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Tempo silente: annullata custodia cautelare dopo 5 anni

La Corte di Cassazione ha annullato un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa cinque anni dopo i fatti contestati. La decisione sottolinea l’importanza del cosiddetto ‘tempo silente’ e del comportamento positivo dell’indagato nel valutare l’attualità delle esigenze cautelari, superando la presunzione di pericolosità legata al reato associativo in materia di stupefacenti.

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Pubblicato il 29 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Custodia Cautelare: il valore del ‘tempo silente’ per valutarne la necessità

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ribadisce un principio fondamentale in materia di misure cautelari: il semplice trascorrere del tempo può indebolire la presunzione di pericolosità sociale. L’analisi del cosiddetto tempo silente, ovvero il periodo intercorso tra il reato e la misura, diventa cruciale per una valutazione concreta e attuale delle esigenze cautelari. La pronuncia in esame ha annullato un’ordinanza di custodia in carcere emessa ben cinque anni dopo i fatti contestati, nonostante la gravità delle accuse, che includevano la partecipazione a un’associazione per il traffico di stupefacenti.

I fatti del caso

Un soggetto veniva raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nel gennaio 2025 per reati legati al traffico di cocaina, tra cui la partecipazione a un’associazione criminale (art. 74 d.P.R. 309/90). I fatti, tuttavia, risalivano al 2019, ben cinque anni prima dell’applicazione della misura.

Nel frattempo, la situazione personale dell’indagato era radicalmente cambiata. Ammesso al regime di semilibertà per altri reati, aveva intrapreso un serio percorso riabilitativo, reciso i legami con l’ambiente criminale e mantenuto una condotta tale da far cessare la sua pericolosità sociale, come accertato in un altro procedimento. Il Tribunale del riesame, però, aveva confermato la custodia in carcere, basandosi principalmente sulla gravità dei reati contestati e sulla presunzione di pericolosità legata al reato associativo, senza dare adeguato peso al lungo tempo silente e al percorso positivo dell’indagato.

La decisione della Corte: l’importanza del tempo silente

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza e rinviando il caso per un nuovo giudizio. Il punto centrale della decisione è la critica alla motivazione del Tribunale, giudicata ‘apparente e tralaticia’. I giudici di legittimità hanno stabilito che non è sufficiente richiamare la gravità dei fatti passati per giustificare una misura cautelare così afflittiva, specialmente dopo un così lungo intervallo di tempo.

La Corte ha ribadito che, sebbene per reati come l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga esista una presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, questa presunzione non è assoluta. Il giudice deve sempre compiere una valutazione sulla concretezza e sull’attualità del pericolo di reiterazione del reato. Il tempo silente è uno degli ‘elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari’ menzionati dall’art. 275, comma 3, c.p.p.

Le motivazioni

La motivazione del Tribunale è stata censurata per aver amplificato la portata della presunzione legale, trascurando elementi di fatto cruciali. In primo luogo, il provvedimento si basava su fatti del 2019, applicando una misura restrittiva a oltre cinque anni di distanza. Un simile lasso di tempo, secondo la Cassazione, è di per sé rilevante e impone un’analisi più approfondita.

In secondo luogo, il Tribunale ha impropriamente valorizzato fatti concomitanti o connessi ai reati per cui si procedeva (altri procedimenti pendenti), senza considerare il comportamento positivo tenuto dall’indagato successivamente, in particolare durante l’esecuzione di altre pene. La Corte ha sottolineato che il percorso riabilitativo, la revoca di altre misure e l’assenza di legami con la criminalità organizzata erano tutti fattori che avrebbero dovuto essere ponderati attentamente per valutare l’attualità del pericolo.

In sostanza, il giudice non può limitarsi a constatare la gravità del titolo di reato, ma deve calare la sua valutazione nella realtà attuale della persona indagata. Ignorare cinque anni di condotta positiva significa rendere la motivazione sulla persistenza del pericolo di recidiva meramente apparente.

Le conclusioni

Questa sentenza è un importante promemoria del fatto che le misure cautelari devono rispondere a esigenze concrete e attuali, non a paure basate su un passato, per quanto grave. Il principio del tempo silente costringe i giudici a un esame rigoroso e individualizzato, che tenga conto dell’evoluzione della personalità dell’indagato. La presunzione di pericolosità, anche nei casi più gravi, può essere superata da prove concrete che dimostrino un reale e stabile cambiamento. Il Tribunale, in sede di rinvio, dovrà quindi riesaminare il caso uniformandosi a questi principi, valutando se, alla luce dei cinque anni trascorsi e del comportamento dell’indagato, sussista ancora un pericolo concreto che giustifichi la detenzione in carcere.

Il lungo tempo trascorso dalla commissione di un reato influisce sull’applicazione della custodia cautelare?
Sì, secondo la Corte di Cassazione, un considerevole lasso di tempo (definito ‘tempo silente’) tra il fatto e la misura cautelare è un elemento molto rilevante. Il giudice deve considerarlo per valutare se il pericolo di reiterazione del reato sia ancora concreto e attuale, poiché il tempo può affievolire le esigenze cautelari.

La buona condotta di un indagato può superare la presunzione di pericolosità per reati gravi come l’associazione a delinquere?
Sì. Anche se per alcuni reati la legge presume la sussistenza delle esigenze cautelari, questa presunzione è relativa e non assoluta. Un lungo ‘tempo silente’ unito a un comportamento positivo e a un percorso riabilitativo dimostrabile può costituire un elemento concreto per vincere tale presunzione, dimostrando che le esigenze cautelari non sussistono più.

Qual è stato l’errore del Tribunale del riesame secondo la Cassazione?
L’errore è stato quello di fornire una motivazione apparente e generica, incentrata esclusivamente sulla gravità dei reati commessi in passato. Il Tribunale ha ignorato il lungo ‘tempo silente’ (cinque anni) e non ha adeguatamente valutato gli elementi positivi successivi, come il percorso riabilitativo e la rescissione dei legami con l’ambiente criminale, che erano fondamentali per verificare l’attualità e la concretezza del pericolo di recidiva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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