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Stabile convivenza: l’aggravante resta anche senza amore

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29849/2025, ha confermato la condanna per omicidio aggravato, chiarendo due principi fondamentali. In primo luogo, ha rigettato la tesi del vizio di mente, non ritenendo sufficienti gli stati emotivi o passionali non inseriti in un quadro patologico conclamato. In secondo luogo, e più significativamente, ha stabilito che l’aggravante della stabile convivenza sussiste anche quando la relazione affettiva tra le parti è terminata, purché persista la coabitazione. La Corte ha sottolineato che la legge intende tutelare la vittima proprio nella fase di maggiore vulnerabilità che coincide con la condivisione dello spazio vitale, a prescindere dal legame emotivo.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Stabile convivenza e omicidio: l’aggravante vale anche se la relazione è finita?

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha affrontato un tema delicato e cruciale nell’ambito dei reati commessi in contesti familiari: l’applicazione dell’aggravante della stabile convivenza in caso di omicidio. Il caso riguardava una tragedia maturata all’interno di una coppia in profonda crisi, dove la coabitazione persisteva nonostante la fine del legame affettivo. La Suprema Corte ha stabilito che la condivisione oggettiva dell’abitazione è sufficiente a configurare l’aggravante, anche in assenza di un rapporto sentimentale, per garantire una maggiore tutela alla vittima.

I fatti del caso

Il dramma si è consumato al culmine di una crisi di coppia che durava da tempo. Un uomo e una donna, conviventi da diciannove anni e genitori di due figli minori, vivevano una situazione di forte tensione, aggravatasi dopo la nascita della secondogenita. I dissidi e le incomprensioni erano sfociati in aggressioni e minacce, tanto che l’uomo da mesi dormiva sul divano in soggiorno. In questo contesto, l’imputato ha commesso l’omicidio della compagna.

La questione del vizio di mente

Nei gradi di merito, la difesa dell’imputato aveva sostenuto la tesi dell’incapacità di intendere e di volere, chiedendo una perizia psichiatrica. Si sosteneva che l’uomo avesse agito in preda a un cosiddetto ‘raptus omicidiario’. Tuttavia, sia la Corte d’Assise che la Corte d’Appello hanno respinto questa ricostruzione. I giudici hanno osservato che non vi era alcuna prova di una psicopatologia preesistente. La documentazione sanitaria prodotta, risalente a dopo il delitto (post delictum), indicava uno stato di shock post-traumatico, considerato una conseguenza e non la causa del gesto. Testimonianze, come quella di un amico stretto, confermavano che l’imputato non aveva mai mostrato comportamenti anomali prima del fatto. La Cassazione ha confermato questa linea, ribadendo che gli stati emotivi e passionali, come un eccesso di collera, non escludono l’imputabilità se non si inseriscono in un quadro di infermità mentale grave e conclamata.

L’aggravante della stabile convivenza in assenza di legame affettivo

Il punto centrale del ricorso in Cassazione riguardava l’applicazione dell’aggravante prevista dall’art. 577 c.p., che punisce più severamente l’omicidio commesso ai danni di una persona con cui l’autore ha una stabile convivenza. La difesa sosteneva che, essendo il legame affettivo ormai cessato, la convivenza era puramente ‘materiale’ e non poteva giustificare l’aggravante.

Le motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha respinto con forza questa interpretazione. I giudici hanno spiegato che la riforma legislativa del 2019 (la cosiddetta legge ‘Codice Rosso’) ha volutamente distinto la ‘relazione affettiva’ dalla ‘stabile convivenza’, rendendole due situazioni alternative che attivano l’aggravante. La ratio della norma è quella di offrire un livello di tutela più elevato a chi si trova a condividere uno spazio abitativo con il proprio aggressore. Questo perché la coabitazione, anche quando il legame emotivo è spezzato, crea una condizione di particolare vulnerabilità per la vittima.
La Corte ha evidenziato come la scelta del legislatore sia stata quella di basare l’aggravante su un dato oggettivo – la condivisione della casa – proprio per proteggere le persone nei momenti di maggiore fragilità, come la fine di una relazione. Finché la coabitazione perdura, la tutela è massima. Quando cessa, l’omicidio dell’ex convivente è comunque punito più gravemente del reato comune, ma con una pena inferiore, a dimostrazione della centralità del fattore abitativo.

Conclusioni

La sentenza chiarisce in modo inequivocabile che l’aggravante della stabile convivenza si applica sulla base del dato oggettivo e fattuale della coabitazione, indipendentemente dalla persistenza di un legame affettivo. La condivisione degli spazi vitali è di per sé un fattore che aumenta il dovere di protezione e, di conseguenza, la gravità della sua violazione. Questa interpretazione rafforza la tutela delle vittime di violenza domestica, riconoscendo che il pericolo può essere più acuto proprio quando l’amore finisce ma si è ancora costretti a vivere sotto lo stesso tetto.

Cosa si intende per stabile convivenza ai fini dell’aggravante di omicidio?
Per stabile convivenza si intende la situazione di fatto in cui due persone condividono in modo continuativo lo stesso spazio abitativo. Secondo la Corte, questo dato oggettivo è sufficiente per l’applicazione dell’aggravante, a prescindere dal fatto che esista ancora un legame affettivo tra loro.

Uno stato di forte emotività o un ‘raptus’ possono escludere la colpevolezza per omicidio?
No. La sentenza ribadisce che stati emotivi e passionali, come un eccesso di collera o un cosiddetto ‘raptus’, di per sé non escludono né diminuiscono l’imputabilità. Per aversi un vizio di mente rilevante, è necessario che tali stati siano l’espressione di una vera e propria infermità psichica preesistente, di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere.

Perché la legge punisce più gravemente l’omicidio del convivente anche se la relazione è finita?
La legge intende offrire una tutela rafforzata alle persone che, condividendo uno spazio vitale con un’altra, si trovano in una condizione di maggiore vulnerabilità. La Corte ha spiegato che proprio la fine del legame affettivo può rappresentare un momento di massima fragilità. La persistenza della coabitazione fisica è il fattore che giustifica la maggiore severità della pena, poiché la vittima si trova esposta a un pericolo immediato e costante.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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