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Spaccio lieve entità: quando è escluso dalla Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per un individuo accusato di spaccio di stupefacenti, escludendo la qualificazione di ‘spaccio lieve entità’. La decisione si basa sulla natura sistematica e organizzata dell’attività illecita, sui guadagni significativi e sulla circostanza che i reati fossero commessi durante un periodo di detenzione domiciliare, ritenendo tali elementi prevalenti rispetto alla prova di un’attività lavorativa.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Spaccio Lieve Entità: Quando l’Organizzazione Esclude il Reato Minore

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 18622 del 2024, offre un’importante chiave di lettura sulla qualificazione dello spaccio lieve entità previsto dall’art. 73, comma 5, del Testo Unico sugli Stupefacenti. La Corte ha stabilito che un’attività di spaccio, sebbene caratterizzata da singole cessioni di modeste quantità, non può essere considerata di lieve entità se si inserisce in un contesto organizzato e sistematico, volto a generare profitti considerevoli. Questo principio diventa ancora più stringente se il reato viene commesso mentre l’autore si trova già sottoposto a una misura restrittiva come la detenzione domiciliare.

I Fatti del Caso: Traffico Sistematico Durante la Detenzione Domiciliare

Il caso esaminato riguarda un individuo a cui il Tribunale del Riesame aveva applicato la custodia cautelare in carcere per una serie di episodi di spaccio di cocaina. Questa decisione ribaltava quella del Giudice per le Indagini Preliminari (G.I.P.), che inizialmente aveva qualificato i fatti come spaccio lieve entità e disposto la misura più mite dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Le indagini avevano rivelato un’attività di spaccio ben strutturata e continuativa, svolta con cadenza quasi quotidiana durante l’estate del 2022. L’indagato gestiva le consegne a domicilio e presso postazioni fisse, avvalendosi di complici e dimostrando una notevole capacità organizzativa. Particolarmente grave era la circostanza che queste attività illecite venivano condotte mentre l’uomo si trovava in regime di detenzione domiciliare per una precedente condanna, utilizzando la propria abitazione come base operativa.

La difesa aveva proposto ricorso in Cassazione, contestando sia la riqualificazione del reato sia la necessità della misura cautelare più afflittiva, sostenendo che il Tribunale non avesse considerato adeguatamente l’attività lavorativa regolarmente svolta dall’indagato.

La Decisione della Corte di Cassazione e lo spaccio lieve entità

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la valutazione del Tribunale del Riesame. La decisione si fonda su due pilastri argomentativi principali: l’esclusione della fattispecie di lieve entità e la corretta valutazione delle esigenze cautelari.

L’Esclusione della Lieve Entità

Secondo la Suprema Corte, la qualificazione di un fatto di spaccio non può limitarsi a considerare la quantità di sostanza ceduta in ogni singolo episodio. È necessaria una valutazione complessiva che tenga conto di tutti gli indicatori previsti dalla norma. Nel caso specifico, sono stati ritenuti decisivi i seguenti elementi:

* La sistematicità: le cessioni avvenivano con cadenza pressoché quotidiana.
* L’organizzazione: l’attività era strutturata con consegne a domicilio, postazioni fisse e l’impiego di collaboratori.
* I guadagni: le conversazioni intercettate indicavano incassi giornalieri tra i 1.500 e i 2.000 euro.
* I canali di approvvigionamento: la continuità dell’attività presupponeva la disponibilità di canali di fornitura stabili e affidabili.
* La condotta dell’indagato: il fatto di aver proseguito i traffici illeciti durante la detenzione domiciliare è stato considerato un indice di marcata spregiudicatezza.

Questi fattori, nel loro insieme, delineano un quadro di offensività che va ben oltre la soglia del fatto di lieve entità, rivelando un’attività criminale di natura professionale e non occasionale.

La Valutazione delle Esigenze Cautelari

Anche riguardo alla scelta della misura cautelare, la Corte ha ritenuto logica e corretta la decisione del Tribunale. La custodia in carcere è stata considerata l’unica misura idonea a fronteggiare l’elevata pericolosità sociale dell’indagato. La sua perseveranza nel delinquere, nonostante fosse già sottoposto a una misura restrittiva, ha dimostrato una totale inaffidabilità e l’inefficacia di misure meno severe. Di fronte a una tale spregiudicatezza, la documentazione relativa a un’attività lavorativa è stata giudicata recessiva, poiché non sufficiente a smentire il concreto e attuale pericolo di reiterazione del reato.

Le Motivazioni della Sentenza

La motivazione della sentenza si allinea all’orientamento consolidato della giurisprudenza, incluse le Sezioni Unite, secondo cui la valutazione sulla lieve entità del fatto deve essere globale e non frammentaria. Il giudice non può isolare un singolo indicatore (come la piccola quantità di droga sequestrata) ma deve ponderare tutti gli elementi fattuali per ricostruire la reale portata offensiva della condotta. In questo caso, la professionalità e la serialità dell’attività di spaccio hanno assunto un peso preponderante, neutralizzando ogni argomento a favore di una minore gravità.

La Corte ribadisce che la custodia cautelare in carcere, pur essendo l’extrema ratio, diventa necessaria quando la personalità dell’indagato e le modalità del fatto rivelano una propensione al crimine così radicata da rendere inadeguata qualsiasi altra misura. L’aver violato le prescrizioni della detenzione domiciliare per commettere nuovi reati è la prova più evidente di questa propensione e giustifica pienamente il massimo rigore cautelare.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Pronuncia

Questa pronuncia rafforza un principio fondamentale: nel valutare la gravità dello spaccio, il ‘come’ conta tanto quanto il ‘quanto’. Un’attività criminale strutturata, continuativa e redditizia non potrà beneficiare della qualificazione di spaccio lieve entità, anche se si articola attraverso la vendita di piccole dosi. La sentenza serve da monito, chiarendo che il sistema giudiziario considera con estrema severità non solo l’atto di spaccio in sé, ma anche il contesto di professionalità criminale in cui esso si inserisce. L’esistenza di un’attività lavorativa lecita, inoltre, non costituisce un salvacondotto automatico contro le misure cautelari più severe, specialmente di fronte a una condotta che dimostra un palese disprezzo per le regole dell’ordinamento.

La vendita di piccole dosi di droga è sempre considerata spaccio di lieve entità?
No. Secondo la Corte, se l’attività di cessione, pur riguardando piccole dosi, è sistematica, organizzata, con cadenza quotidiana e genera guadagni significativi, la fattispecie di lieve entità deve essere esclusa in favore di quella ordinaria.

Svolgere un’attività lavorativa regolare può evitare la custodia cautelare in carcere?
Non necessariamente. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la marcata pericolosità sociale dell’indagato, dimostrata dalla sua perseveranza nel commettere reati anche mentre era ai domiciliari, fosse un elemento così grave da rendere la custodia in carcere l’unica misura adeguata, nonostante la prova di un impiego lavorativo.

Quali elementi sono decisivi per escludere la lieve entità del fatto di spaccio?
Il giudice deve compiere una valutazione complessiva che consideri: le modalità organizzative (es. consegne a domicilio, postazioni fisse), la sistematicità e la frequenza delle cessioni, l’entità dei guadagni, la disponibilità di canali di approvvigionamento stabili e la condotta generale dell’imputato, come l’aver commesso i reati durante l’esecuzione di altre misure restrittive.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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