Spaccio di lieve entità: Quando la continuità esclude l’ipotesi lieve
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sui criteri per distinguere lo spaccio di stupefacenti dall’ipotesi di spaccio di lieve entità. La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato, condannato per cessioni multiple e continuate, confermando che la sistematicità e l’organizzazione dell’attività sono elementi ostativi al riconoscimento del fatto di lieve entità, previsto dal comma 5 dell’art. 73 del Testo Unico Stupefacenti.
I fatti del caso: Un’attività di spaccio prolungata
Il caso esaminato riguardava un soggetto condannato in Corte d’Appello per una lunga serie di episodi di cessione di sostanze stupefacenti. L’attività illecita si era protratta per un arco temporale di oltre due anni, coinvolgendo numerosi e diversi acquirenti. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’imputato aveva dimostrato una notevole capacità di accedere a importanti fonti di rifornimento, il che gli consentiva di gestire lo spaccio con continuità e regolarità, quasi come un’attività professionale.
La richiesta di riqualificazione e il ricorso in Cassazione
La difesa dell’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione basandosi su un unico motivo: la violazione di legge per la mancata riqualificazione dei fatti come spaccio di lieve entità. Secondo il ricorrente, le singole cessioni avrebbero dovuto essere inquadrate nella fattispecie attenuata, che comporta una pena significativamente inferiore. L’obiettivo era ottenere una valutazione più mite della condotta, sostenendo che le sue caratteristiche non raggiungessero la soglia di gravità del reato ordinario.
Le motivazioni
La Corte di Cassazione ha rigettato completamente la tesi difensiva, dichiarando il ricorso inammissibile. I giudici hanno sottolineato che la valutazione della Corte d’Appello era stata precisa, circostanziata e giuridicamente corretta. Gli elementi emersi nel processo, infatti, delineavano un quadro incompatibile con la nozione di ‘lieve entità’.
In particolare, la Corte ha evidenziato come l’ampio lasso temporale (oltre due anni), la pluralità di acquirenti e la regolarità delle cessioni dimostrassero una capacità organizzativa e una disponibilità di sostanza che esulano dalla marginalità tipica del fatto lieve. La continuità dell’attività, supportata da canali di approvvigionamento stabili, è stata considerata un indice decisivo della gravità della condotta, che non può essere sminuita considerandola una mera somma di singoli episodi di modesta entità.
Le conclusioni
A seguito della declaratoria di inammissibilità, e richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale, la Cassazione ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, è stato disposto il versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende. Questa sanzione pecuniaria è una conseguenza prevista dall’articolo 616 del codice di procedura penale quando il ricorso è inammissibile e non vi sono elementi per ritenere che l’impugnazione sia stata proposta senza colpa. La decisione ribadisce quindi un principio fondamentale: l’ipotesi di spaccio di lieve entità è riservata a condotte occasionali e marginali, mentre un’attività strutturata e protratta nel tempo rientra a pieno titolo nella fattispecie ordinaria del reato.
Quando un’attività di spaccio non può essere considerata di ‘lieve entità’?
Secondo la Corte, non può essere considerata di lieve entità quando l’attività è caratterizzata da numerose cessioni a diversi acquirenti, si protrae per un lungo periodo di tempo (in questo caso oltre due anni) e dimostra una capacità dell’imputato di avere accesso a importanti fonti di rifornimento, svolgendo l’attività con continuità e regolarità.
Cosa succede se un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
In base all’ordinanza, la dichiarazione di inammissibilità comporta per il ricorrente la condanna al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende.
Perché il ricorrente è stato condannato al pagamento di una somma alla Cassa delle ammende?
È stato condannato perché, ai sensi dell’art. 616 del codice di procedura penale e della giurisprudenza della Corte Costituzionale, non sono emersi elementi per ritenere che avesse proposto il ricorso senza colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 23023 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 23023 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 15/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME ( CODICE_FISCALE ) nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 29/09/2023 della CORTE APPELLO di FIRENZE
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
NOME COGNOME ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata con la quale stato condannato in ordine al reato di cui all’art. 73, d.P.R.309/1990, in relazione a p episodi di cessione di sostanza stupefacente, deducendo, con unico motivo, violazione di legge in relazione alla mancata qualificazione dei fatti contestati ai sensi del comma 5 dell’a d.P.R.309/1990.
Al riguardo si evidenzia che al ricorrente sono contestate numerosissime cessioni di sostanza stupefacente a numerosi e diversi acquirenti, avvenute in uno ampio lasso temporale di oltr due anni, evidenziando una certa capacità dell’imputato di avere accesso a importanti fonti rifornimento dello stupefacente, tanto da poter volgere con continuità e regolarità, alla cessi Dalle cadenze motivazionali della sentenza d’appello è dato quindi desumere una ricostruzione dei fatti precisa e circostanziata e un corretto inquadramento giuridico degli stessi, ave giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti all loro conclusioni attraverso una disamina completa ed approfondita, in fatto e in diritto, risultanze processuali, dalle quali hanno tratto conseguenze corrette sul piano giuridico.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia prop il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processua ed al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 15 marzo 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente