Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 27167 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 27167 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a Vibo Valentia il 13/08/1960
avverso la sentenza del 19/12/2024 della Corte d’appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
lette le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME difensore della parte civile COGNOME COGNOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo che i motivi di ricorso siano ritenuti inammissibili o non fondati, con la conseguente conferma della sentenza impugnata, e che l’imputato sia condannato alla rifusione delle spese, come da nota che allega, da distrarsi in proprio favore;
letta la memoria dell’Avv. NOME COGNOME difensore di COGNOME Alfonso, di replica alle conclusioni del Pubblico Ministero, e con la quale l’Avv. COGNOME, dopo avere ulteriormente argomentato in ordine ai motivi di ricorso, ha insistito per l’accoglimento dello stesso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19/12/2024, la Corte d’appello di Catanzaro confermava la sentenza del 06/09/2021 del Tribunale di Vibo Valentia con la quale NOME COGNOME era stato condannato alla pena di quattro anni e sei mesi di reclusione ed
C 15.000,00 di multa per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di usura aggravata (dall’avere commesso il reato in danno di chi si trova in stato di bisogno) ai danni dei coniugi NOME COGNOME/NOME COGNOME di cui al capo A) dell’imputazione e di usura aggravata (sempre dall’avere commesso il reato in danno di chi si trova in stato di bisogno) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo B) dell’imputazione.
Avverso la menzionata sentenza del 19/12/2024 della Corte d’appello di Catanzaro, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite dei propri difensori avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME NOME COGNOME affidato a quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, con riferimento all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la mancanza «e/o» l’«insufficienza» della motivazione – in relazione agli artt. 101, secondo comma, e 111, sesto comma, Cost., e agli artt. 125, comma 3, 192 e 546, commi 1, lett. d) ed e) , e 3 cod. proc. pen. – nonché l’«omessa pronuncia su specifiche censure riguardanti aspetti contraddittori ovvero mal valutati».
Dopo avere argomentato il fondamento e l’importanza dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, e dopo avere riportato i titoli dei quattro motivi che aveva articolato nel proprio atto di appello, il COGNOME lamenta che «è stata resa sulle doglianze evidenziate nel giudizio di appello motivazione meramente apparente», in quanto la Corte d’appello di Catanzaro avrebbe «omesso di prendere una precisa posizione rispetto a doglianze specifiche e decisive svolte nei confronti della prima sentenza», con la conseguente violazione anche del diritto dell’imputato di difendersi provando, «sotto l’aspetto dell’omesso esame di punti decisivi per la ricostruzione o la valutazione del fatto».
La Corte d’appello di Catanzaro avrebbe «omesso di esaminare i motivi di appello nella parte centrale e fondamentale, limitandosi a confermare l’apparato argomentativo della sentenza di primo grado senza indicare le ragioni per cui le doglianze fossero inidonee a compromettere, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione della prima sentenza nelle parti oggetto di specifica critica».
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce: «travisamento delle risultanze istruttorie»; con riferimento all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza «e/o» l’«insufficienza» della motivazione – in relazione agli artt. 101, secondo comma, e 111, sesto comma, Cost., e agli artt. 125, comma 3, 192 e 546, commi 1, lett. d) ed e) , e 3 cod. proc. pen. – «già assente nel giudizio di primo grado e non opportunamente integrata dai giudici di appello»; con riferimento all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza «e/o» l’erronea applicazione della legge penale, «anche in relazione all’art. 644 c.p.»;
«motivazione meramente apparente»; l’«omessa pronuncia su specifiche censure riguardanti aspetti contraddittori ovvero mal valutati»; «esclusione dell’aggravante di cui all’art. 644, quinto comma n. 3, c.p. stato di bisogno insussistente».
2.2.1. Il COGNOME afferma che vi è stato un «travisamento delle risultanze istruttorie», in quanto la Corte d’appello di Catanzaro sarebbe giunta «in modo generico oltre che contraddittorio alla conclusione che vi è attendibilità delle persone offese e delle fonti di prova», atteso che, nella sentenza impugnata, mancherebbe, o sarebbe meramente apparente, qualsivoglia concreta valutazione in ordine alla suddetta attendibilità delle persone offese costituite parti civili, e c «anche a fronte di specifiche e dettagliate censure licenziate nell’atto di appello».
Il «travisamento delle risultanze istruttorie» sussisterebbe alla luce del fatto che, posto che sia il Tribunale di Vibo Valentia sia la Corte d’appello di Catanzaro muovono dalla premessa che la narrazione dei fatti da parte delle persone offese era stata «frastagliata e incerta» (così il Tribunale di Vibo Valentia, alla pag. 8, terzultimo capoverso, della sentenza di primo grado, con riferimento alla narrazione della persona offesa COGNOME), non si comprenderebbe come i medesimi Giudici «siano passati ad una ricostruzione univoca della vicenda».
Dopo avere trascritto il terzultimo e il penultimo capoverso della pag. 8 e il primo e il sesto capoverso della pag. 9 della sentenza di primo grado, il ricorrente stigmatizza in particolare che le dichiarazioni della persona offesa NOME sarebbero state ritenute «autentiche, coerenti e credibili prima grazie alle dichiarazioni ( neanche indicate dai Giudici di appello) del marito NOME, poi grazie alle contestazioni fatte dal P.M. (neanche citate nella sentenza nei punti essenziali) e poi grazie alla ricostruzione effettuata da chi ha svolto le indagini (anche in tale caso non viene indicato nessun passaggio testimoniale o altro)».
Secondo il COGNOME, la Corte d’appello di Catanzaro – così come, prima, il Tribunale di Vibo Valentia -, avrebbero omesso di operare quel controllo particolarmente penetrante che è richiesto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione con riguardo all’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa che si sia costituita parte civile, giacché non avrebbero compiuto alcuna «approfondita verifica delle deposizioni delle coppie di coniugi COGNOMECOGNOME e COGNOME, alla stregua dei criteri di coerenza ed attendibilità intrinseca ed estrinseca delle informazioni res , ed omettendo di valutare l’esistenza o meno di riscontri obiettivi alle loro dichiarazioni».
Con specifico riguardo alla testimonianza del teste della Guardia di Finanza COGNOME il ricorrente deduce che, come si legge al settimo capoverso della pag. 6 della
sentenza di primo grado, lo stesso aveva «svolto le indagini in altro procedimento a carico del COGNOME», con la conseguenza che «non si comprende l’apporto fornito dal teste in questione e soprattutto il tipo di accertamenti che avrebbe effettuato nel procedimento che ci occupa».
Il COGNOME contesta poi che «ul perché vi è stata usura e sul come è stato superato il tasso soglia nulla dice la sentenza gravata e nulla si comprende (Cfr. pag. 12): la ricostruzione sul quantum è incerta ed incomprensibile nella sentenza di primo grado e neanche corrisponde con quanto compendiato nel capo d’imputazione».
In particolare, non si comprenderebbe come si sia pervenuti alla condanna per i due reati di usura «posto che – in assenza di qualsivoglia consulenza – i Giudici di primo grado hanno formulato direttamente una ricostruzione numerica/algebrica (Cfr. pag. 13 della sentenza di primo grado) e “sulla scorta di un empirico calcolo matematico” (così come si legge nella sentenza di primo grado – pag. 13) dal quale nulla si comprende con chiarezza neanche i dati o i conteggi o i criteri utilizzati (si indicano soltanto alcuni tassi “il 20%” che poi si trasfor in “percentuale del 23%”) e soprattutto non si comprende in nessun modo “sul come” i Giudici di prime cure siano arrivati a ritenere superato il c.d. tasso soglia (neanche individuato e/o citato)».
Inoltre, non «si comprende appieno neanche se nei conteggi riportati i Giudici di prima istanza ricomprendono – come sembrerebbe – i finanziamenti ricevuti da altre finanziarie/società».
Il COGNOME ribadisce che anche i Giudici dell’appello avrebbero rilevato «l’incoerenza e le reciproche contraddizioni in cui incorrono le persone offese ed in particolare la COGNOME» e che gli stessi Giudici avrebbero omesso di effettuare il necessario più pregnante e rigoroso controllo delle dichiarazioni delle stesse persone offese, costituite parti civili. Dichiarazioni che non sarebbero «state riscontrate neanche con altri elementi e non vi è stata alcuna indicazione delle “risultanze processuali” dalle quali doveva ritenersi l’assoluta attendibilità delle persone offese».
Non vi sarebbe neppure «nessuna convergenza tra le dichiarazioni delle presunte vittime e l’odierno prevenuto, come pretenderebbe la Corte di Appello». Vittime che «nulla hanno chiarito ovvero hanno evidenziato in maniera certa ed univoca tanto da fondare una condanna per i reati contestati», avendo esse fornito un racconto «né genuino e né espressione di quanto accaduto» – compresa la persona offesa COGNOME -, sicché esse si sarebbero dovute ritenere inattendibili.
Il COGNOME evidenzia ancora che il suddetto racconto «appare frazionato in episodi che si intrecciano con altri prestiti di denaro richiesti ad altre società», e
che «nulla è chiaro, a partire dalle modalità e dalle condizioni del prestito che non sono state ben esplicitate».
Il ricorrente lamenta ancora che la Corte d’appello di Catanzaro non avrebbe «dato conto compiutamente delle deduzioni difensive, con cui si è censurata la sussistenza degli elementi costitutivi del reato de quo e, in particolare, la natura usuraria degli interessi corrisposti».
Deduce che, al fine di determinare il cosiddetto tasso-soglia, è necessario che «siano esattamente determinati il tempo e la durata del prestito, nonché la data dei singoli pagamenti effettuati dall’usurato, in modo da individuare il trimestre di riferimento» e lamenta che tali accertamenti sarebbero assenti nella motivazione della sentenza impugnata, così come nella motivazione della sentenza di primo grado.
Né risulterebbe l’ammontare degli interessi mensili che le presunte vittime avrebbero versato, atteso che «ulla si dice sui tempi e la durata del prestito nonché sulle date e sulle somme dei singoli pagamenti effettuati dalle pp.00. Né si chiariscono le ragioni della conclusione dell’usurarietà del tasso, alla luce della normativa vigente sul punto all’epoca», atteso che la Corte d’appello di Catanzaro non avrebbe chiarito «a quale provvedimento normativo abbia fatto concretamente riferimento nel determinare il valore soglia assunto per compiere la valutazione sulla natura usuraria degli interessi, né quale tra i diversi valori in esso elencati (e corrispondenti alle diverse categorie di operazioni oggetto di rilevazione) abbia inteso identificare come effettiva base per il calcolo della natura usuraria dei tassi praticati dagli imputati».
2.2.2. In via gradata, il ricorrente, dopo avere rappresentato che, con il proprio atto di appello, aveva avanzato una specifica censura in ordine all’insussistenza della circostanza aggravante di cui al n. 3) del quinto comma dell’art. 644 cod. pen., lamenta che la Corte d’appello di Catanzaro avrebbe omesso qualsiasi argomentazione al riguardo, con la conseguente mancanza grafica della motivazione.
Il COGNOME nega comunque che le persone offese si trovassero in stato di bisogno ed evidenzia, a riprova di ciò:
quanto al reato di cui al capo A) dell’imputazione, che: a.1) «il trasferimento è avvenuto in abitazione di proprietà del marito della COGNOME e quindi senza ulteriori esborsi per canoni di affitto»; a.2) i coniugi COGNOME/COGNOME «avevano stipulato diversi finanziamenti con diverse società e non con la RAGIONE_SOCIALE COGNOME»; a.3) gli stessi coniugi «avevano ottenuto una eredità e percepivano stipendi»; a.4) NOME COGNOME «aveva un lavoro con regolare contratto (insegnante di ruolo)».
b) quanto al reato di cui al capo B) dell’imputazione, che la sig.ra COGNOME: b.1) «necessitava di denaro al solo fine di soddisfare le aspirazioni imprenditoriali del figlio COGNOME NOME (che voleva avviare un esercizio commerciale)»; b.2) aveva richiesto diversi finanziamenti non riconducibili all’odierno imputato».
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce: «ingiusta non concessione delle attenuanti generiche»; con riferimento all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza «e/o» l’«insufficienza» della motivazione – in relazione agli artt. 101, secondo comma, e 111, sesto comma, Cost., e agli artt. 125, comma 3, 192 e 546, commi 1, lett. d) ed e), e 3 cod. proc. pen. -, «già assente nel giudizio di primo grado e non opportunamente integrata dai giudici di appello»; con riferimento all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza «e/o» l’erronea applicazione della legge penale, «anche in relazione all’art. 62 bis c.p.»; «motivazione meramente apparente».
Il COGNOME lamenta che, nel confermare il diniego delle circostanze attenuanti generiche, la Corte d’appello di Catanzaro si sarebbe limitata a richiamare le motivazioni che era state rese al riguardo dal Tribunale di Vibo Valentia, «che certamente non erano state analitiche ma, al contrario, fortemente contraddittorie posto che pur dando atto delle dichiarazioni collaborative dell’esponente venivano apoditticamente classificate come “non espressive di una resipiscenza” tanto da giustificare la non concessione delle generiche (Cfr. pag. 13 della sentenza di primo grado)».
Pertanto, le motivazioni sul punto, «già carenti e contraddittorie in primo grado non sono state in alcun modo meglio integrate e/o viste dai Giudici di appello».
Il ricorrente deduce che aveva «reso puntuali e precise dichiarazioni nel procedimento de quo», che «a sanzione doveva essere individualizzata, adeguata alla personalità dell’esponente (pure incensurato) ed alla condotta successivamente tenuta (ampiamente collaborativa e mai reticente)», con la conseguenza che «e circostanze generiche dovevano essere riconosciute nella massima estensione», non essendo a ciò ostativo il fatto che era stata irrogata una pena oltre il minimo edittale.
2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce: con riferimento all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza o l’apparenza della motivazione con riguardo al trattamento sanzionatorio; con riferimento all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza «e/o» l’erronea applicazione della legge penale, «in relazione alla violazione del disposto di cui all’art. 133 c.p. Pena eccessiva».
Il COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Catanzaro, a fronte di specifiche censure che egli aveva avanzato sul punto con il suo atto di appello, avrebbe omesso qualsiasi argomentazione in ordine al trattamento sanzionatorio.
Deduce che la sentenza impugnata, «a fronte dello specifico motivo di appello e in presenza della fissazione della pena base muovendo dal minimo edittale, non ha fornito alcuna giustificazione sulla scelta del Tribunale nel fissare l’aumento per la circostanza aggravante nella misura massima manifestando illogicità nella decisione assunta».
Rappresenta che la «pena doveva quantomeno essere contenuta nel minimo edittale, con esclusione dell’aggravante ex art. 644, quinto comma n. 3), c.p., applicazione in via prevalente della diminuente per le chieste attenuanti generiche e riduzione del quantum di pena per la continuazione con il reato di cui al capo a). La pena doveva essere conteggiata in melius».
2.5. Infine, il ricorrente dichiara di «non voler rinunciare alla declaratoria di estinzione dei reati in contestazione per intervenuta prescrizione; anzi, si richiede l’applicazione del termine prescrizionale più favorevole anche nell’ipotesi della riqualificazione ovvero derubricazione dell’ipotetico fatto reato anche con riferimento alla sussistenza dell’aggravante».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo non è consentito.
Con tale motivo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata in quanto la Corte d’appello di Catanzaro avrebbe: omesso di pronunciarsi «su specifiche censure riguardanti aspetti contraddittori ovvero mal valutati»; motivato in modo apparente «sulle doglianze evidenziate nel giudizio di appello»; omesso di prendere posizione «rispetto a doglianze specifiche e decisive svolte nei confronti della prima sentenza»; omesso di esaminare «punti decisivi per la ricostruzione o la valutazione del fatto» e «i motivi di appello nella parte centrale e fondamentale senza indicare le ragioni per cui le doglianze fossero inidonee a compromettere, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione della prima sentenza».
Nell’avanzare tali doglianze, il ricorrente ha tuttavia completamente omesso di indicare quali sarebbero stati «le specifiche censure riguardanti aspetti contraddittori ovvero mal valutati», «le doglianze evidenziate nel giudizio di appello», le «doglianze specifiche e decisive svolte nei confronti della prima sentenza», i «punti decisivi per la ricostruzione o la valutazione del fatto» e «i motivi di appello nella parte centrale e fondamentale» che la Corte d’appello di Catanzaro avrebbe omesso di esaminare e di valutare o in ordine ai quali la stessa Corte d’appello avrebbe motivato in modo soltanto apparente.
Ne discende l’assoluta genericità del motivo, il quale si deve ritenere, per tale ragione, non consentito.
Il secondo motivo è in parte manifestamente infondato e in parte non consentito là dove è contestata l’affermazione di responsabilità per gli attribuiti reati di usura (punto 2.2.1 della parte in fatto), mentre è fondato là dove è contestata la mancanza della motivazione con riguardo alla circostanza aggravante dell’avere commesso gli stessi reati di usura in danno di chi si trova in stato di bisogno (punto 2.2.2 della parte in fatto).
2.1. Quanto alla parte del motivo in cui è contestata l’affermazione di responsabilità per gli attribuiti reati di usura, si deve anzitutto rilevare che l sentenza impugnata, aderendo alle valutazioni del primo giudice, ha richiamato e applicato il principio, affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale occorre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, però, della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., per i dichiarante coinvolto nel fatto (ex plurimis: Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 253214-01; Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, COGNOME, Rv. 27907001; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312-01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 274489-01; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104-01; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 26173001).
Le Sezioni Unite hanno anche statuito che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, cit.; più di recente: Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01).
Tale circostanza risulta del tutto assente nel caso di specie, nel quale la Corte d’appello di Catanzaro risulta avere compiuto un approfondito e attento vaglio della credibilità delle persone offese (pagg. 2-4 della sentenza impugnata), all’esito del quale, senza negare l’esistenza di discrasie tra le dichiarazioni delle varie persone offese e tra le dichiarazioni rese dalla medesima persona offesa nelle varie fasi, è pervenuta a ritenere, in modo del tutto esente da contraddizioni manifeste, e in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di valutazione frazionata, la suddetta credibilità quanto al nucleo centrale del racconto delle circostanze e delle condizioni dei prestiti di denaro che erano stati erogati dall’imputato.
In secondo luogo, quanto al fatto che tali prestiti di denaro, come descritti dalle persone offese, integrassero la fattispecie dell’usura, si deve osservare come il Tribunale di Vibo Valentia, sulla base, appunto, delle dichiarazioni delle persone offese (oltre che dei riscontri pure dallo stesso indicati), avesse ricostruito le condizioni dei medesimi prestiti e avesse esposto le ragioni per le quali si doveva ritenere che gli stessi avessero natura usuraria, per avere le persone offese dato all’imputato degli interessi, appunto, usurari (si vedano, specialmente: le pagg. 11-12 della sentenza di primo grado quanto al reato di cui al capo A dell’imputazione; le pagg. 12-13 della sentenza di primo grado quanto al reato di cui al capo B dell’imputazione).
Ciò detto, si deve rilevare che, nell’atto di appello, tali ricostruzione delle condizioni dei prestiti ed esposizione delle ragioni per le quali si doveva ritenere che gli stessi avessero natura usuraria, che erano state fatte dal Tribunale di Vibo Valentia sulla base delle dichiarazioni delle persone offese, non erano state oggetto di specifiche contestazioni da parte del COGNOME il quale aveva invece incentrato le proprie doglianze, essenzialmente, sulla credibilità delle persone offese, senza contestare specificamente la ricostruzione dei prestiti e della natura usuraria degli stessi che era stata fatta dal Tribunale di Vibo Valentia.
Ne discende che legittimamente la Corte di appello di Catanzaro ha essenzialmente motivato in ordine alla credibilità delle persone offese e che il motivo, nella parte in cui contesta la ricostruzione delle condizioni dei prestiti e l’esposizione delle ragioni per le quali si doveva ritenere che gli stessi avessero natura usuraria che erano state fatte dal Tribunale di Vibo Valentia si appalesa come nuovo, in quanto prospettato direttamente davanti a questa Corte e, perciò, non consentito.
2.2. La parte del motivo in cui è contestata la mancanza della motivazione con riguardo alla circostanza aggravante dell’avere commesso i reati di usura in danno di chi si trova in stato di bisogno è, invece, fondata.
Con lo specifico secondo motivo del suo atto di appello (pagg. 17-20), NOME COGNOME aveva chiesto che fosse esclusa, con riferimento a entrambe le usure a lui attribuite, la circostanza aggravante, di cui al n. 3) del quinto comma dell’art. 644 cod. pen., dell’avere commesso le stesse usure in danno di chi si trova in stato di bisogno.
Tale motivo di appello non è stato esaminato dalla Corte d’appello di Catanzaro (che pure aveva dato atto della sua esistenza, come risulta dal riepilogo dei motivi di appello che figura alla pag. 1 della sentenza impugnata).
Ciò dà luogo a un vizio della motivazione che è rilevante a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., atteso che, nemmeno sulla base della
motivazione complessivamente considerata della sentenza impugnata, è possibile ritenere che la prospettazione difensiva sia stata implicitamente rigettata.
3. L’esame del terzo e del quarto motivo è assorbito dall’accoglimento del secondo motivo nella parte in cui è contestata la mancanza della motivazione con
riguardo alla circostanza aggravante dell’avere commesso i reati di usura in danno di chi si trova in stato di bisogno.
4. Pertanto: a) la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente all’aggravante dello stato di bisogno, con rinvio, per un nuovo giudizio sul punto,
a un’altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro; b) il ricorso deve essere dichiarato inammissibile nel resto; c) le spese della parte civile al definitivo.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’aggravante dello stato di bisogno con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di
appello di Catanzaro. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Spese della parte civile al definitivo.
Così deciso il 09/07/2025.