Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 21291 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 21291 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/02/2025
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
COGNOME nato ad Andria il 02/01/1945
avverso la sentenza della Corte di appello di Bari dell’ 11/03/2024
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per la inammissibilità del ricorso; udito il difensore dell’imputato, Avv. NOME COGNOME che si è riportato ai motivi di ricorso insistendo per raccoglimento.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME impugna la sentenza con cui la Corte di appello di Bari, pronunciando in sede di rinvio in seguito ad annullamento disposto dalla seconda Sezione di questa Corte in data 28 giugno 2023, in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Trani il 5 ottobre 2017, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, ha rideterminato la pena in ordine ai reati a lui ascritti nella misura di anni 6, mesi 9 di reclusione ed euro 10.500,00 di multa e ha sostituito le pene accessorie dell’interdizione perpetua e della interdizione legale, con quella dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni.
La Seconda Sezione di questa Corte ha disposto l’annullamento della condanna pronunciata nei confronti di COGNOME in ordine ai reati di usura di cui ai capi c d), i), k), s), limitatamente alla circostanza aggravante dello stato di bisogno, dichiarando al contempo irrevocabile l’affermazione di responsabilità.
Il ricorso del difensore di fiducia è affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo si deducono violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla aggravante dello stato di bisogno.
Disattendendo il principio di diritto enunciato da questa Corte di legittimità in sede rescindente, la Corte di appello ha ritenuto integrato lo stato di bisogno delle persone offese desumendolo esclusivamente dall’entità del tasso di interesse, che sarebbe sintomatico di una sudditanza psicologica che non consentiva agli usurati di fare scelte diverse.
Si è in tal modo confuso lo stato di bisogno con le difficoltà economiche e finanziarie della vittima, laddove, con riferimento ad alcuno dei reati per cui è stata pronunciata condanna è dato rilevare una situazione di coartazione psicologica, che abbia effettivamente compromesso la libertà contrattuale degli usurati. Ed invero:
quanto al capo c), pur avendo NOME COGNOME dichiarato che l’imputato ed il correo lo aiutavano quando ne aveva la necessità, la Corte di appello ha dedotto il carattere irreversibile dello stato di decozione dell’imprenditore dalla su dichiarata disponibilità a corrispondere un tasso anche del 10%, pur di non perdere l’attività, e ciò sulla base del contenuto delle informazioni predibattimentali rese dal predetto, pur avendo la sentenza rescindente rilevato che le stesse non erano mai state acquisite;
quanto al capo d), erroneamente si è ritenuto che NOME COGNOME – il quale ha dichiarato di avere intrattenuto rapporti finanziari con l’imputato per ragioni personali o legate all’acquisto di autovetture – versasse in condizioni economiche
disagiate, dal momento che, quale legale rappresentante e socio di maggioranza di RAGIONE_SOCIALE, ai tempi cui risalgono i fatti, aveva alienato un capannone al prezzo di 1.800.000,00 euro;
quanto al capo i), si è ritenuto NOME COGNOME astretto dal bisogno per avere restituito interessi, in ragione di 400,00 euro a bimestre, sebbene egli avesse agito di propria iniziativa, nulla essendo stato pattuito al riguardo con il ricorrente;
quanto al capo k), NOME COGNOME ha negato di avere corrisposto interessi e anche di avere restituito per intero la sorta capitale;
quanto al capo s), NOME COGNOME si è limitato a confermare le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni, in realtà non utilizzabili in assenza di consenso, da cui si evince l’entità del tasso applicato.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge, in relazione alla richiesta di prescrizione, e manifesta illogicità della motivazione.
La prescrizione sarebbe maturata ancor prima dell’udienza del 28 giugno 2023, tenuta dalla Seconda Sezione della Corte di cassazione, risalendo le condotte, da ultimo, all’8 gennaio 2008 ed avendo la Corte erroneamente ritenuto contestata
la recidiva, in realtà non applicata sin dalla sentenza di primo grado.
2.3. Con il terzo motivo si denunciano vizi della motivazione in punto di quantificazione della pena.
La Corte di appello non si è avveduta della già avvenuta esclusione della recidiva e ha rideterminato la pena, riconoscendo le circostanze attenuanti generiche in rapporto di equivalenza con le aggravanti, sebbene l’equivalenza fosse stata ritenuta dal primo Giudice.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni che di seguito si espongono.
Il primo motivo è manifestamente infondato e proposto per ragioni non consentite.
2.1. La Seconda Sezione di questa Corte – alle cui prescrizioni, secondo la prospettazione difensiva, la sentenza impugnata non si sarebbe uniformata, in violazione del vincolo posto dall’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. – ha disposto l’annullamento della condanna nei confronti del ricorrente, accogliendo la sola doglianza difensiva relativa al riconoscimento della circostanza aggravante dell’essere il fatto commesso in danno di persone in stato di bisogno, ritenendo assorbita la questione del giudizio di bilanciamento tra circostanze di segno contrario.
La pronuncia rescindente ha, in particolare, stigmatizzato la motivazione della sentenza di appello i annullata nella parte in cui aveva riconosciuto detta aggravante in ragione della sola misura degli interessi pattuiti, e ne ha rilevato la sostanziale mancanza di specificità, in quanto priva di correlazione con le argomentazioni formulate nel gravame difensivo, alle quali non aveva fornito risposta. Più in dettaglio, ha aderito al consolidato indirizzo interpretativo in forza del quale lo stato di bisogno della persona offesa del delitto di usura può ritenersi provato anche in base alla sola misura degli interessi, qualora siano di entità tale da far ragionevolmente presumere che soltanto un soggetto che versi in quello stato possa contrarre il prestito a condizioni tanto inique e onerose (Sez. 2, n. 51670 del 23/11/2023, COGNOME, Rv. 285670 – 01; Sez. 2, n. 21993 del 03/03/2017, COGNOME, Rv. 270064 – 01; Sez. 2, n. 12791 del 13/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255357 – 01; Sez. 2, n. 20868 del 30/04/2009, Acri, Rv. 244884 – 01), ma ha ravvisato il vizio di motivazione della pronuncia adottata in quanto la Corte territoriale, astrattamente conformandosi a tale principio, si era limitata a parafrasare il contenuto, senza indicare sulla base di quali specifici elementi avesse fondato il proprio convincimento (precisazione ritenuta vieppiù necessaria, avuto riguardo alla pluralità delle vittime ed alla diversità delle circostanze fattuali che connotavano i più fatti di reato in contestazione).
2.2. Così perimetrato il tema devoluto, devono anzitutto ritenersi precluse le doglianze che, pur se indirettamente, pongono in dubbio il carattere usurario dei tassi di interesse come ricostruiti nella pregressa sentenza della Corte di appello.
2.3. Sotto altro profilo, tra le eccezioni difensive riferite al narrato diverse persone offese, non ha pregio quella relativa alla inutilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali dalle stesse rese, posto che il relativo contenuto è stato utilizzato ai fini della ricostruzione dei fatti in via mediata, attravers meccanismo delle contestazioni, conformemente al disposto dell’art. 500 cod. proc. pen.
Invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte regolatrice, le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone, il quale manifesti genuina difficoltà di elaborazione del ricordo, ove lo stesso ne affermi la veridicità anche mediante richiami atti a giustificare il deficit mnemonico, devono ritenersi confermate e, in quanto tali, possono essere recepite ed utilizzate come se fossero state rese direttamente in dibattimento. (v. Sez. 2, n. 17089 del 28/02/2017, COGNOME Rv. 270091 – 01, in una fattispecie in cui il teste aveva affermato, a seguito di contestazioni, riferendosi al contenuto delle sommarie informazioni rese durante le indagini: “Confermo quanto dichiarato, ripeto, non ho l’immagine nitida ma se l’ho dichiarato questo è”). Così pure, deve
puntualizzarsi che le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone che siano state confermate, anche se in termini laconici, vanno recepite e valutate come dichiarazioni rese dal testimone direttamente in sede dibattimentale, poiché l’art. 500, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui limita la utilizzabilità dei contenuti dichiarativi acquisiti al di fuor contradditorio alla sola valutazione di credibilità della testimonianza, concerne il solo caso di dichiarazioni dibattimentali difformi da quelle contenute nell’atto utilizzato per le contestazioni (Sez. 2, n. 35428 del 08/05/2018, COGNOME, Rv. 273455 – 01).
Conclusivamente t sul punto, è del tutto priva di fondamento la dedotta violazione del divieto di contestazioni c.d. acquisitive, formulata sul presupposto che difettassero nella specie i presupposti di cui all’art. 500, comma 4, cod. proc. pen., in quanto – come chiarito dalla sentenza rescindente – una tale acquisizione non risulta essere mai avvenuta nel presente giudizio.
2.4. Passando a valutare la trama motivazionale della sentenza rescissoria, sono state ricostruite partitamente ed in termini analitici le diverse vicende usurarie, in relazione alla ricorrenza dello stato di bisogno. Nel dettaglio:
quanto a COGNOME, nonostante le reticenze che connotano la sua deposizione, lo stato di bisogno è stato evinto, con inferenza logicamente ineccepibile, dalla chiusura delle attività commerciali a lui intestate e dal tentativo di vendere il capannone, a fronte della esposizione debitoria di 300.000,00 euro verso altro creditore;
similmente quanto a COGNOME, nei cui confronti, dopo la puntuale ricostruzione delle dinamiche della negoziazione usuraria, lo stato di bisogno è stato congruamente desunto dalla esorbitanza del tasso di interesse accertato (24,33% annuo su 10.000,00 euro) ,confermata, da ultimo, dalla istruttoria dibattimentale;
univocamente conducente, quanto a COGNOME, risulta la misura degli interessi praticati, pari al 66% annuo, a fronte di un prestito di 10.000,00 euro, alla luce della duplice circostanza: i) dell’essersi lo stesso rivolto al credito privato, pe l’esigenza di ripianare una pesante esposizione debitoria nei confronti delle banche, che già gli avevano intimato il rientro immediato, diversamente “minacciando” gravi conseguenze; ii) dell’avere assunto un concomitante gravoso impegno economico, per i lavori di ristrutturazione del ristorante.
da ultimo, quanto a Policastro, nei cui confronti il tasso usurario risulta essere stato pari al 120% annuo, sono state valutate significative le continue operazioni di cambio degli assegni di volta in volta dati in garanzia, a fronte della impossibilità di rientro.
2.5. Con tali elementi, che sono stati stimati significativi di un impellente assillo di natura economica degli usurati – non essendo diversamente spiegabile l’accettazione di condizioni di rientro tanto inique – la difesa non si confronta e, attraverso il lamentato vizio di motivazione, sollecita una alternativa e non consentita valutazione di merito in ordine ai presupposti costitutivi della aggravante, senza che siano individuati profili di manifesta illogicità o contraddittorietà nel tessuto motivazionale della decisione impugnata.
Al riguardo, costituisce affermazione oramai granitica della giurisprudenza di legittimità che non sono deducibili in tale Sede censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenz probatoria del singolo elemento» (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747).
Il secondo motivo, relativo al mancato rilievo della prescrizione, sopravvenuta alla sentenza della Corte di appello, è precluso dalla dichiarazione di irrevocabilità della affermazione di responsabilità contenuta nella sentenza della Corte di cassazione.
In applicazione dei principi in tema di giudicato progressivo, in caso di annullamento parziale della sentenza, qualora siano rimesse al giudice del rinvio questioni relative al riconoscimento di una circostanza aggravante, il giudicato formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato impedisce la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, se sopravvenuta alla pronuncia di annullamento. (Sez. 1, n. 43710 del 24/09/2015, Catanese, Rv. 264815 – 01).
Alla medesima conclusione si perverrebbe anche nell’ipotesi in cui sia stata la Corte di legittimità in sede rescindente a non avvedersi della causa estintiva già maturata, risultando egualmente preclusiva al riguardo la formazione del giudicato (non superabile se non con l’attivazione di rimedi straordinari e nei limiti di ammissibilità degli stessi).
Il terzo motivo, inerente alla determinazione della pena, è generico, aspecifico, e comunque manifestamente infondato.
In buona sostanza, la difesa si duole del mancato rilievo, nella pronuncia impugnata, della già avvenuta disapplicazione della recidiva da parte del primo Giudice, sicché, in sede di rideterminazione, erroneamente sarebbe stata ritenuta l’equivalenza delle aggravanti alle circostanze attenuanti generiche.
Di contro, la Corte territoriale, nelle premesse della sentenza rescissoria, ha dato atto della disapplicazione della recidiva da parte del primo giudice. E peraltro, a fronte della pena di anni dieci di reclusione ed euro 17.000,00 di multa irrogata, all’esito delle pronunciate assoluzioni, dal Tribunale di Trani in data 5 ottobre 2017, è stata da ultimo irrogata la pena di cui alla annullata sentenza della Corte di appello di Bari del 18 gennaio 2022, pari ad anni 6 e mesi 9 di reclusione ed euro 10.500,00 di multa; pena “rideterminata” in quanto tale sentenza era stata di fatto annullata.
Il giudizio di equivalenza, come espresso nella sentenza impugnata, risulta pertanto non illegittimo in relazione alle residue aggravanti ex art. 644 cod. pen. Deve peraltro rilevarsi che la pronuncia rescindente aveva ritenuto assorbito il motivo di appello volto a sollecitare un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, prefigurandone una rivalutazione – meramente eventuale in relazione ad un nuovo ed eventuale giudizio sulle aggravanti ex art. 644 cod. pen.; condizione che, nella specie, non si è verificata.
In ogni caso, per giurisprudenza consolidata, dalla quale non vi è motivo di discostarsi, nel caso in cui la Corte di cassazione accolga alcuni motivi di ricorso, dichiarando assorbiti gli altri, il giudice del rinvio è tenuto a riesaminare e a decidere senza alcun vincolo le questioni oggetto dei motivi assorbiti, purché queste siano state ritualmente devolute alla cognizione del giudice di secondo grado attraverso i motivi di appello (Sez. 5, n. 5509 del 08/01/2019, Castello, Rv. 275344 – 01; Sez. 5, n. 39786 del 11/07/2017, COGNOME, Rv. 271074 – 01); nel caso di specie, invece – come risulta dalla sentenza rescindente – la questione dell’erroneo computo di un aumento per la recidiva, sebbene tale circostanza fosse stata di fatto non applicata, non risulta essere stata specificamente dedotta.
nonché al versamento a favore della cassa delle ammende della somma che si valuta equo quantificare nella misura indicata in dispositivo, non
Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del Procedimento RAGIONE_SOCIALE /
vertendosi in ipotesi di assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186 del 13/06/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso il 14 febbraio 2025
Il Con igliere estensore
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Il Presidente