Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 3686 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 3686 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/09/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato al omissis
avverso la sentenza del 26/01/2022 della CORTE RAGIONE_SOCIALE APPELLO di FIRENZE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Procuratore generale, NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 577, primo comma, n. 1 cod. pen. e l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Corte di Assise di appello per l’ulteriore corso.
Udito il difensore dell’imputato, avv. NOME COGNOME il quale ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso e chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 26/1/2022 la Corte di Assise di appello di Firenze ha confermato la sentenza del 196/2021 della Corte di Assise di Lucca che aveva condannato GLYPH Z.G. GLYPH alla pena di ventitrè anni di reclusione, con le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, per l’omicidio di NOME – persona a lui legata da relazione affettiva colpendola alla regione temporale destra del cranio con una mazzetta da carpentiere, così cagionando gravissime lesioni meningoencefaliche che determinavano la morte della vittima; era altresì accertato il delitto di occultamento di cadaver (art. 412 cod. pen.), unificato in continuazione al primo, per avere l’imputato – al fine di assicurarsi l’impunità per l’omicidio – rinchiuso il corpo di GLYPH C.C. avvolto in teli di plastica, in una roulotte nella sua disponibilità, della quale sigillava le finestre con nastro adesivo onde limitare la fuoriuscita di gas putrefattivi fatti commessi in omissis nei giorni omissis
1.1. Il processo di primo grado – dichiarata inammissibile l’istanza di rito abbreviato, non più accessibile per i delitti punibili con la pena dell’ergastolo, mente dell’art. 438, comma 1 bis, cod. proc. pen., applicabile al caso in esame ratione temporis -si era svolto mediante acquisizione dell’intero fascicolo del Pubblico ministero e del memoriale redatto dallo Z.G. su accordo delle parti e previa rinuncia alle prove indicate, e con la sola assunzione dell’interrogatorio dell’imputato che vi aveva acconsentito.
1.2. La vicenda – nel suo nucleo essenziale, un tipico “femminicidio” era stata motivata da conflittualità insorte nel corso del rapporto personale tra l’imputato e la vittima, a causa delle difficili condizioni di vita di entrambe le p e delle problematiche familiari e di salute della donna, ed è incontestata nella sua ricostruzione fattuale, in quanto NOME ha operato una piena ammissione degli addebiti.
1.3. Sotto il profilo giuridico, va segnalato che l’omicidio è stato ritenut circostanziato ai sensi dell’art. 577, comma 1 n. 1, cod. pen., aggravante all’epoca integrata dall’avere l’autore commesso il fatto “contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente”, sebbene l’imputazione abbia riportato soltanto l’indicazione di “persona legata da relazione affettiva”. Il punto, che era stato oggetto di specifico motivo di gravame, è stato risolto dalla Corte territoriale valorizzando la confessione resa da NOME
durante le indagini, nell’interrogatorio dinanzi al Pubblico ministero in cui aveva espressamente definito la vittima come sua “compagna stabile” e sua convivente in varie situazioni abitative, elementi che avevano altresì trovato riscontro nelle dichiarazioni di varie persone informate sui fatti.
2 GLYPH
Secondo i giudici di appello, dunque, l’incompleta indicazione in fatto della ritenuta aggravante non ne pregiudicava il riconoscimento, alla stregua delle ammissioni dell’imputato e del complessivo compendio probatorio, essendovi stata in sede processuale piena interlocuzione della difesa su tale profilo giuridico e fattuale, né sarebbe stato necessario procedere alla contestazione suppletiva ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., non trattandosi nella specie dell’emersione di una nuova circostanza aggravante nel corso dell’istruzione dibattimentale; infine, si è escluso che tale convivenza dovesse presentare i requisiti formali e sostanziali richiesti per il riconoscimento della convivenza di fatto in sede civil a tenore dell’art. 36 della Legge 20 maggio 2016, n. 76.
Avverso detta sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo dei difensori, avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME deducendo i seguenti motivi di impugnazione, ulteriormente arricchiti da motivi nuovi, prodotti digitalmente con atto del 28/7/2023.
2.1. Inosservanza del principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, con violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. Inoltre, inosservanza dell’art. 522 cod. proc. pen., che commina la nullità della parte di sentenza relativamente alla circostanza aggravante non contestata.
Premesso che la formulazione della circostanza aggravante in questione, vigente all’epoca del commesso reato, era nei seguenti termini: «Si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’art. 575 è commesso: 1) omissis … contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente», il ricorso rivendica la differenza tra il tema trattat nelle sentenze di merito, riguardante il potere del giudice di attribuire al fat una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, e quello – qui pertinente – riguardante una non consentita modifica degli elementi di fatto, specificamente: di una circostanza aggravante.
L’imputazione deve contenere l’enunciazione in forma chiara e precisa sia del fatto che delle circostanze aggravanti, a tenore di tutte le disposizioni che regolano il contenuto della citazione in giudizio dell’imputato, nonché alla stregua dell’art. 6, comma 3 lett. a) CEDU, che richiama il diritto dell’imputato di essere informato della “natura dell’accusa” in modo comprensibile e dettagliato.
Con specifico riferimento alle circostanze aggravanti, tale esigenza è stata approfondita nella sentenza delle Sezioni Unite n. 24906 del 18/4/2019, Sorge, Rv. 275436.
Nel caso di specie, si denuncia una contestazione monca dell’aggravante in parola, avendo il Pubblico ministero indicato a sostanziarla la mera relazione
affettiva, e non anche il rapporto di stabile convivenza quale ulteriore elemento fattuale richiesto contestualmente dalla normativa all’epoca vigente.
Tale omissione non è colmata dal riconoscimento da parte dell’imputato di avere avuto una stabile convivenza con la vittima, né dai riferimenti a tale situazione effettuati dalla difesa nel corso del processo: l’unico dato rilevante è che sia mancata la corretta e completa contestazione dell’aggravante nelle due componenti in cui essa era prevista all’epoca del commesso reato. Nemmeno supplisce a tale mancanza una contestazione in fatto della circostanza, in quanto l’imputazione non contiene alcun riferimento alla convivenza tra l’imputato e la persona offesa. Ciò integra il contestato difetto di correlazione tra l’accusa sintetizzata nell’imputazione e la sentenza.
2.2. Con ulteriore motivo di impugnazione si denuncia erronea applicazione dell’aggravante ex art. 577, comma 1 n. 1 cod. proc. pen. e connesso vizio di motivazione. Detto motivo si focalizza sulla nozione di “stabile convivenza”, che non si ritiene integrata nella situazione emersa dal compendio probatorio, né adeguatamente illustrata nell’impugnata sentenza.
Secondo il ricorso, in ossequio ai principi di tassatività e determinatezza della fattispecie incriminatrice, la relazione significativa ai fini dell’aggravante discorso deve individuarsi alla stregua della nozione di convivenza di fatto disciplinata dalla Legge n. 76 del 2016, al pari delle altre relazioni personali citate nell’art. 577 cod. pen., al primo comma n. 1 e al secondo comma, che si individuano mediante precisi riferimenti alle nozioni normative in tema di filiazione o di “unione civile” o di rapporto di coniugio. In tale prospetti secondo la difesa, rileva il disposto dell’art. 1, comma 36, L. 20/5/2016, n. 76, che definisce “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, per il cui accertamento è necessaria la dichiarazione anagrafica prevista dagli artt. 4 e 13 del DPR 30/5/1989, n. 223, requisiti nella specie assenti.
La motivazione reiettiva sul punto è stata tacciata di essere tautologica e meramente assertiva, anche alla stregua di una interpretazione esclusivamente sostanziale del concetto di stabile convivenza.
La non inquadrabilità della relazione personale tra l’imputato e la persona offesa nei margini dell’aggravante era stata colta dai giudici di merito, laddove essi descrivevano la relazione tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE come “particolare”, date le condizioni di disagio economico e personale manifestate da entrambi i membri della coppia, senza però trarre da tale rilievo la logica conclusione che detto rapporto non rientrasse nei canoni dell’aggravante contestata. In particolare, si ritiene discutibile l’inquadramento della situazione di coppia nell’orbita d una “relazione stabile”, concetto che postula una valutazione normativa della
fattispecie, traendo conferma che essa deve rispondere ai requisiti indicati dalla Legge “Cirinnà”. Primo indice che esclude la stabilità della relazione è stato indicato nell’esiguità cronologica del rapporto, durato soltanto dal dicembre 2018 all’evento per cui è processo. È stata poi segnalata la carenza nella specie di reciproca assistenza morale e materiale che sostanzia il rapporto di coppia e caratterizza l’unione affettiva inquadrata in una stabile convivenza. Tali riliev non sarebbero contraddetti dalle osservazioni dei giudici di merito, che all’uopo avevano valorizzato dati non significativi, quali il fatto che la donna aveva trascorso un periodo di restrizione agli arresti domiciliari nell’abitazione dell
NOME GLYPH
o la circostanza che l’imputato riteneva e presentava pubblicamente come sua fidanzata.
C.C. GLYPH
2.3. Nei motivi aggiunti, svolti a seguito della memoria del Procuratore generale, si è ulteriormente dedotta violazione di legge in relazione all’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale (divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici) e all’art. 1 cod. pen. nonché all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta).
Ribadisce il ricorrente che, una volta intervenuta la nuova formulazione dell’aggravante ex art. 577 n. 1 cod. pen., che ora dà rilievo alternativamente alla “persona stabilmente convivente con il colpevole” e alla figura “legata da relazione affettiva” al colpevole, sia stata confermata la necessità di una interpretazione precisa del concetto di stabile convivenza, da operarsi secondo il proposto parametro descritto nella Legge n. 76 del 2016, pena l’apertura a criteri relativistici e soggettivi, contrari al principio di tassatività e determinatezza de fattispecie penali. A conferma della correttezza di tale opzione, si è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 14 maggio 2021, che (sia pure in tema di delitti ex artt. 572 e 612 bis cod. pen.) ha richiamato la necessità di evitare ogni interpretazione analogica in malam partem delle norme incriminatrici, affermando in particolare che «l’ausilio interpretativo del giudice penal non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Tutti i motivi dedotti riguardano l’aggravante dell’art. 577, comma 1 n. 1, cod. pen., e si esamineranno congiuntamente nella loro concatenazione.
1.1. La disposizione in esame, nella forma vigente all’epoca del commesso reato, era la seguente: «Si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’art. 575 è commesso: 1) omissis … contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente».
Con chiara evidenza, la norma richiedeva la contestuale sussistenza della relazione affettiva e della stabile convivenza, contrariamente al testo novellato con Legge 19 luglio 2019, n. 69 che, nell’art. 11, comma 1, lett. a), ha inteso tali requisiti in termini alternativi.
La censura difensiva è nel senso che l’aggravante in esame sia stata non contestata rectius: non integralmente contestata – nell’imputazione di reato, che fa riferimento soltanto “all’aggravante di avere commesso il fatto in danno di persona ad esso legata da relazione affettiva”, e per il resto non contiene una descrizione in fatto dell’ulteriore requisito della stabile convivenza. Da ciò derive rebbe la lesione del diritto di difesa per violazione del principio di correlazione tr accusa e sentenza, alla stregua dei principi affermati nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 24906 del 18/4/2019, Sorge.
Il costrutto difensivo è infondato, con riguardo al concreto dispiegarsi della presente vicenda processuale.
Nessuna lesione del diritto di difesa si è concretizzata nella specie, poiché fin dal primo grado di giudizio lo stesso imputato ha riconosciuto di avere intrattenuto con C.C. una relazione affettiva di carattere stabile, connotata dalla convivenza e dall’assunzione di obblighi di mutua solidarietà, tali da assimilarla ad una tipica convivenza di fatto.
Come ha messo in luce la sentenza impugnata, NOMECOGNOME ha pienamente C.C. ammesso l’omicidio, ed ha descritto il rapporto con “fidanzamento” e di convivenza, descrivendo anche i convissuto, dapprima nella frazione di in termini di luoghi dove la coppia aveva ,e omissis da 1 omissis in un box della ditta per cui NOMECOGNOME lavorava; tali elementi, poi, sono stati confermati dalle prove dichiarative rese da terze persone e dai risultati delle indagini, ed infatti la perquisizione del box nella disponibilità dell’imputa aveva permesso di rinvenire effetti personali della C.C.
Da tali risultati istruttori non si può prescindere, avvalorandosi altrimenti una distorcente e formalistica concezione per cui – nonostante lo stesso imputato abbia riconosciuto la completa integrazione dell’aggravante, come all’epoca disegnata dalla legge – non potrebbe farsi luogo al suo accertamento processuale per la incompletezza della sua contestazione.
In tale direzione si è da tempi risalenti attestata l’esegesi di legittimit affermando – in tema di correlazione fra l’accusa e la sentenza – che la contestazione formale dell’accusa, contenuta nel capo di imputazione, deve ritenersi integrata dai contributi informativi dell’imputato, quando questi siano stati resi in modo da consentire l’esercizio della difesa (Sez. 2, n. 5877 del 01/03/1974, COGNOME, Rv. 127871; Sez. 2, n. 6697 del 20/02/1976, COGNOME, Rv. 133756).
In specie, è stata esclusa la violazione dell’obbligo di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, quando l’accusa venga precisata o integrata con le risultanze degli interrogatori e degli altri atti acquisiti al processo in particolare quando il fatto ritenuto in sentenza, quantunque diverso da quello contestato, sia stato prospettato dallo stesso imputato come elemento a sua discolpa ovvero per farne derivare un’ipotesi di reato meno grave, atteso che, avendo in tal caso il medesimo imputato apprestato la necessaria difesa in relazione alla diversa prospettazione del fatto volontariamente offerta, non è dato riscontrare quella violazione del diritto alla difesa conseguente alla trasformazione o sostituzione dell’addebito che la norma intende sanzionare (Sez. 6, n. 20118 del 26/02/2010, Pg in proc. COGNOME, Rv. 247330; Sez. 5, n. 50326 del 16/09/2014, Sommariva, Rv. 261420).
Risulta dunque confermato che la tematica della correlazione tra accusa e decisione è stata sempre affrontata, come si è accennato in estrema sintesi, in una prospettiva sostanzialistica imperniata sulla concreta possibilità per l’imputato di difendersi compiutamente sull’oggetto dell’addebito.
Nella specie si è verificata proprio tale situazione, ed in entrambi i gradi processuali la difesa ha ampiamente interloquito sul punto della convivenza, accettando il contraddittorio senza riserve di sorta, e palesando una prevedibilità del riconoscimento dell’aggravante in discorso – peraltro specificamente indicata nel nomen iuris mediante richiamo della disposizione di cui all’art. 577, comma 1 n. 1, cod. pen. – nei termini in cui all’epoca era normativamente disegnata come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, in modo da soddisfare la necessità di una congrua ed informata interlocuzione, discendente dai principi del fair trial di cui all’art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU.
Non smentisce tale impostazione il richiamo alla pronuncia delle Sezioni Unite Sorge (n. 24906 del 18/4/2019), che – com’è noto – si è occupata della ammissibilità di una contestazione in fatto di circostanze aggravanti costituite (anche) da componenti di natura valutativa (come quella ex art. 476, comma 2, cod. pen., di cui si occupava detta sentenza), escludendole dal novero di quelle virtualmente emergenti da una mera descrizione in fatto, in quanto esse necessitano della esplicita indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circ stanziale.
Nel caso in esame, invece, si è al cospetto di una circostanza interamente dispiegata su elementi oggettivi – relazione affettiva e stabile convivenza – così da potersi ricavare dal mero richiamo delle situazioni evocate da tali locuzioni.
1.2. La seconda censura deduce erronea applicazione dell’aggravante in discorso, con riferimento alla necessità che la convivenza di fatto coincida con la nozione disciplinata dalla Legge n. 76 del 2016, al pari delle altre relazioni personali citate nell’art. 577 cod. pen., al primo comma n. 1 e al secondo comma, che si individuano mediante precisi riferimenti alle nozioni normative in tema di filiazione o di “unione civile” o di rapporto di coniugio. In tale prospetti secondo la difesa, rileva il disposto dell’art. 1, comma 36, L. 20/5/2016, n. 76, che definisce “conviventi dì fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, per il cui accertamento è necessaria la dichiarazione anagrafica prevista dagli artt. 4 e 13 del DPR 30/5/1989, n. 223, requisiti nella specie assenti.
Tale censura non coglie la peculiarità della figura aggravata di omicidio in esame, intendendo ridurla ad una mera situazione formale, in spregio alla ratio della circostanza che risiede nella sanzione del maggiore disvalore insito nella lesione di una persona legata all’agente da prossimità affettiva e comunanza di vita. Invero, il bilanciamento di valori ed interessi che esprime la circostanza ex art. 577, comma 1 n. 1, cod. pen. risponde in pieno alla necessità di aggiornare l’impianto normativo penale alla mutata sensibilità dei consociati verso il gravissimo fenomeno della violenza domestica e di genere, costituente vera e propria emergenza sociale italiana. In tale prospettiva è stata inserita una serie di norme che attribuiscono il giusto riconoscimento alla gravità di crimini perpetrati i contesti familiari o di altre forme di prossimità di vita, ciò costituendo la ratio che ha indotto il legislatore ad estendere a tali diffuse situazioni nevralgiche di part colare esposizione a pericolo delle persone offese il trattamento sanzionatorio previsto per le più gravi ipotesi di omicidio, tra le quali è stato inserito anc l’omicidio in danno della persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente, secondo una rimodulazione imposta dalla recrudescenza di tali eventi e dall’acuito allarme sociale che ne deriva. Ne discende che deve essere respinto ogni tentativo di ridimensionare la portata della innovazione legislativa (all’attualità ancora più stringente, per essersi contemplate in vi alternativa le due situazioni aggravanti), pretendendo di restringere la tutela rafforzata a relazioni connotate da un mero adempimento burocratico quale la dichiarazione anagrafica prevista dagli artt. 4 e 13 del DPR 30/5/1989, n. 223.
L’interpretazione caldeggiata dalla difesa, peraltro, è contrastata anche sotto il profilo sistematico: già con la modifica introdotta dalla legge 15 ottobr 2013, n. 119, che ha inserito nell’art. 609 ter cod. pen. l’aggravante di cui al n. 5
quater, si è dato riconoscimento alla situazione di colui che subisce violenza sessuale da persona legata da relazione affettiva, anche cessata, ed anche senza convivenza; a seguire, il D. Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 ha ampliato le facoltà riconosciute ai prossimi congiunti della persona offesa deceduta in conseguenza del reato, estendendole alla persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente, come ora prevede l’art. 90, comma 3, cod. proc. pen.
Se ne ricava che i segni linguistici sono sganciati dai concetti normativi che contrassegnano le coppie di fatto, la cui regolamentazione normativa segue e non precede le definizioni concettuali. Resta valido sul tema il principio per cui, per il diritto penale, la stabile convivenza e la relazione affettiva sono situazio di fatto preesistenti ad eventuali interventi legislativi emanati ad altri fi vanno accertate secondo criteri giurisprudenziali elaborati sulla base di situazioni reali e concrete, e non ingabbiate in categorie astratte e prestabilite. All’uopo, si è evocato un rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato tra due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione, intendendosi come “famiglia”, agli effetti del diritto penale, ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sor rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (Sez. 6, n. 21329 del 24/01/2007, Gatto, Rv. 236757). Invero, nell’ambito delle relazioni interpersonali non qualificate, ai fini penalistici, è ricorrente l’affermazione ch concetti di “famiglia” e di “convivenza” vanno intesi nell’accezione più ristretta, presupponente una comunità connotata da una stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continua (Sez. 6, n. 9663 del 16/02/2022, P., Rv. 283120). Si aggiunge che la “relazione affettiva” tra autore del reato e persona offesa, pur se non intesa necessariamente soltanto come “stabile condivisione della vita comune”, postula quantomeno la sussistenza, da verificarsi in concreto, di un legame connotato da un rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione (Sez. 5, n. 21641 del 02/03/2023, C., Rv. 284696), costituendo l’abuso o l’approfittamento di tale legame la ragione dell’aggravante in esame. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Nei motivi aggiunti, la tematica è stata rilanciata richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 14 maggio 2021, che ha ribadito la necessità di evitare l’interpretazione analogica in malam partem delle norme incriminatrici, rammentando il fondamentale canone interpretativo in materia penale, basato sull’art. 25 secondo comma, Cost. e rappresentato dal divieto di applicare la
legge oltre i casi da essa espressamente stabiliti. Ma detta pronuncia – in tema di discrimine tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecut – è sfociata in una declaratoria di inammissibilità, in quanto il giudice rimettente non aveva spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto che, a fronte di una relazione affettiva durata qualche mese e caratterizzata da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro, la vittima potesse essere considerata, alla stregua del linguaggio comune, come persona già appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato, ovvero con lui “convivente”. Era dunque ravvisabile l’assenza di ogni indice che consentisse di riferire la norma a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei significati letterali delle espressi utilizzate dal legislatore, a differenza del caso in esame, ove le Corti di merit hanno concordemente ritenuto esistenti gli elementi della relazione affettiva e della stabile convivenza, così da applicare la disposizione aggravatrice.
1.3. Va aggiunto, sul punto, che non colgono nel segno le critiche fattuali e rivalutative dirette ad escludere la sussistenza di una stabile convivenza dalla brevità della medesima o dall’assenza di reciproca assistenza morale e materiale tra i partner. Invero, entrambe le considerazioni della difesa sono contrastate dai dati di fatto accertati dai giudici di merito, che hanno invece sottolineato carattere di stabilità della relazione in un periodo ritenuto ragionevolmente significativo, e in tali termini concepito dalla stessa C.C. COGNOME che aveva persino indicato l’abitazione dello Z.G. come luogo di esecuzione degli arresti domiciliari. Risulta pertanto corrispondente a realtà l’affermazione che tra i due si fosse instaurata una relazione sentimentale oltre che di coabitazione, corredata da reciproche aspettative di assistenza: l’imputato si era prodigato nell’aiuto della compagna in tutte le sue vicissitudini familiari e di salut accompagnandola dai medici, prendendola in carico dopo ricoveri ospedalieri ovvero nell’esecuzione degli arresti domiciliari, cercando di ripristinare l relazioni con il fratello, e dunque rispondendo a quei criteri che nella vita real fondano una relazione stabile e caratterizzata da un intenso vincolo di carattere affettivo. Si deve concludere che nella specie non è ravvisabile un problema di indeterminatezza e di insufficiente tassatività della fattispecie penale, in quanto l’analisi dei dati emersi in sede istruttoria ha invece dato corpo alla piena identit tra la situazione di fatto e quella considerata dalla disposizione dell’art. 577 comma 1 n. 1, cod. pen.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, da ciò conseguendo la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
Non si procede alla liquidazione delle competenze richieste dalla difesa della costituita parte civile con nota spese allegata alle conclusioni scritte, poiché
«Nel giudizio di cassazione non va disposta la condanna dell’imputato al rimborso delle spese processuali in favore della parte civile che non sia intervenuta nella
discussione in pubblica udienza, ma si sia limitata a formulare la richiesta di condanna mediante il deposito di una memoria in cancelleria con l’allegazione di
nota spese» (Sez. 6, n. 28615 del 28/04/2022, COGNOME, Rv. 283608). Nella specie, infatti, il processo ha avuto trattazione orale, ma la difesa della parte civile non
comparsa limitandosi a depositare, in forma digitale, le proprie conclusioni scritte e la nota spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D. Lgs. 196/03, in quanto impos
dalla legge.
Così deciso il giorno 13 settembre 2023
Il Consigliere estensore
Il Presidente