Spaccio di droga: quando la quantità e gli indizi superano la tesi dell’uso personale
La distinzione tra detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale e per finalità di spaccio di droga è una delle questioni più delicate e ricorrenti nel diritto penale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ribadisce un principio consolidato: non è solo la quantità a contare, ma un insieme di elementi indiziari che, letti congiuntamente, possono delineare un quadro inequivocabile di attività illecita. Analizziamo come i giudici di legittimità abbiano valutato un caso specifico, confermando la condanna di un individuo nonostante la sua difesa si basasse sull’uso personale e su una terapia sostitutiva.
I Fatti del Caso
Il caso trae origine dal ricorso presentato da un uomo contro una sentenza della Corte d’Appello di Roma. L’imputato era stato trovato in possesso di un significativo quantitativo di sostanza stupefacente. Dagli accertamenti era emerso che da tale quantitativo si sarebbero potute ricavare ben 296 dosi medie singole.
Oltre al dato ponderale, altri elementi aggravavano la sua posizione: la sostanza era stata rinvenuta in parte già suddivisa in bustine, pronte per la cessione a terzi, e nel corso della perquisizione era stata trovata anche una bilancia di precisione, peraltro intrisa della medesima sostanza. Questi elementi, secondo i giudici di merito, costituivano prove sufficienti per configurare l’ipotesi di reato di detenzione ai fini di spaccio.
La Decisione della Corte di Cassazione e il Principio sullo Spaccio di Droga
La Suprema Corte, con l’ordinanza in esame, ha dichiarato il ricorso inammissibile. I giudici hanno ritenuto che la motivazione della Corte d’Appello fosse adeguata e logicamente coerente, avendo valorizzato una pluralità di elementi indicativi della destinazione della droga allo spaccio.
La difesa del ricorrente si era incentrata sulla sua condizione di tossicodipendente, comprovata dalla partecipazione a una terapia metadonica. Tuttavia, la Cassazione ha avallato la valutazione dei giudici di merito, secondo cui tale terapia era “ragionevolmente inconciliabile con l’uso personale della droga” sequestrata. La decisione conferma che la semplice condizione di consumatore non esclude automaticamente la finalità di spaccio, specialmente di fronte a prove concrete che puntano in direzione opposta.
Le Motivazioni: Oltre la Semplice Quantità per lo Spaccio di Droga
Le motivazioni alla base della decisione sono cruciali per comprendere l’orientamento della giurisprudenza. La Corte non si è limitata a considerare il dato numerico delle 296 dosi, seppur di per sé rilevante. Ha invece applicato un approccio olistico, valutando l’insieme degli indizi come un quadro unitario e concordante:
1. Il quantitativo ingente: Un numero di dosi così elevato è stato considerato incompatibile con un consumo puramente personale, anche per un tossicodipendente.
2. Le modalità di confezionamento: La suddivisione della sostanza in bustine è un classico indicatore della preparazione per la vendita al dettaglio.
3. La presenza di strumentazione: Il rinvenimento di una bilancia di precisione, strumento tipico per la pesatura e la suddivisione delle dosi, ha ulteriormente rafforzato l’ipotesi accusatoria.
4. L’incompatibilità con la terapia: La Corte ha sottolineato come la terapia metadonica, un trattamento volto a ridurre la dipendenza da oppiacei, fosse difficilmente conciliabile con il possesso di un tale quantitativo di droga per autoconsumo.
In sostanza, la decisione si fonda sulla valutazione complessiva delle circostanze di fatto, che nel loro insieme dipingono un quadro probatorio solido a favore della destinazione allo spaccio della sostanza.
Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Pronuncia
Questa ordinanza fornisce importanti implicazioni pratiche. In primo luogo, ribadisce che per provare lo spaccio di droga, il giudice deve considerare tutti gli elementi a disposizione, senza fermarsi al solo dato quantitativo. Le modalità di detenzione e gli strumenti utilizzati sono fattori determinanti.
In secondo luogo, la condizione di tossicodipendente o la partecipazione a programmi di recupero non costituiscono uno scudo automatico contro l’accusa di spaccio. Se gli indizi materiali (confezionamento, bilancini, ecc.) sono forti, la tesi dell’uso personale diventa difficile da sostenere. Infine, la declaratoria di inammissibilità del ricorso comporta, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale, la condanna del ricorrente non solo al pagamento delle spese processuali, ma anche di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, che in questo caso è stata fissata in 3.000 euro.
Quali elementi ha considerato la Corte per confermare l’accusa di spaccio di droga?
La Corte ha considerato una pluralità di elementi indicativi, tra cui: il quantitativo della sostanza da cui si potevano ricavare 296 dosi medie, la suddivisione in bustine e il ritrovamento di una bilancia intrisa della stessa sostanza.
La partecipazione a una terapia metadonica è sufficiente a escludere l’intenzione di spacciare?
No. Nel caso specifico, i giudici hanno ritenuto che la terapia metadonica seguita dall’imputato fosse ragionevolmente inconciliabile con l’uso personale della droga detenuta, e quindi non sufficiente a superare gli altri elementi che provavano l’intenzione di spaccio.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso in Cassazione?
La dichiarazione di inammissibilità comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma di denaro a favore della Cassa delle ammende, che in questa vicenda è stata quantificata in 3.000 euro.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 26293 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 26293 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 08/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a ROMA il 15/02/1979
avverso la sentenza del 03/03/2025 della CORTE APPELLO di ROMA
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
N. 62)
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza del 3 marzo 2025 la Corte di appello di Roma ha confermato la pronuncia del Tribunale di Roma che aveva dichiarato COGNOME NOME responsabile del
reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, deducendo con unico motivo violazione di legge e vizio di motivazione per
avere la Corte di appello ritenuto sussistente la finalità di spaccio in riferimento alla dr trovata in suo possesso.
Il ricorso è inammissibile, perché contenente censure non consentite nel giudizio di legittimità, in quanto concernenti profili del giudizio rimessi alla esclusiva competenza d
giudice di merito, che ha fornito una congrua e adeguata motivazione, immune da censure di manifesta illogicità perché basata su corretti criteri di inferenza, espressi i
ragionamento fondato su condivisibili massime di esperienza.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, i giudici di merito hanno adeguatamente motivato in punto di responsabilità, valorizzando plurimi elementi indicativi della destinazione allo spaccio della sostanza stupefacente rinvenuta in possesso del prevenuto, trattandosi di quantitativo da cui erano ricavabili 296 dosi medie singole, in parte suddiviso in bustine dal medesimo trasportate e tenuto conto della bilancia trovata intrisa di sostanza; anche la terapia metadonica seguita dall’imputato è stata considerata ragionevolmente inconciliabile con l’uso personale della droga.
Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma di C 3.000,00 a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in data 8 luglio 2025
Il Consigliere estensore
Il Psidente