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Tempo silente: custodia cautelare e reati di mafia

La Corte di Cassazione ha stabilito che il ‘tempo silente’, ovvero il lungo periodo trascorso in custodia cautelare, non è di per sé sufficiente a giustificare la revoca o la sostituzione della misura per un imputato di associazione mafiosa. La presunzione di pericolosità per tali reati richiede prove concrete di rescissione dei legami con il sodalizio criminale per essere superata, e il solo decorso del tempo in carcere non costituisce un ‘fatto nuovo’ idoneo a tal fine.

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Pubblicato il 21 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Tempo Silente e Mafia: la Cassazione ribadisce i limiti alla revoca della custodia cautelare

La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione 1 Penale, n. 18078 del 2025, offre un importante chiarimento sul concetto di tempo silente e sulla sua influenza nelle decisioni relative alla custodia cautelare per i reati di associazione mafiosa. La Corte ha stabilito che il mero decorso del tempo in carcere, senza la commissione di nuovi reati, non è un elemento sufficiente a superare la forte presunzione di pericolosità sociale che la legge associa a questo tipo di crimini.

I fatti del caso: la richiesta di revoca della misura

Il caso trae origine dal ricorso di un individuo, condannato in primo grado a 11 anni di reclusione per partecipazione ad associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori. L’imputato, in custodia cautelare in carcere dal dicembre 2019, aveva richiesto la revoca o la sostituzione della misura, sostenendo che il lungo periodo di detenzione senza ulteriori condotte illecite (il cosiddetto ‘tempo silente’) dovesse essere considerato un fatto nuovo, idoneo a dimostrare un’attenuazione della sua pericolosità sociale.

Il Tribunale del riesame di Catanzaro aveva rigettato l’istanza, affermando che il semplice passare del tempo non poteva vincere la presunzione legale di pericolosità prevista dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale. Contro questa decisione, la difesa ha proposto ricorso in Cassazione.

La questione del tempo silente e la presunzione di pericolosità

Il nucleo della questione giuridica ruota attorno all’interpretazione del ‘tempo silente’ come possibile ‘fatto nuovo’ ai sensi dell’art. 299 c.p.p., che disciplina la revoca e la sostituzione delle misure cautelari. La difesa ha sostenuto che un lungo periodo di detenzione ininterrotta dovrebbe imporre al giudice una nuova e approfondita valutazione della persistenza delle esigenze cautelari, superando l’automatismo della presunzione di pericolosità.

Inoltre, si evidenziava come le prove a carico dell’imputato (intercettazioni) risalissero al 2017, senza che fossero emersi elementi successivi di un suo attuale collegamento con le organizzazioni criminali.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, fornendo una motivazione articolata e in linea con il suo orientamento consolidato. I giudici hanno chiarito una distinzione fondamentale: un conto è il ‘tempo silente’ trascorso tra la commissione del reato e l’applicazione della misura, che può essere un elemento di valutazione; un altro è il tempo trascorso durante l’esecuzione della misura cautelare stessa. Quest’ultimo, secondo la Corte, non costituisce di per sé un fatto sopravvenuto capace di incidere sulla valutazione della pericolosità. Esso diventa rilevante solo se accompagnato da ulteriori elementi concreti che indichino un reale percorso di affrancamento dalle logiche criminali.

La Corte ha inoltre ribadito che per i reati di cui all’art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso), specialmente se riconducibili a sodalizi ‘storici’ e radicati, la pericolosità sociale è considerata immanente e persistente. Di conseguenza, grava sull’imputato un onere probatorio particolarmente stringente: dimostrare con prove concrete di aver reciso ogni legame con l’associazione criminale. In assenza di tale prova, la presunzione di pericolosità e la conseguente necessità della misura cautelare più afflittiva rimangono intatte.

Le conclusioni

La sentenza in esame conferma la linea di rigore della giurisprudenza in materia di criminalità organizzata. Il principio affermato è chiaro: la custodia cautelare per reati di mafia non si attenua con il semplice trascorrere del tempo. Il ‘tempo silente’ trascorso in carcere ha valenza principalmente ai fini del computo dei termini massimi di durata della custodia, ma non è, da solo, un fattore che può scalfire la presunzione di pericolosità. Per ottenere una revisione della misura, è indispensabile fornire al giudice elementi ‘nuovi’ e concreti che dimostrino un effettivo e inequivocabile distacco dal contesto criminale di appartenenza.

Il tempo trascorso in carcere in attesa di giudizio (‘tempo silente’) è sufficiente per ottenere la revoca della misura cautelare per reati di mafia?
No. Secondo la Corte di Cassazione, il solo decorso del tempo in custodia cautelare non è un elemento ‘nuovo’ in grado di superare la presunzione di pericolosità sociale prevista per i reati di associazione mafiosa.

Quale tipo di ‘tempo silente’ è rilevante per la valutazione delle esigenze cautelari?
La giurisprudenza citata distingue: il tempo trascorso tra la commissione del reato e l’applicazione della misura può essere rilevante. Invece, il tempo trascorso durante l’esecuzione della misura assume rilievo solo se accompagnato da altri elementi concreti che dimostrino un’attenuazione della pericolosità.

Per i reati di associazione mafiosa ‘storica’, cosa deve provare l’imputato per ottenere la revoca della misura cautelare?
Per questi reati, la pericolosità è considerata immanente. L’imputato deve fornire prove concrete della recisione di ogni rapporto con l’organizzazione criminale di appartenenza per poter ottenere la revoca o la sostituzione della misura.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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