Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 25507 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 25507 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a
om iss is
avverso la sentenza del 12/09/2024 della CORTE APP.SEZ.COGNOME di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME
COGNOME
che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Milano, sezione delle Persone, dei Minori e della Famiglia, in parziale riforma della sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale per i minorenni di Milano, in data 12.1.2022, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato GLYPH T. R. GLYPH alla pena ritenuta di giustizia, in relazione ai reati ascrittigli ai capi H), I), 3), M) ed N) dell’imputazione, previa riqualificazione dei delitti di maltrattamenti ex art. 572, c.p., di cui ai capi H) e 3) nel delitto di atti persecutori ex art. 612 bis, co. 3, c.p., rideterminava la inflitta all’imputato in mesi tre di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata.
T. R.
, minorenne all’epoca dei fatti per cui si procede, viene contestato di aver compiuto, in concorso con altri soggetti nei confronti
dei quali si è proceduto separatamente, atti persecutori in danno di due minorenni, procurando loro, al fine di commettere i reati di atti
persecutori, anche utilizzando un coltello, lesioni personali volontarie,
GLYPH
fatti tutti commessi all’interno della comunità educativa omissis
dove il ricorrente, i coimputati e le persone offese erano ospitati.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il ricorrente, sollecitando, in via preliminare, questa Corte a sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 bis, co. 3, c.p., per violazione del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., e di proporzionalità e adeguatezza della pena ex art. 27 Cost., laddove tale disposizione prevede che “la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore”, qualora l’agente sia a sua volta minorenne, posto che, in tal caso, il minorenne dovrebbe andare esente da un siffatto aumento sanzionatorio, previsto per garantire una maggiore protezione alla vittima quando sia minore di età, in considerazione dell’immaturità, derivante dalla sua condizione di minore, del soggetto che commette il delitto.
Si tratta di questione rilevante, ad avviso del ricorrente, posto che la pena base per il riqualificato reato di cui al capo H) è stata individuata in
anni due di reclusione, a fronte del minimo edittale di anni uno di reclusione, aumentata fino alla metà in relazione alla circostanza aggravante di cui al terzo comma, oltre a non apparire manifestamente infondata.
Ciò posto, il ricorrente lamenta: 1) violazione di legge processuale e vizio di motivazione, per contrasto tra il dispositivo letto in udienza e la motivazione della sentenza, in quanto, mentre nel primo la pena complessivamente irrogata era pari a dieci mesi di reclusione, nella motivazione della sentenza, una volta depositata, era possibile rilevare che: a) nella parte dedicata al dispositivo la pena complessivamente irrogata era indicata nella misura di tre mesi di reclusione; b) nella penultima pagina della sentenza si affermava l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento dei benefici delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena, laddove, in sede di determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio si statuiva la concessione delle circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione; 2) vizio di motivazione per travisamento delle prove in punto di ritenuta sussistenza del delitto di cui all’art. 612 bis, c.p., posto che la corte territoriale non ha adeguatamente affrontato la problematica relativa alla reciprocità delle condotte moleste, verificatisi all’interno della comunità “INDIRIZZO“, dove conviveva un gruppo di minorenni obtorto collo, non potendosi minimizzare la versione offerta dagli imputati (a loro volta soggetti disagiati e deboli), cedendo il passo alla sola rappresentazione dei fatti offerta dalle persone offese, le cui versioni non possono considerarsi completamente e dettagliatamente attendibili, alla luce del loro accertato disagio psichico, risultando carente la motivazione proprio nella individuazione dell’evento di danno, ben potendo il disagio patito dalle vittime essere sovrapponibile a quello che le aveva condotte in una comunità minorile; 3) violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di cui all’art. 612 bis, c.p., in quanto, tenuto conto del particolare contesto in cui sono stati commessi i fatti per cui si procede e delle condotte tipiche che, in base all’esperienza,
caratterizzano il reato di stalking, nessuna di esse è ravvisabile nel caso in esame, in cui è possibile configurare solo i concorrenti reati di lesioni personali volontarie e di percosse; 4) vizio di motivazione, in quanto la corte territoriale ha omesso di fornire risposta alla doglianza difensiva, con cui veniva invocata la riqualificazione delle condotte sussumibili sotto l’art. 572, c.p., in quelle di percosse ex art. 581, c.p., e/o di lesioni personali volontarie semplici, ex art. 582, c.p., con conseguente pronuncia di sentenza di non doversi procedere per difetto di querela, anche per le lesioni ascritte nei capi I) ed M), previa esclusione delle contestate circostanze aggravanti; 5) violazione di legge, con riferimento alle circostanze aggravanti ritenute in relazione ai reati di lesioni personali, di cui ai capi I) ed L), posto che l’insussistenza del delitto ex art. 612 bis, c.p., fa venir meno la contestata circostanza aggravante del nesso teleologico di cui all’art. 61, n. 2), c.p.; non risulta dimostrata, inoltre, quanto al capo I), né la circostanza aggravante dell’uso di un coltello, né l’indebolimento permanente dell’organo della masticazione in seguito alla rottura del dente riferita dal I T. I, in difetto di una perizia medico-legale che accertasse l’effettiva sussistenza di un indebolimento permanente. Senza tacere che in mancanza di refertazioni sanitarie, tutte le condotte andrebbero qualificate come percosse e sottoposte al trattamento sanzionatorio previsto per i reati di competenza del giudice di pace, come del resto le lesioni personali, una volta venute meno le circostanze aggravanti, evenienza che, in ogni caso, impone una pronuncia di non doversi procedere per difetto di querela; 6) vizio di motivazione e violazione in punto di mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena, di cui non si comprendono le ragioni una volta che, come si è già detto, la corte territoriale ha, contraddittoriamente, prima riconosciuto e poi negato le circostanze attenuanti generiche, non concedendo la sospensione condizionale della pena sulla base delle medesime ragioni per cui ha negato le circostanze attenuanti generiche e senza indicare per quale motivo non ha accolto la richiesta del procuratore generale favorevole al riconoscimento del detto beneficio, di cui peraltro illT.R.1
poteva godere anche alla luce dell’unico precedente penale esistente a suo carico, per il quale aveva goduto di analogo beneficio, subordinato alla prestazione di attività non retribuita in favore della comunità, che egli stava svolgendo, come da attestazione dell’associazione di volontariato “RAGIONE_SOCIALE“; 7) mancanza di motivazione e violazione di legge, in punto di mancata risposta al rilievo difensivo volto a ottenere il riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna, ai sensi dell’art. 175, c.p.; 8) violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento della disciplina della continuazione con i reati per i quali l’imputato era stato condannato con sentenza pronunciata in sede di udienza preliminare dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale per i minorenni di Brescia n. 42/18 del 5.2.2018; 10) l’intervenuta estinzione per compiuto decorso del termine di prescrizione di tutti i reati per cui si procede alla data del 23.1.2025.
Con requisitoria scritta del 7.3.2025, da valere come memoria, essendo stata chiesta, nelle more la discussione in forma orale, del proposto ricorso, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott.ssa NOME COGNOME chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile e che venga rettificata la sentenza impugnata, nel senso che laddove nel dispositivo viene indicata come pena complessivamente inflitta all’imputato quella di mesi tre di reclusione, sia, invece, indicata quella di mesi dieci di reclusione.
Il ricorso va rigettato, essendo sorretto da motivi in parte infondati, in parte inammissibili, mentre va accolta la richiesta di correzione dell’errore materiale formulata dal pubblico ministero.
Preliminarmente non può essere accolta la richiesta del I T.R. I di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 bis, co. 3, c.p., per violazione dei principi di uguaglianza, di cui all’art. 3, Cost., e di proporzionalità e adeguatezza della pena ex art. 27, Cost., nei sensi in precedenza indicati.
La questione, infatti, per come prospettata dal ricorrente, peraltro con generico argomentare, appare manifestamente infondata.
Al riguardo si osserva che, come più volte affermato dalla Corte Costituzionale, la violazione del principio di eguaglianza sussiste qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (cfr. S. 67/2023, mass. 45524; S. 270/2022, mass. 45186; S. 165/2020, mass. 43304; S. 155/2014, mass. 37985; S. 108/2006; S. 340/2004; S. 136/2004).
Si è in presenza, pertanto, di una violazione dell’art. 3 Cost., solo qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili; nel qual caso è insindacabile la discrezionalità del legislatore, sempre entro il limite generale dei principii di proporzionalità e ragionevolezza (cfr. S. 171/2022, mass. 44915).
Con particolare riferimento al diritto penale, il Giudice delle leggi ha valorizzato il fondamentale principio di eguaglianza contenuto nell’art. 3 Cost., che esige un diritto penale non arbitrario, non irragionevole e non sproporzionato, i principi di cui all’art. 27 Cost., per cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, e il principio di proporzionalità della pena rispetto all’offesa, presupposto dall’art. 27 Cost. e codificato anche nell’art. 49, par. 3, della CDFUE, rivendicando il proprio poteredovere di intervenire a fronte di determinazioni legislative palesemente arbitrarie – cioè in caso di sperequazioni punitive di tale gravità da risultare radicalmente ingiustificate, anche alla luce dei canoni di razionalità e di ragionevolezza – nonché di sindacare la proporzionalità e la ragionevolezza intrinseca della misura della pena prevista dal legislatore, non potendo la Corte stessa in alcun modo abdicare al controllo di costituzionalità di scelte legislative che incidono sulla libertà e sui diritti della persona (cfr. S. 179/ 2017, mass. 41196).
Orbene, con scelta proporzionale, ragionevole e adeguata, il legislatore ha inteso soddisfare la particolare esigenza di modulare la risposta punitiva dello Stato nel caso di reato commesso da soggetto minore
degli anni diciotto, ma imputabile per avere compiuto i quattordici anni d’età al momento della commissione del fatto-reato, ove sia dotato della necessaria capacità d’intendere e di volere, prevedendo la speciale circostanza attenuante di cui all’art. 98, c.p., che va inderogabilmente riconosciuta, una volta accertata dal giudice la sussistenza della capacità di intendere e di volere del minore al momento del fatto (cfr., ex plurimis, Sez. 3, n. 42105 del 11/10/2007, Rv. 238261).
Di conseguenza non può considerarsi affatto arbitraria, irragionevole e sproporzionata, la scelta del legislatore di non avere escluso l’applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 612 bis, co. 3, c.p., all’autore del reato, che sia minore degli anni diciotto al momento della commissione del fatto.
Da un lato, infatti, la qualità di minorenne della persona offesa dal reato, che integra la menzionata circostanza aggravante, è situazione non omogenea a quella in cui autore del reato sia persona minore degli anni diciotto, giustificando un aggravamento sanzionatorio proprio in ragione della particolare protezione da assicurare ai minorenni vittime di reati e trovando, per converso, adeguata tutela la considerazione della non compiuta maturità del minorenne autore di un reato nella complessiva disciplina posta dagli artt. 97 e 98, c.p., in tema di imputabilità dei minori e di trattamento sanzionatorio; dall’altro, del tutto inconferente appare il riferimento quale tertium comparationis alla previsione ex art. 609-quater, c.p., di una speciale causa di esclusione della punibilità del minorenne che si sia reso protagonista di atti sessuali con un minore che abbia compiuto i tredici anni di età non trattandosi di situazione sostanzialmente identica a quella contemplata dall’art. 612 bis, c.p., ma, anzi, non assimilabile a tale ultima fattispecie, essendo la ratio della menzionata disciplina ispirata dalla necessità di affrontare, sul versante penalistico, il delicato tema dei rapporti sessuali tra minorenni, prescindendo completamente dagli elementi tipici del reato di cui all’art. 612 bis, c.p., a partire dalle reiterate minacce o molestie.
Con riferimento al primo motivo di ricorso, si osserva quanto segue.
Non è revocabile in dubbio che, come si evince dalla lettura degli atti processuali, consentita in questa sede di legittimità, essendo stato dedotto un error in procedendo (cfr. Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Rv. 220093), il giudice di appello sia incorso nell’errore evidenziato dal ricorrente, in quanto nel dispositivo letto all’esito dell’udienza del 12.9.2024 l’imputato risulta condannato alla pena di dieci mesi di reclusione, mentre nel dispositivo con cui si conclude la motivazione della sentenza depositata il 26 settembre 2024 la pena irrogata al I T.R. I . veniva indicata in mesi tre di reclusione.
Tale errore, tuttavia, non determina alcuna nullità della sentenza della corte territoriale, in quanto, come affermato in più occasioni dalla Suprema Corte, la difformità tra dispositivo letto in udienza e dispositivo in calce alla motivazione non è causa di nullità della sentenza, che ricorre nei soli casi in cui difetti totalmente il dispositivo, per cui, prevalendo il dispositivo di udienza, detta difformità è sanabile mediante il procedimento di correzione dell’errore materiale (cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 19765 del 01/12/2023, Rv. 286398; Sez. 6, n. 18372 del 28/03/2017, Rv. 269852; Sez. 3, n. 125 del 19i/11/2008, Rv. 242258).
Alla correzione di tale errore materiale si può procedere, come richiesto dal sostituto procuratore generale di legittimità, in questa sede, ai sensi dell’art. 619 cod. proc. pen.
Come è stato osservato in un condivisibile arresto di questa Corte, infatti, nel giudizio di legittimità, i casi di rettificazione elencati nell’art. 619, commi 1 e 2, cod. proc. pen. non sono tassativi ed è quindi suscettibile di rettificazione ogni altro erroneo enunciato contenuto nella sentenza impugnata, del quale sia palese e pacifica la riconoscibilità, qualora non comporti la necessità dell’annullamento (cfr. Sez. 1, n. 35423 del 18/06/2014, Rv. 260279). In motivazione, la Corte ha precisato che questa regola discende dai principi dell’economia, dell’efficienza processuale e della massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto e attività non essenziale.
Il principio è stato recentemente ripreso da Sez. Il, n. 24701 del 29/09/2022, Rv. 283754, nella cui motivazione si è precisato che, con specifico riguardo all’art. 619 cod. proc. pen., le Sezioni Unite hanno individuato la ratio della norma nell’esigenza di evitare l’annullamento della decisione impugnata in tutte le occasioni nelle quali si possa rimediare a errori o cadute di attenzione del giudice a quo lasciando inalterato il contenuto decisorio essenziale della sentenza impugnata (cfr. Sez. U, n. 9973 del 24/06/1998, Rv. 211072). La Suprema Corte ha peraltro sottolineato in altre decisioni che la norma in esame, nel prevedere la rettificazione nel giudizio di legittimità, costituisce disposizione speciale e derogatoria della più generale disciplina della correzione di errori materiali dettata dall’art. 130 cod. proc. pen., nella parte in cui consente alla Corte di Cassazione di procedere direttamente alla correzione anche in presenza della condizione ostativa posta dall’art. 130 cod. proc. pen., nel precludere tale facoltà al giudice competente a conoscere dell’impugnazione, ove la stessa sia dichiarata inammissibile (cfr. Sez. 3, n. 30236 del 09/03/2022, Rv. 283650; Sez. 3, n. 19627 del 04/03/2003, Rv. 224846; Sez. 1, n. 2149 del 27/11/1998, Rv. 212532). A prescindere da quest’ultimo aspetto, l’art. 619 cod. proc. pen., riprende pertanto dall’art. 130 cod. proc. pen., il fondamento definitorio dell’errore che giustifica la mera correzione in luogo dell’annullamento. Questi tratti fondamentali sono stati nitidamente delineati, ancora dalle Sezioni Unite, nella definizione dell’errore correggibile quale divergenza evidente e casuale fra la volontà del giudice e il correttivo mezzo di espressione, della quale costituiscono manifestazioni tipiche l’errore linguistico e quello immediatamente rilevabile dal contesto interno della sentenza (cfr. Sez. U, n. 7945 del 31/01/2008, Rv. 238426). Il limite dell’errore rilevabile con la procedura di correzione e, nel giudizio di legittimità, di rettificazione, rispetto al vizio che impone viceversa l’annullamento della sentenza impugnata, viene a esserne ricostruito, in negativo, nell’ininfluenza sul contenuto decisorio della sentenza impugnata; e, in positivo, nell’evidente divergenza fra il dato testuale e
l’effettiva volontà del decidente (cfr. anche la già citata Sez. 1, n. 19765 del 01/12/2023, Rv. 286398).
Ciò è quanto accaduto nel caso in esame, non essendo revocabile in dubbio che la volontà della corte territoriale fosse quella, consacrata nel dispositivo letto in udienza, conforme al contenuto della motivazione poi resa (cfr. pp. 22-23), di irrogare allT.R. h acomplessiva pena finale di dieci mesi di reclusione e non di tre mesi, con la conseguenza che nel dispositivo riportato nella sentenza impugnata depositata completa di motivazione, l’indicazione della pena di «mesi tre di reclusione », va sostituita con quella di «mesi dieci di reclusione».
Quanto all’ulteriore doglianza articolata con il secondo motivo di ricorso, è incontestabile la contraddizione colta dal ricorrente nella motivazione della corte di appello, che, nella parte dedicata alla determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio, da un lato, ha fissato in mesi sedici di reclusione la pena-base per il reato di cui al capo H), ritenuto il più grave tra quelli unificati sotto il vincolo della continuazione, dopo avere riconosciuto al prevenuto le circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione (cfr. p. 22); dall’altro, ha affermato, subito dopo, l’insussistenza delle condizioni per concedere al I T.R. III suddetto beneficio.
Tale contraddizione, tuttavia, difetta di ogni rilevanza nel caso in esame, perché, non essendovi dubbio alcuno che la corte territoriale è giunta alla pena di dieci mesi di reclusione indicata in motivazione e nel dispositivo letto in udienza, previo riconoscimento in favore del ITRI delle circostanze attenuanti generiche, sul punto l’impugnazione dell’imputato è inammissibile, ai sensi dell’art. 591, co. 1, lett. a), essendo evidente che quest’ultimo non ha nessun interesse a far valere un vizio, che si è risolto in suo favore, non dando vita a una situazione per lui pregiudizievole, che debba essere eliminata attraverso una pronuncia di annullamento.
Manifestamente infondati, invece, sono i rilievi, articolato dal T.R. con il settimo e ottavo motivo di ricorso, ma anticipati con il primo motivo di impugnazione, (cfr. p. 7 del ricorso), sul mancato riconoscimento in
favore dell’imputato del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Al riguardo va ribadito l’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133, c.p., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla sospensione, ivi compresi i precedenti penali, i precedenti giudiziari e le circostanze relative alla condotta di reato posta in essere (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 17953 del 7.2.2020; Cass., Sez. 5, n. 57704 del 14.9.2017, Rv. 272087; Cass., Sez. 3, n. 35852 dell’11.5.2016, Rv. 267639).
Si è, pertanto, affermato, ad esempio, che, in una fattispecie di tentata estorsione, la particolare violenza che aveva connotato le condotte dell’imputato giustificava il giudizio negativo sulla prognosi necessaria per la concessione del beneficio (cfr. Sez. 2 n. 19298 del 15.4.2015, Rv. 263534).
Di tali principi ha fatto buon governo la corte territoriale, evidenziando come i connotati di estrema gravità dei fatti ascritti all’imputato, che “ha sottoposto a vessazioni e aggressioni due coetanei in modo umiliante, spietato e continuativo, nonostante i segni di sofferenza e di malessere da costoro esternati”, in uno con la mancanza di segnali di ravvedimento o di presa di coscienza del disvalore delle proprie condotte, costituiscano l’ostacolo alla prognosi necessaria per la concessione del beneficio di cui si discute (cfr. p. 23), sicché sul punto le censure difensive appaiono inammissibili anche perché versate in fatto.
7. In parte inammissibili e in parte infondati appaiono il terzo e quarto motivo di ricorso.
Il ricorrente non tiene nel dovuto conto che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili
o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, Rv. 280601).
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, come si è già osservato, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di Cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
Va, pertanto, ribadito che, in tema di giudizio di legittimità, la cognizione della Corte di cassazione è funzionale a verificare la compatibilità della motivazione della decisione con il senso comune e con i limiti di un apprezzamento plausibile, non rientrando tra le sue competenze lo stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti, né condividerne la giustificazione (cfr. Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504).1
In altri termini, il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito e il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una mera censura di fatto sul profilo specifico dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale, in realtà non configurabili nel caso in esame, posto che il giudice di secondo grado ha fondato la propria decisione su di un esaustivo percorso argomentativo, contraddistinto da intrinseca coerenza logica, fondato sulle dichiarazioni delle persone offese, sottoposte a un rigoroso vaglio in termini di credibilità soggettiva e di attendibilità intrinseca (cfr. le pagine da 16 a 22 della sentenza oggetto di ricorso dedicate al giudizio di attendibilità delle persone offese I T.
D. GLYPH
).
Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità in un condivisibile arresto, il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non
esplicitamente GLYPH presi GLYPH in GLYPH considerazione GLYPH nella GLYPH motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece, a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (cfr. Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, Rv. 274816).
Tali necessari passaggi argomentativi non si rinvengono nel ricorso di cui si discute, con il quale, in definitiva, l’imputato si limita a proporre, come già detto, una versione dei fatti genericamente alternativa, senza indicare puntualmente l’atto o gli atti processuali, non considerati o malamente interpretati, in grado, si badi, non di fondare una valutazione alternativa delle risultanze processuali, ma inficiare radicalmente il percorso motivazionale seguito dai giudici di merito.
Infondato appare il rilievo sull’insussistenza degli elementi costitutivi del reato ex art. 612 bis, c.p., ad integrare il quale, come è noto, dal punto di vista oggettivo, sono sufficienti anche due sole condotte di minacce, molestie (o lesioni), pur se commesse in un breve arco di tempo, in quanto anche due sole condotte di tale natura sono idonee a costituire la “reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale (cfr. ex plurimis, Sez. 5, n. 33842 del 03/04/2018, Rv. 273622).
Per converso il delitto di atti persecutori è configurabile anche quando le condotte di violenza o minaccia integranti la “reiterazione” criminosa siano intervallate da un prolungato lasso temporale. (cfr. Sez. 5, n. 30525 del 22/04/2021, Rv. 281699).
In relazione, poi, al profilo riguardante l’evento del reato di cui si discute si osserva che, secondo l’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, che trova fondamento in una semplice lettura ricognitiva della norma, tra gli eventi, alternativamente previsti dall’art. 612 bis, co. 1, c.p., il cui verificarsi è indispensabile per l’integrazione della fattispecie delittuosa di “atti persecutori”, si colloca sia “un perdurante e grave stato di ansia” (cfr., ex plurimis, Sez. V, 19.5.2011, n. 29872, Rv. 250399; Sez. V, 11.4.2017, n. 26891, Rv. 270867; Sez. V, 24.10.2016, n. 1826, rv. 268992), sia l’alterazione delle proprie abitudini di vita, integrata da ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, indotto nella vittima dalla condotta persecutoria altrui, finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore (cfr. Sez. V, 27.11.2012, n. 20993, rv. 255436), sia, infine, il fondato timore ingenerato nella vittima per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto (cfr. Sez. 3, n. 46179 del 23/10/2013, Rv. 257632).
Sul punto la corte territoriale ha reso specifica motivazione, evidenziando, con un argomentare logicamente ineccepibile, dunque non censurabile in questa sede, come il T.R. fosse tra i principali protagonisti del gruppo di ragazzi più aggressivi, violenti e prevaricatori, che, sistematicamente, anche a turno, avevano posto in essere una pluralità di condotte di sopraffazione e di maltrattamento in danno delle persone offese, scelte come bersaglio, perché ritenuti più deboli e fragili, puntualmente descritte dalle vittime.
Condotte, sulle quali si è soffermato lo stesso TCOGNOME il quale, pur negando di essere autore di violenze sessuali in danno delle persone offese, ha ammesso di “avere dato pugni, di aver lanciato flaconi, di avere messo pezzetti di carta infuocati tra le dita dei piedi dell GLYPH T. e di avere fatto il “gesto di appoggiare il pene sulla testa dell – T. mentre stava guardando la televisione”, pur precisando di “non avere avuto cattive intenzioni”.
In questo contesto si inserisce la puntuale narrazione del I D. I il quale ha riferito che il ricorrente, unitamente al coimputato I GLYPH R. GLYPH I nei
confronti del quale si è proceduto separatamente, “lo percuoteva abitualmente, giungendo a operare incursioni notturne nel corso delle quali la persona offesa veniva trascinata giù dal letto a castello, percossa con manici di scopa, insultata e dileggiata”, aggiungendo che analoghe condotte si erano verificate mentre la stessa persona offesa faceva la doccia, in quanto illT.R. D. i che ha riferito di avere percepito la maggiore prestanza fisica dei suoi persecutori, in ragione della quale egli prese l’abitudine di fare la doccia indossando “le mutande, per non essere sorpreso inerme all’interno del bagno dagli aggressori”, tra i quali collocava il T.R. dallo stesso D. definiti “bestie per l’inusitata violenza nei suoi confronti”.
Appare, pertanto, del tutto corretta la conclusione cui è giunta la corte territoriale nel ritenere che la condotta dell T.R. [integri gli estremi del reato di cui all’art. 612 bis, conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui nella nozione di molestia, rilevante ai fini del delitto di atti persecutori, rientra ogni indebita ingerenza o interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio
e ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica (cfr. Sez. 5, n. 15734 del 13/01/2023, Rv. 284587)
Tale conclusione appare in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’ evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, Rv. 261535; Sez. 5, n. 17795, del 02/03/2017, Rv. 269621), essendosi, inoltre, precisato come ai fini della configurabilità del reato di cui di discute, non sia necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 57704, del 14/09/2017, Rv. 272086, relativa a fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che il grave stato d’ansia provocato alla vittima dall’imputato si ricavasse inequivocabilmente dal complesso probatorio risultante ai giudici, al di là della descrizione di esso fornita dalla persona offesa).
8. La ritenuta sussistenza del delitto di cui all’art. 612 bis, c.p., rende priva di pregio la doglianza di cui al quinto motivo di ricorso.
Come affermato da un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, non è censurabile in questa sede la sentenza che indichi con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata.
Pertanto, anche il silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame non rileva qualora questa sia stata disattesa dalla motivazione
della sentenza complessivamente considerata perché non è necessario che il giudice confuti esplicitamente la singola tesi difensiva disattesa, fornendo specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell’atto d’impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell’appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all’art. 606, comma primo, lett. e), c.p.p. (cfr. Sez. 2, 12/02/2009, n. 8619; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Rv. 260841; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Rv. 277593).
A ciò si aggiunga, per completezza, che la giurisprudenza della Suprema Corte riconosce il concorso tra il delitto di cui all’art. 612 bis, c.p., e quello di lesioni personali volontarie (cfr. Sez. 5, n. 10051 del 19/01/2017, Rv. 269456).
9. Allo stesso modo, una volta dimostrata l’infondatezza dei rilievi difensivi volti a contestare la configurabilità del delitto di atti persecutori, risulta infondata anche la doglianza con cui, nel sesto motivo di ricorso, si denuncia l’insussistenza, in relazione ai reati di lesioni personali, di cui ai capi I) ed L), della contestata e ritenuta circostanza aggravante del nesso teleologico di cui all’art. 61, n. 2), c.p., in adesione, peraltro, a un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, alla luce del quale, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante della connessione teleologica, di cui all’art. 61 n. 2 cod. pen., è sufficiente che la volontà dell’agente sia diretta, come nel caso che ci occupa, alla commissione del reato-fine e che a tale scopo egli si sia servito del reato-mezzo (Fattispecie in tema di lesioni finalisticamente dirette a commettere il reato di atti persecutori: cfr. Sez. 5, n. 38399 del 10/07/2017, Rv. 271211).
Pertanto, i reati di lesioni personali volontarie per cui si procede sono perseguibili d’ufficio, essendo stata correttamente riconosciuta dai giudici di merito la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 2), c.p., indicata nell’art. 576, co. 1, n. 1), c.p. (fatto commesso al fine di eseguire il reato di atti persecutori), richiamato dall’art. 585, co. 1, c.p., a sua volta menzionato dall’art. 582, co. 2, c.p., tra i casi di lesioni personali volontarie aggravate per la cui procedibilità non è richiesta la presentazione di una querela.
Né va taciuto, sempre con riferimento alle doglianze prospettate con il quinto motivo di ricorso, che la mancanza di documentazione medicosanitaria attestante la natura delle lesioni subìte dalle persone offese non impedisce di affermarne la sussistenza, conformemente al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di valutazione della prova, il reato di lesioni personali può essere dimostrato, per il principio del libero convincimento del giudice e per l’assenza di una gerarchia tra i mezzi di prova, sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa, di cui sia stata positivamente valutata l’attendibilità, anche in mancanza di un referto medico che attesti la “malattia” derivata dalla condotta lesiva (cfr. Sez. 3, n. 42027 del 18/09/2014, Rv. 260986; Sez. 3, n. 43614 del 19/10/2021, Rv. 282088), risultando, inoltre, in tema di lesioni personali, anche una menomazione minima, purché apprezzabile, di un organo, tale da integrare la circostanza aggravante di cui all’art. 583, comma primo, n. 2, cod. pen. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente l’aggravante in presenza di plurime fratture dentarie da cui era derivato un indebolimento permanente dell’organo della masticazione: cfr. Sez. 5, n. 27986 del 05/02/2013, Rv. 256357)
In questo contesto risultano inammissibili i rilievi volti a contestare la sussistenza delle circostanze aggravanti dell’uso di un coltello, denunciato dal GLYPH D. , e dell’indebolimento permanete dell’organo della masticazione, derivante dalla rottura del dente riferita dal I GLYPH T . 1′ .. aggredendo la ricostruzione dei fatti forniti dalle persone offese, trattandosi di rilievi, per le ragioni già esposte, versati in fatto.
10. Infondato deve ritenersi il decimo motivo di ricorso.
Facendo dipendere il legislatore la concessione della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale dalla valutazione degli elementi indicati dall’art.133 cod. pen., ed avendo la corte territoriale, con motivazione esente da vizio, come si è detto, rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione condizionale della pena, alla luce dei parametri fissati dall’art. 133, c.p., deve ritenersi implicita in tale motivazione anche la pronuncia di diniego del beneficio previsto dall’art. 175, c.p. (in questo senso, con riferimento alla recidiva, cfr. Sez. 3, n. 19648 del 27/02/2019, Rv. 275748).
11. Infondato deve ritenersi l’undicesimo motivo di ricorso.
Come è noto, da tempo la giurisprudenza di legittimità è attestata sul principio espresso dalla Suprema Corte nella sua espressione più autorevole, secondo cui il riconoscimento della continuazione, necessita, sia in sede di esecuzione, sia nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spaziotemporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea (cfr. Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Rv. 270074).
Orbene, nel rigettare la richiesta dell’imputato al riguardo, la corte di appello ha evidenziato l’impossibilità di configurare l’esistenza di un unico disegno criminoso tra i reati di detenzione e cessione illecita di sostanze stupefacenti, commessi tra ottobre e novembre del 2013, e di danneggiamento di edifici destinati all’uso pubblico, commesso nel gennaio del 2016, già giudicati, e quelli oggetto del presente procedimento, trattandosi, in tutta evidenza, di reati non riconducibili alle indicate nozioni di omogeneità delle violazioni e del bene protetto e, in parte, di contiguità spazio-temporale (le condotte per cui si procede,
essendo concentrate in un periodo compreso tra l’aprile e il novembre del 2016)..
Il ricorrente, tuttavia, eccepisce che l’identità del disegno criminoso emergerebbe dalla circostanza che già il giudice di primo grado, nel diverso procedimento, aveva riconosciuto la sussistenza della disciplina della continuazione, in considerazione del lasso temporale relativamente contenuto in cui si collocano i reati innanzi indicati e del fatto che tali reati apparivano espressione di un’unica spinta trasgressiva alimentata dal profondo disagio interiore espresso dai giovani nel periodo in questione, anche attraverso l’uso di sostanze stupefacenti.
Si tratta di un rilievo non condivisibile, posto che, da un lato, la valutazione operata dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale per i minorenni di Brescia con la sentenza pronunciata il 5.2.2018 nei confronti del ricorrente e del fratello gemello non vincolava la corte territoriale; dall’altro proprio la disomogeneità delle diverse violazioni e dei beni protetti dalle norme violate, costituisce un ostacolo evidente al riconoscimento della disciplina della continuazione, ove anche si volesse valorizzare lo stato di tossicodipendenza del
T.R.
Come affermato, infatti, da un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, in tema di reato continuato, a seguito della modifica dell’art. 671, comma 1, cod. proc. pen. ad opera della legge 21 febbraio 2006, n.49, lo stato di tossicodipendenza, pur non comportando automaticamente il riconoscimento dell’unicità del disegno criminoso, può giustificarlo con riguardo ai reati che siano collegati e dipendenti a tale stato, sempre che ricorrano anche le altre condizioni individuate dalla giurisprudenza per la sussistenza della continuazione (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 22493 del 21/03/2019, Rv. 275420).
12. Infondato, infine, appare l’ultimo motivo di impugnazione, in relazione al quale appare sufficiente riportare integralmente le considerazioni svolte dal pubblico ministero nella requisitoria scrittamemoria del 7.3.2025, in quanto condivisibili.
“Deve escludersi che sia maturata la prescrizione per i reati di atti persecutori (capi H e 3), in quanto aggravati ai sensi del comma 3 dell’art. 612-bis cod. pen. (aggravante ad effetto speciale) e dunque con un tempo di prescrizione che, a prescindere dalle sospensioni, è pari a 9 anni, 4 mesi e 15 giorni, non decorso nemmeno ove si faccia decorrere il termine iniziale di prescrizione dal raggiungimento della maggiore età del ricorrente (5.9.2016). Analoghe considerazioni valgono per il delitto di lesioni aggravate di cui al capo L), in relazione al quale la pena massima prevista pari a sette anni, tenuto conto dell’aggravante dell’art. 583 n. 2 cod.pen. (indebolimento della masticazione), deve essere aumentata della metà per effetto del riconoscimento dell’altra aggravante dell’art. 576 comma i n. 1 (nesso teleologico) cod. pen. L’aggiunta a tale termine di un ulteriore quarto di pena per l’effetto interruttivo determina dunque un tempo di prescrizione pari ad oltre 13 anni. Riguardo, infine, al capo I), va anzitutto osservato che la decorrenza del termine di prescrizione per tale reato va individuata nella data del 5.9.2016 e cioè la data in cui il ricorrente è diventato maggiorenne. Ciò in quanto, come risulta dalle dichiarazioni della p.o.
D. riportate nella sentenza di primo grado e dalle considerazioni svolte in tale provvedimento sul reato di lesioni, egli è stato reiteratamente vittima di violenza da parte del ricorrente attraverso azioni senz’altro idonee a procurare reiteratamente lesioni e non integrative della diversa fattispecie di percosse: riferisce infatti la vittima, al di là dell’episodio più eclatante avvenuto il 19.4.2016 con l’uso di arma, parlando specificamente della condotta tenuta dal ricorrente, di bruciature sulle gambe con accendino, di essere stato ribaltato dal letto a castello in cui dormiva, di colpi inferti con scope, secchi, ed il “mocho”, di ripetuti tagli inferti alle mani da altri, ma alla costante presenza del ricorrente. È dunque pacifico che la decorrenza del reato debba essere individuata nella data del 5.9.2016, poiché le condotte che hanno provocato lesioni, sebbene non refertate ma comunque da ritenere sussistenti per quanto detto sopra, si sono protratte da aprile 2016 alla suddetta data. Pertanto, riguardo al capo I),
il tempo da considerare ai fini della prescrizione è quello di 7 anni e 6 mesi (sino al 5.3.2024) al quale devono aggiungersi due periodi di sospensione: dal 5.5.2021 al 29.9.2021 (gg. 60), per l’istanza di rinvio per legittimo impedimento del coimputato B. ; dal 24.10.2023 al 12.9.2024 (gg. 328), a seguito dell’emissione dell’ordinanza di messa alla prova; i due periodi che spostano il termine finale di prescrizione per il reato di cui al capo I) sino al 28.3.2025.” 13. Va, infine, disposta l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento, ai sensi dell’art. 52, co. 5, d. Igs. 30/06/2003 n. 196.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Visto l’art. 130, cod. proc. pen., corregge la sentenza documento della corte di appello di Milano nel senso che la pena finale irrogata è di dieci mesi di reclusione, anziché mesi tre di reclusione. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52, d. Igs. 196/2003, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma il 26.3.2025.