Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 47305 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 47305 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nata a Ceglie Messapica il 12.2.1994 avverso la sentenza in data 26.1.2024 della Corte di Appello di Lecce visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’annullamento con rinvio relativamente al primo motivo e per l’inammissibilità dei restanti motivi del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 26.1.2024 la Corte di Appello di Lecce ha integralmente confermato la pronuncia resa all’esito del primo grado di giudizio dal Tribunale di Brindisi che ha condannato NOME COGNOME alla pena di due anni e sei mesi di reclusione ed C 5.500 di multa ritenendola responsabile del reato ex art. 73 quarto comma d.P.R. 309/1990 per aver detenuto a fini di spaccio in data 29.5.2017 30 grammi di marijuana suddivisi in plurime confezioni.
Avverso il suddetto provvedimento l’imputata ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando tre motivi con i quali lamenta:
2.1. il diniego, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’ar quinto comma d.P.R. 309/1990 e al vizio motivazionale, della fattispecie della lieve entità fondato sulla suddivisione in confezioni separate dello stupefacente e sul rinvenimento di materiale atto alla preparazione delle dosi, senza che si fosse tenuto conto del modesto dato ponderale, dell’esiguo numero di dosi ricavabile, della mancanza di sequestro di somme di danaro e delle rudimentali modalità azione, indici univocamente rivelatori, anche alla luce della sentenza n.45061/2022 di questa Corte che ha fissato nella quantità di 108 grammi il limite di compatibilità quanto alla marijuana per l’applicabilità del quinto comma, della scarsa professionalità dell’attività di spaccio;
2.2. la motivazione resa in termini solo apparenti in ordine al discostamento della pena dal minimo edittale, pari a due anni di reclusione, non giustificabile alla luce del solo dato relativo al numero di dosi ricavabili, senza che si fosse tenuto conto della condizione di incensuratezza della prevenuta;
2.3. l’omessa motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche in assenza di qualunque approfondimento sulla capacità a delinquere dell’imputata imposto dalla mancanza di precedenti a suo carico e dall’occasionalità della condotta.
All’udienza fissata nessuno è comparso per l’imputata, malgrado il difensore, avv. NOME COGNOME ne avesse chiesto la trattazione orale
CONSIDERATO IN DIRITTO
In ordine al primo motivo, ovvero il mancato riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art. 73 comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990, occorre innanzitutto richiamare il costante e condiviso orientamento di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 6, n. 13982 del 20/02/2018, COGNOME, Rv. 272529 e Sez. 3, n. 6871 dell’08/07/2016, Bandera, Rv. 269149), secondo cui, in tema di stupefacenti, la valutazione dell’offensività della condotta non deve essere ancorata al solo dato della quantità di volta in volta ceduta, ma deve essere frutto di un giudizio più ampio che coinvolga ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva, tenendo conto in particolare delle concrete capacità di azione del soggetto e delle sue relazioni con il mercato di riferimento, dell’entità della droga movimentata in un determinato lasso di tempo, del numero di assuntori riforniti, della rete organizzativa e/o dell peculiari modalità adottate per porre in essere le condotte illecite al riparo d controlli e azioni repressive delle forze dell’ordine.
Orbene, alla luce di tale premessa ermeneutica, deve escludersi che il diniego da parte della Corte territoriale dell’ipotesi di cui all’art. 73 comma 5 del d.P.R. 309/90 in favore del ricorrente presti il fianco alle censure difensive.
Quand’anche il numero delle dosi complessivamente ricavabili (144), così come il dato ponderale (30 grammi) possa ritenersi non particolarmente ingente, è stato tuttavia conferito rilievo già dalla sentenza di primo grado, la cui motivazione, attese le conformi conclusioni raggiunte, si salda con quella impugnata in unico corpo argomentativo, alla circostanza che la prevenuta disponesse di due diversi immobili, così come emerso all’esito della perquisizione svoltasi non solo nella sua attuale dimora, ma estesasi anche alla precedente abitazione, dove erano stati rinvenuti, oltre ad ulteriori confezioni di marijuana, due bilancini di precisione, vari ritagli di cellophane, un taglierino ed un coltell ancora intriso di sostanza stupefacente. Coerentemente pertanto è stata desunta dalle suddette risultanze istruttorie, costituite a detta della Corte salentina da “numero delle dosi ricavabili, dalla disponibilità di luoghi per la sua custodia e dalla disponibilità di mezzi idonei per il confezionamento e la pesatura” valutate nel loro complesso, la peculiare professionalità della prevenuta che, a smentita delle modalità rudimentali della condotta fatte valere dalla difesa, aveva predisposto una rete organizzativa in grado di assicurarle non solo una più efficiente distribuzione disponendo di ben due bilancini così come di due immobili destinati all’occultamento della merce, ma soprattutto maggiori possibilità di sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine, preparando le confezioni in un luogo diverso dalla sua abitazione.
Come infatti chiarito da questa Corte nel suo supremo consesso, i diversi indicatori del quinto comma dell’art. 73 sono elencati in maniera indistinta dal legislatore, astenutosi dallo stabilire un ordine gerarchico tra gli stessi o anche solo dall’attribuire ad alcuni un maggiore valore sintomatico, potendone pertanto solo la valutazione complessiva cogliere la ratio che ha ispirato la introduzione della fattispecie di lieve entità e cioè rendere la risposta repressiva in materia di stupefacenti compatibile con i principi di offensività e proporzionalità, nell consapevolezza del carattere variegato e mutante del fenomeno criminale cui si rivolge (Sez. U. n. 51063 del 27/09/2018, COGNOME, Rv. 274076). Ne deriva che non può ritenersi consentito fondare su uno soltanto degli indici, ritenuti astrattamente qualificanti, come vorrebbe la difesa facendo riferimento al solo dato ponderale e al numero di dosi da esso ricavabili, la lieve entità della condotta criminosa, che deve invece essere apprezzata in tutti i suoi aspetti, senza arrestarsi alla presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo, a prescindere dalla considerazione degli altri
Il motivo in esame deve essere, pertanto, rigettato.
Incorre, invece, nella statuizione di inammissibilità il secondo motivo che, afferendo ad un profilo della rejudicanda riservato all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, qual è il trattamento sanzionatorio, non può essere oggetto di sindacato in sede di legittimità all’infuori delle ipotesi in cui la determinazion della pena sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento manifestamente illogico (Cass. sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Rv. 259142).
Al netto del rilievo che la pena fissata si assesta ben al di sotto della media edittale, nel qual caso l’obbligo della motivazione si attenua, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, di per sé frutto di una valutazione globale in rapporto alla complessiva considerazione del fatto ed alla personalità dell’imputato (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283), i giudici di secondo grado hanno dato comunque conto del discostamento dal minimo edittale in termini, peraltro, del tutto contenuti, valorizzando con piena aderenza alle risultanze istruttorie il numero delle dosi ricavabili dalla marijuana in possesso dell’imputata, al fine di sottolineare un dato quantitativo che, seppur non ingente, neppure poteva essere considerato esiguo.
Argomentazioni queste che rendono la motivazione insindacabile. Va infatti va ricordato che, ai fini del trattamento sanzionatorio, occorre che il giudice di merito prenda in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello (o quelli che ritiene prevalente e atto a consigliare la determinazione della pena e che il relativo apprezzamento discrezionale, laddove supportato da una motivazione idonea a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo, non è censurabile in sede di legittimità. Ciò vale, “a fortiori”, anche per giudice d’appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante, non è tenuto a un’analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevant decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (Sez. 2, n. 2885 del 08/05/2013, COGNOME, Rv. 256464).
La stessa sorte segue il terzo motivo, relativo al diniego delle attenuanti generiche.
Premesso che rispondendo la previsione dell’art. 62 bis cod. pen. alla finalità di consentire un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato in presenza di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto della persona che di esso si è reso responsabile, ne deriva che quando la relativa richiesta non specifica le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza dell’istanza, l’onere di motivazione del
diniego dell’attenuante è soddisfatto con il mero richiamo da parte del giudice alla assenza di elementi positivi che possono giustificare la concessione del beneficio. (Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, D, Rv. 275440; Sez. 3, n.9836 del 17/112015 – dep. 9/3/2016, COGNOME, Rv. 266460). Ciò è quanto accaduto nel caso di specie essendosi la difesa limitata ad opporre la condizione di incensuratezza dell’imputata, di per sé ostativo alla concessione del beneficio stante il divieto espressamente fissato dall’art. 62 bis terzo comma cod. pen..
Il ricorso deve essere, in conclusione, rigettato, seguendo a tale esito l’onere delle spese processuali a norma dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali Così deciso il 18.11.2024