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Spaccio di droga: quando si applica la custodia in carcere

La Corte di Cassazione ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere per due soggetti accusati di spaccio di droga continuato. La Corte ha rigettato la richiesta di riqualificare il reato come ‘fatto di lieve entità’, sottolineando che l’attività prolungata nel tempo, l’organizzazione, la disponibilità di diverse sostanze e una vasta clientela sono elementi che escludono tale ipotesi. Inoltre, la mancanza di una fissa dimora è stata decisiva per ritenere la detenzione l’unica misura idonea a prevenire la reiterazione del reato.

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Pubblicato il 25 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Spaccio di Droga: Attività Strutturata Esclude il ‘Fatto di Lieve Entità’ e Giustifica il Carcere

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 37371/2025) ha fornito importanti chiarimenti sui criteri per l’applicazione della custodia cautelare in carcere in casi di spaccio di droga. La Corte ha stabilito che un’attività di spaccio prolungata, ben organizzata e rivolta a una clientela fidelizzata non può essere considerata di ‘lieve entità’, anche se le singole cessioni riguardano modici quantitativi. Questa decisione rafforza la linea dura contro le reti di spaccio strutturate, anche a livello locale.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda due persone indagate per aver detenuto e ceduto cocaina e hashish a numerosi acquirenti per un periodo di circa due anni. Inizialmente, il Giudice per le indagini preliminari (G.i.p.) di Verona aveva rigettato la richiesta di custodia in carcere. Tuttavia, il Pubblico Ministero ha presentato appello e il Tribunale di Venezia ha riformato la decisione, disponendo la detenzione per entrambi gli indagati. Contro questa ordinanza, la difesa ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando l’errata applicazione della legge.

I Motivi del Ricorso e lo Spaccio di Droga Continuato

La difesa ha basato il ricorso su tre motivi principali:

1. Errata qualificazione giuridica: Si sosteneva che il fatto dovesse essere riqualificato come ‘spaccio di lieve entità’ (art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990). Tale riqualificazione avrebbe comportato una pena prevedibilmente inferiore ai tre anni, rendendo inapplicabile la custodia in carcere secondo l’art. 275, comma 2-bis, del codice di procedura penale.
2. Mancanza di esigenze cautelari attuali: Secondo i ricorrenti, il tempo trascorso e l’interruzione dell’attività criminale rendevano la misura cautelare non più necessaria per prevenire il rischio di reiterazione del reato.
3. Inadeguatezza e sproporzione della misura: La difesa ha criticato la scelta della custodia in carcere, ritenendola sproporzionata e non personalizzata, dato che esistevano misure meno afflittive per interrompere i contatti con clienti e fornitori.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto integralmente il ricorso, confermando la validità dell’ordinanza del Tribunale di Venezia.

Sul primo punto, i giudici hanno chiarito che la qualificazione dello spaccio di droga come ‘fatto di lieve entità’ non dipende solo dalla quantità di sostanza ceduta in una singola occasione. È necessaria una valutazione complessiva che tenga conto di tutti i parametri indicati dalla legge. Nel caso di specie, elementi come la durata biennale dell’attività, la disponibilità di due tipi di droghe, una vasta e stabile clientela, l’uso di collaboratori e canali di approvvigionamento stabili (capaci di fornire ‘sassi’ di cocaina da 50 grammi) delineavano un quadro di non occasionalità e di notevole capacità operativa. Questo scenario è incompatibile con la ‘lieve entità’.

In merito alle esigenze cautelari, la Corte ha sottolineato che l’attività criminale era proseguita fino a pochi mesi prima della decisione, come dimostrato da un accertamento del gennaio 2025. Il tempo trascorso è stato giudicato ‘assai modesto’ e insufficiente a far venir meno la pericolosità sociale degli indagati, data la loro ‘perdurante attitudine’ a commettere reati analoghi.

Infine, riguardo alla scelta della misura, la Cassazione ha ritenuto la custodia in carcere l’unica soluzione praticabile e proporzionata. La decisione si fonda su un elemento cruciale: gli indagati erano privi di una fissa dimora. Questa circostanza rendeva di fatto inapplicabili misure alternative come gli arresti domiciliari, poiché non esisteva un luogo idoneo dove contenere la loro capacità di movimento e di reiterare i reati.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: la valutazione sulla gravità dello spaccio di stupefacenti deve essere complessiva e non frammentaria. Un’attività criminale sistematica, organizzata e prolungata nel tempo, anche se composta da singole cessioni di piccole quantità, costituisce un reato grave che giustifica l’applicazione della più severa misura cautelare. Inoltre, la pronuncia evidenzia come le condizioni personali dell’indagato, come la mancanza di una fissa dimora, possano diventare decisive nella scelta della misura da applicare, orientando il giudice verso la custodia in carcere come unica opzione per tutelare le esigenze della collettività.

Quando lo spaccio di droga non può essere considerato di ‘lieve entità’?
Non può essere considerato di ‘lieve entità’ quando l’attività è sistematica, protratta nel tempo (in questo caso due anni), riguarda diverse tipologie di sostanze, si avvale di canali di approvvigionamento stabili e si rivolge a una vasta e fidelizzata clientela. Questi elementi indicano una capacità organizzativa e una gravità complessiva incompatibili con l’ipotesi lieve.

Perché il tempo trascorso non ha eliminato le esigenze cautelari?
Perché la Corte ha ritenuto il lasso di tempo ‘assai modesto’ e ha dato peso alla continuità dell’attività criminale, accertata fino a poco prima dell’adozione della misura. La ‘perdurante attitudine’ a delinquere, dimostrata dalla disponibilità di canali di spaccio e rifornimento, ha fatto prevalere la necessità di prevenire la commissione di nuovi reati.

Perché è stata scelta la custodia in carcere e non una misura meno grave?
La custodia in carcere è stata ritenuta l’unica misura adeguata perché gli indagati erano privi di una fissa dimora. Questa condizione rendeva impossibile applicare misure alternative come gli arresti domiciliari, che richiedono un luogo specifico dove l’indagato deve rimanere. Di conseguenza, il carcere era l’unica opzione per limitare la loro capacità di movimento e prevenire la reiterazione del reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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