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Spaccio di lieve entità: la quantità non basta

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per la detenzione di quasi 500 grammi di marijuana. La Corte ha stabilito che la qualificazione del reato come spaccio di lieve entità non può basarsi solo sulla quantità, ma richiede una valutazione complessiva che include la professionalità dell’attività e la capacità di diffusione della sostanza, elementi che nel caso di specie erano tali da escludere la minima offensività. Confermata anche la confisca del cellulare, in quanto strumento del reato.

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Pubblicato il 17 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Spaccio di lieve entità: quando la quantità non è l’unico criterio

La distinzione tra detenzione di stupefacenti e spaccio di lieve entità è una delle questioni più dibattute nel diritto penale. L’applicazione dell’art. 73, comma 5, del Testo Unico Stupefacenti (d.P.R. 309/90) può comportare una significativa riduzione della pena, ma quali sono i criteri per accedervi? Con l’ordinanza n. 534/2024, la Corte di Cassazione ribadisce un principio fondamentale: la valutazione non può limitarsi al solo dato quantitativo, ma deve abbracciare l’intera condotta dell’imputato.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine da un ricorso presentato avverso una sentenza della Corte d’Appello di Milano, che aveva ritenuto un soggetto responsabile per l’illecita detenzione di 492,7 grammi di marijuana. Da tale quantitativo, secondo le analisi, era possibile ricavare ben 1052 dosi medie singole. La difesa dell’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, contestando la mancata riqualificazione del fatto nella fattispecie più lieve e la confisca del telefono cellulare.

I Motivi del Ricorso

Il ricorso si fondava su due principali motivi:

1. Mancata riqualificazione del reato: La difesa sosteneva che il fatto dovesse essere inquadrato nell’ipotesi di spaccio di lieve entità, prevista dal comma 5 dell’art. 73 d.P.R. 309/90, che prevede una pena notevolmente inferiore.
2. Erronea applicazione delle norme sulla confisca: Si contestava la legittimità della confisca del telefono cellulare, ritenendo non provato il suo legame con l’attività illecita.

La Decisione della Cassazione e il criterio dello spaccio di lieve entità

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando integralmente la decisione dei giudici di merito. La sentenza impugnata è stata ritenuta sorretta da un apparato argomentativo solido e coerente, in grado di respingere entrambe le doglianze della difesa.

Le Motivazioni

La Valutazione Complessiva della Condotta

Per quanto riguarda il primo motivo, la Cassazione ha evidenziato come la Corte d’Appello abbia correttamente escluso la fattispecie dello spaccio di lieve entità. I giudici di merito non si sono limitati a considerare il dato puramente quantitativo della sostanza, sebbene già di per sé molto rilevante. Hanno invece effettuato una valutazione complessiva della condotta, basandosi su una serie di elementi indicativi della professionalità dell’attività illecita. Tra questi, le modalità di detenzione e la rilevante capacità di diffusione della droga sul mercato sono stati ritenuti incompatibili con la nozione di ‘minima offensività’ che caratterizza l’ipotesi lieve. In altre parole, l’intera operazione appariva strutturata e non occasionale, superando la soglia della modesta gravità.

La Confisca del Telefono e il Nesso di Strumentalità

Anche il secondo motivo di ricorso è stato respinto. La Corte ha ritenuto la decisione sulla confisca del cellulare adeguatamente motivata. I giudici di merito avevano accertato l’esistenza di un ‘nesso di strumentalità’ tra il dispositivo e l’attività criminosa. È stato dimostrato che il telefono non era un semplice bene di proprietà dell’imputato, ma uno strumento attivo e funzionale alla commissione del reato, utilizzato per i contatti e l’organizzazione dello spaccio. Tale collegamento diretto ha reso legittima e doverosa la sua confisca ai sensi dell’art. 240 del codice penale.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame offre importanti spunti di riflessione. In primo luogo, consolida l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la qualificazione di un fatto come spaccio di lieve entità richiede un’analisi globale che trascende il mero peso della sostanza stupefacente. Elementi come la professionalità, l’organizzazione e il potenziale impatto sul mercato sono decisivi. In secondo luogo, conferma che beni di uso comune, come un telefono cellulare, possono essere oggetto di confisca quando ne venga provato l’impiego diretto e funzionale alla realizzazione di un’attività illecita, perdendo la loro natura ‘neutra’ per diventare veri e propri strumenti del reato.

Quando un reato di detenzione di stupefacenti può essere considerato di ‘lieve entità’?
La qualificazione come ‘lieve entità’ non dipende esclusivamente dalla quantità di sostanza, ma da una valutazione complessiva della condotta. I giudici considerano le modalità di detenzione, la professionalità dell’attività e la capacità di diffusione sul mercato per stabilire se l’offesa al bene giuridico tutelato sia minima.

La quantità di droga detenuta è irrilevante per la qualificazione del fatto?
No, la quantità è un elemento molto importante, ma non l’unico. Un quantitativo ingente, come quello del caso di specie (quasi 500 grammi per oltre 1000 dosi), è un forte indicatore che, unito ad altri elementi come la professionalità, può portare a escludere l’ipotesi di lieve entità.

Perché il telefono cellulare dell’imputato è stato confiscato?
Il telefono è stato confiscato perché la Corte ha accertato un ‘nesso di strumentalità’, ovvero un legame diretto e funzionale tra l’uso del dispositivo e la commissione dell’attività di spaccio. Il cellulare non era un bene estraneo al reato, ma uno strumento utilizzato per realizzarlo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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