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Spaccio di lieve entità: Cassazione su inammissibilità

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per spaccio. La richiesta di qualificare il reato come spaccio di lieve entità è stata respinta a causa delle numerose cessioni, della continuità dell’attività e delle importanti fonti di rifornimento, elementi incompatibili con l’ipotesi lieve.

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Pubblicato il 26 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Spaccio di lieve entità: Quando la continuità esclude l’ipotesi lieve

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sui criteri per distinguere lo spaccio di stupefacenti dall’ipotesi di spaccio di lieve entità. La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato, condannato per cessioni multiple e continuate, confermando che la sistematicità e l’organizzazione dell’attività sono elementi ostativi al riconoscimento del fatto di lieve entità, previsto dal comma 5 dell’art. 73 del Testo Unico Stupefacenti.

I fatti del caso: Un’attività di spaccio prolungata

Il caso esaminato riguardava un soggetto condannato in Corte d’Appello per una lunga serie di episodi di cessione di sostanze stupefacenti. L’attività illecita si era protratta per un arco temporale di oltre due anni, coinvolgendo numerosi e diversi acquirenti. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’imputato aveva dimostrato una notevole capacità di accedere a importanti fonti di rifornimento, il che gli consentiva di gestire lo spaccio con continuità e regolarità, quasi come un’attività professionale.

La richiesta di riqualificazione e il ricorso in Cassazione

La difesa dell’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione basandosi su un unico motivo: la violazione di legge per la mancata riqualificazione dei fatti come spaccio di lieve entità. Secondo il ricorrente, le singole cessioni avrebbero dovuto essere inquadrate nella fattispecie attenuata, che comporta una pena significativamente inferiore. L’obiettivo era ottenere una valutazione più mite della condotta, sostenendo che le sue caratteristiche non raggiungessero la soglia di gravità del reato ordinario.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato completamente la tesi difensiva, dichiarando il ricorso inammissibile. I giudici hanno sottolineato che la valutazione della Corte d’Appello era stata precisa, circostanziata e giuridicamente corretta. Gli elementi emersi nel processo, infatti, delineavano un quadro incompatibile con la nozione di ‘lieve entità’.

In particolare, la Corte ha evidenziato come l’ampio lasso temporale (oltre due anni), la pluralità di acquirenti e la regolarità delle cessioni dimostrassero una capacità organizzativa e una disponibilità di sostanza che esulano dalla marginalità tipica del fatto lieve. La continuità dell’attività, supportata da canali di approvvigionamento stabili, è stata considerata un indice decisivo della gravità della condotta, che non può essere sminuita considerandola una mera somma di singoli episodi di modesta entità.

Le conclusioni

A seguito della declaratoria di inammissibilità, e richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale, la Cassazione ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Inoltre, è stato disposto il versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende. Questa sanzione pecuniaria è una conseguenza prevista dall’articolo 616 del codice di procedura penale quando il ricorso è inammissibile e non vi sono elementi per ritenere che l’impugnazione sia stata proposta senza colpa. La decisione ribadisce quindi un principio fondamentale: l’ipotesi di spaccio di lieve entità è riservata a condotte occasionali e marginali, mentre un’attività strutturata e protratta nel tempo rientra a pieno titolo nella fattispecie ordinaria del reato.

Quando un’attività di spaccio non può essere considerata di ‘lieve entità’?
Secondo la Corte, non può essere considerata di lieve entità quando l’attività è caratterizzata da numerose cessioni a diversi acquirenti, si protrae per un lungo periodo di tempo (in questo caso oltre due anni) e dimostra una capacità dell’imputato di avere accesso a importanti fonti di rifornimento, svolgendo l’attività con continuità e regolarità.

Cosa succede se un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
In base all’ordinanza, la dichiarazione di inammissibilità comporta per il ricorrente la condanna al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende.

Perché il ricorrente è stato condannato al pagamento di una somma alla Cassa delle ammende?
È stato condannato perché, ai sensi dell’art. 616 del codice di procedura penale e della giurisprudenza della Corte Costituzionale, non sono emersi elementi per ritenere che avesse proposto il ricorso senza colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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