio presso gli uffici coordinati da COGNOME e i nominativi di coloro che avevano chiesto di partecipare alla procedura selettiva per il ruolo A.P./P.O. della vice segreteria generale del Comune, facendo così riferimento, pur senza citarla, alla posizione del Commissario di Polizia municipale COGNOME stretto collaboratore di COGNOME in distacco precario.
Secondo la tesi difensiva, l’imputato non aveva formulato minacce, ma aveva manifestato il proprio disappunto nei confronti di soggetti, anch’essi pubblici ufficiali e, quindi, dotati di particolare capacità di resistenza alle pressio esercitate; inoltre, seppur si ammettesse che avesse tentato di condizionarne la scelta nella convinzione che il candidato più idoneo fosse proprio NOME COGNOME, mancherebbe, comunque, l’esteriorizzazione di un male ingiusto collegato al rifiuto. In ogni caso, l’imputato aveva evitato di porre le vittime di fron all’alternativa secca di piegarsi al suo volere a causa del metus ingenerato o non piegarsi e patire il male ingiusto, potendosi prefigurare, quale spiegazione alternativa, plausibile almeno quanto quella accusatoria, la sussistenza di un reciproco vantaggio, consistente in future agevolazioni di carriera per NOME COGNOME e nella riconferma del Commissario di Polizia municipale COGNOME per NOME COGNOME.
2.1. Alla luce di quanto precede va ricordato che questa Corte ha già avuto modo di precisare che la minaccia, attraverso cui si realizza l’abuso costrittivo della fattispecie di cui all’art. 317 cod. pen., non deve necessariamente concretizzarsi in espressioni esplicite e brutali, ma può essere implicita, velata, allusiva e assumere finanche la forma del consiglio, dell’esortazione, della metafora: essa può, quindi, manifestarsi anche con toni apparentemente “morbidi” e “concilianti”, quando sia comunque idonea a incutere timore nella persona offesa in relazione a tutte le circostanze del caso concreto e alla personalità dell’agente (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258470 – 01; in senso conforme, tra le altre, cfr. Sez. 6, n. 33653 del 14/09/2020, COGNOME, Rv. 279924 – 02).
Di tali principi ha fatto corretta applicazione il Collegio di appello palermitano. Premesso che era indubitabile che NOME COGNOME non aveva alcun titolo per ingerirsi nelle valutazioni operate dalla Commissione incaricata di valutare i candidati, il Giudice di secondo grado ha sottolineato che la condotta, tenuta in sequenza dall’imputato nei confronti dei due componenti di quella Commissione, dimostrava «che essa non era una mera manifestazione di disappunto circa la scelta effettuata, ma era volta ad influire su questa scelta con delle azioni che, pur in assenza di minacce esplicite, proprio per il contesto e la tempistica, con cui
erano state poste in essere, erano chiaramente finalizzate a coartare la volontà di autodeterminazione dei due Commissari».
Come precisato nella sentenza di primo grado, la cui motivazione è stata pienamente condivisa dalla Corte di appello, conducevano ad affermare che la condotta dell’imputato rivestiva i caratteri tipici della minaccia, idonea a integrare il delitto contestato, plurimi elementi, diffusamente indicati, quali: la posizion apicale rivestita dall’imputato in seno al Consiglio comunale di Palermo (pag. 21 della sentenza di primo grado); il rapporto di stretto legame professionale e fiduciario tra l’imputato e NOME COGNOME (pag. 21 della sentenza di primo grado); l’assenza di titolo per interloquire e intromettersi nelle competenze e nei poteri della Commissione valutativa (pag. 22 della sentenza di primo grado); la posizione evidentemente subordinata delle due persone offese all’interno della struttura comunale, rivestendo NOME COGNOME la qualità di vicesegretario generale e NOME COGNOME quella di dirigente dell’ufficio di staff del Consiglio comunale (pag. 3 della sentenza impugnata).
Così argomentando, entrambi i Giudici del merito hanno adeguatamente valutato le circostanze del caso concreto, in esse comprese la qualifica pubblicistica rivestita dai due Commissari, e – attraverso una motivazione non inficiata da manifeste illogicità o contraddizioni – sono giunti alla corretta conclusione della esteriorizzazione di un atteggiamento dell’imputato idoneo oggettivamente a coartare la volontà di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
2.2. Va aggiunto che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non si ravvisano vizi, sindacabili in questa sede, nemmeno con riguardo alle valutazioni, compiute nella sentenza impugnata, relative al modo con cui le persone offese hanno percepito la minaccia implicita dell’imputato.
Al riguardo la Corte di appello ha evidenziato che la domanda che COGNOME si era posto (“se non accetto che mi succede?”) non si collocava nel segmento di alternatività prospettato dalla difesa (se accetto avrò anch’io dei vantaggi), ma esprimeva l’unica preoccupazione delle conseguenze nefaste derivanti dal rifiuto, tant’è che lo stesso COGNOME aveva indugiato per una settimana, firmando in ritardo il verbale di nomina a favore di NOME COGNOME non perché aveva sperato in futuri vantaggi, ma solo perché aveva saputo che il protetto dell’imputato aveva ottenuto un diverso e più remunerativo incarico, così credendo di essere al riparo dalla “ritorsione” (realizzazione del male ingiusto implicitamente prospettato) dell’imputato; speranza vana, visto che dopo qualche mese è stato trasferito nella sede secondaria di INDIRIZZO. Altrettanto deve dirsi per quanto riguarda NOME COGNOME. La minaccia implicita, prospettata dall’imputato con le due mail inviate nel pomeriggio dell’8 giugno 2015, non aveva suscitato in COGNOME l’idea che vi fossero le vie alternative indicate nella tesi difensiva (“se accetto di piegarmi al voler
dell’imputato, anch’io conseguirò un vantaggio indebito, rappresentato dalla conferma del Commissario COGNOME“), ma aveva posto la persona offesa in uno stato di coazione psichica senza scelta.
Siffatta valutazione, con cui la Corte del merito ha affermato che la coazione dell’imputato era stata vissuta dai due Commissari in modo svincolato da possibili, potenziali benefici professionali o da contropartite altrettanto indebite, sfugge al sindacato di legittimità, avendo il Collegio del merito sia valutato tutte l emergenze probatorie e tratto da esse conclusioni logiche, sia replicato puntualmente alle deduzioni della difesa.
2.3. Va disattesa anche la censura del ricorrente in ordine alla qualificazione giuridica della condotta ai sensi dell’art. 317 cod. pen. anziché dell’art. 319-quater cod. pen. La soluzione esegetica, privilegiata dalla Corte di appello di Palermo, risulta in linea con il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità circa l differenza tra le due figure criminose (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, COGNOME, già cit.; Sez. 6, n. del 7/02/2024, COGNOME, Rv. 286510 – 01). Si è affermato, infatti, che il delitto di concussione di cui all’art. 317 cod. pen., nel testo modific dalla L. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente, che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario, che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di un’utilità indebita. Esso si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319-quater cod. pen., introdotto dalla medesima L. n. 190/2012, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce con il prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Nel caso in esame, la Corte territoriale, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, ha colto i dati più qualificanti, idone contraddistinguere la vicenda concreta, ed è giunta alla conclusione che i due Commissari avevano subito una coartazione della volontà e non si erano prefigurati tornaconti personali, così che risultava integrato il delitto di tenta concussione e non quello di cui agli artt. 56 e 319-quater cod. pen.
Va considerato che il delitto di tentata concussione è estinto per prescrizione.
Come precisato dal Giudice di primo grado, il fulcro della tentata concussione, per cui è processo, risiedeva negli accadimenti dell’8 giugno 2015, quando l’imputato ha posto in essere le condotte minacciose, causalmente idonee e orientate in modo univoco a condizionare la volontà di NOME. Non risultavano realizzati dopo tale data ulteriori atti minacciosi o violenti per costringere i du Commissari a sovvertire l’esito della procedura di nomina. Il tentativo punibile era stato commesso, quindi, prima dell’entrata in vigore della L. 69/2015, ossia prima del 15 giugno 2015. Ne discende che la pena edittale massima, prevista all’epoca dei fatti per il reato di cui all’art. 317 cod. pen., era pari a 10 anni di reclusion quindi, nel caso in esame, come affermato anche nella sentenza impugnata (cfr. f. 12), il termine di prescrizione per la tentata concussione era pari a complessi anni 8 e mesi 4, considerati gli atti interruttivi e i periodi di sospensione (dal marzo al 7 giugno 2018, per l’astensione del difensore dell’imputato dalle udienze, indetta dall’Unione Camere penali italiane, e 64 giorni per l’emergenza da Covid69). Il termine di prescrizione è maturato, quindi, a ottobre 2023, con conseguente estinzione del reato, ascritto all’imputato.
La declaratoria di estinzione del reato per prescrizione rende irrilevante il motivo del ricorso concernente il diniego delle attenuanti generiche.
In definitiva, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il reato, ascritto all’imputato, è estinto per prescrizione.
5.1. Le argomentazioni sviluppate al § 2 del “Considerato in diritto”, con cui si è affermato il difetto di vizi, sindacabili in questa sede, nella motivazione dell sentenza impugnata, che ha ritenuto dimostrata la colpevolezza dell’imputato, inducono a confermare le statuizioni civili e, stante la sua soccombenza in ordine alle pretese risarcitorie della parte civile, va pronunciata anche la condanna dell’imputato alle spese di rappresentanza e difesa sostenute da NOME COGNOME in questo giudizio, che vanno liquidate nella misura indicata in dispositivo in favore dell’Avv. NOME COGNOME che si è dichiarato antistatario.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione. Conferma le statuizioni civili e condanna l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile
COGNOME NOME COGNOME che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge, ponendole in favore del difensore, Avv. NOME COGNOME dichiaratosi antistatario.
Così deciso il 4 aprile 2025.