Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 46753 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 46753 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Brescia il 18/7/1987
avverso la sentenza del 12/3/2024 della Corte di appello di Brescia; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procurat generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento senza rin limitatamente alla condizione posta alla sospensione condizionale della pena
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 12/3/2024 la Corte di appello di Brescia, in parzia riforma della pronuncia emessa il 1°/4/2022 dal locale Tribunale, concedeva a NOME COGNOME la sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento dell’IVA non versata, da eseguire entro un anno dal passaggio in giudicato de sentenza, nel resto confermando la condanna alla pena di sei mesi di reclusio per il delitto di cui all’art. 10-ter, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi:
inosservanza ed erronea applicazione della norma contestata in relazione all’art. 42 cod. pen. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna senza riconoscere effettivamente il dolo del reato, ed anzi riscontrandolo in re ipsa nella condotta tenuta; se non proprio il dolo specifico, invece, la sentenza avrebbe dovuto quantomeno individuare una volontà evasiva che, per contro, non sarebbe stata provata;
errata applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. La Corte avrebbe negato le circostanze attenuanti generiche con argomento viziato, ossia richiamando la mancanza di una condotta risarcitoria o riparatoria da parte del ricorrente; condotta che, tuttavia, se tenuta, avrebbe integrato la circostanza attenuante di cui all’art. 13-bis, d. Igs. n. 74 del 2000, o addirittura la causa di non punibilità di cui all’art. 13, stesso decreto;
errata applicazione dell’art. 165 cod. pen. La Corte di appello avrebbe subordinato la sospensione condizionale della pena all’integrale versamento dell’imposta dovuta: la persona offesa Agenzia delle entrate, tuttavia, non si sarebbe costituita parte civile, sicché la sentenza non avrebbe potuto subordinare il beneficio nei termini richiamati, come affermato dalla costante giurisprudenza, anche a Sezioni Unite;
infine, ed ancora sul medesimo punto, si censura che la sentenza avrebbe assegnato al ricorrente un solo anno (dal passaggio in giudicato) per provvedere al pagamento, anche se lo stesso potrebbe accedere ad una rateazione decennale (e – in caso di debiti affidati ad Agenzia delle entrate-Riscossione, quantomeno di 6 anni).
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso – che non coinvolge il profilo oggettivo del reato – risult infondato.
Con riguardo al primo motivo, in punto di dolo della fattispecie, il Collegio rileva che la motivazione di entrambe le sentenze di merito – da leggere in modo unitario, data la “doppia conforme” – non merita censura. Già il primo Giudice, richiamato dalla Corte di appello, ha infatti evidenziato, per un verso, che l’art. 10-ter, d. Igs. n. 74 del 2000, è retto dal dolo generico (contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, a pag. 3), e, per altro verso, che la stessa coscienza e volontà di omettere il versamento dell’IVA aveva trovato piena conferma dibattimentale: in particolare, sono stati valorizzati l’importo evaso, di oltr 100mila euro superiore alla soglia di punibilità, e l’avvenuta sottoscrizione della dichiarazione IVA proprio da parte del COGNOME. L’istruttoria, peraltro, aveva accertato che il mancato versamento aveva riguardato non solo l’imposta
dichiarata per l’anno 2016, ma anche quella che – nella medesima dichiarazione, al rigo VL29 – veniva riferito essere stata già versata a titolo di acconto.
4.1. Ebbene, proprio in forza di questi elementi, oggettivi e non contestati, le sentenze hanno individuato la coscienza e la volontà dell’omissione in capo al COGNOME, con una motivazione solida, priva di illogicità manifesta e ben diversa dal dolo in re ipsa che il ricorso censura.
La stessa impugnazione, di seguito, risulta manifestamente infondata anche quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche. La Corte di appello, ancora con argomento del tutto adeguato e qui non censurabile, ha evidenziato plurimi elementi al riguardo, quali: a) l’assenza di indici di meritevolezza o di ridotta offensività del reato; b) il consistente superamento della soglia di punibilità per oltre 100mila euro; c) l’assenza di ogni ravvedimento successivo, anche parziale, da parte dell’imputato; d) i precedenti penali per reati della stessa indole. Di questa più che adeguata motivazione, peraltro, il ricorso non fa che un cenno, limitandosi a contestare il solo profilo del mancato pagamento del dovuto; neppure una considerazione, dunque, quanto agli ulteriori e logici argomenti spesi dalla Corte, nessun confronto con la sentenza al riguardo, da ciò derivando l’evidente inammissibilità dello stesso motivo di censura.
L’impugnazione, infine, risulta infondata anche in ordine alla terza doglianza, con la quale si contesta la subordinazione della sospensione condizionale della pena all’integrale pagamento dell’imposta evasa, nonostante la persona offesa – Agenzia delle entrate, direzione provinciale di Brescia – non si sia costituita parte civile; dunque, si afferma, in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite.
Questa tesi non può essere accolta.
6.1. Proprio la pronuncia del Supremo Collegio n. 32939 del 27/4/2023, Selvaggio, ha innanzitutto evidenziato che l’attuale lettera dell’art. 165, comma 1, cod. pen., stabilisce che la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno; può altresì essere subordinata, salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna.
6.2. Di seguito, le Sezioni Unite hanno affermato che “non si può (…) dubitare del collegamento inscindibile esistente tra la prima parte dell’art. 165, primo comma, cod. pen. e le finalità civilistiche connesse alla costituzione in giudizio
della parte civile, dovendo tale disposizione essere interpretata in stretto raccordo con gli artt. 185 cod. pen., 74, 538 e 578. – Tale correlazione sistematica discende dalla riconducibilità alla nozione di danno civilistico degli obblighi risarcitor restitutori previsti dalla prima parte dell’art. 165, primo comma, cod. pen. Essi devono essere differenziati dall’obbligo di eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, prevista dalla seconda parte della stessa disposizione, che inerisce, invece, alla nozione di danno criminale (Sez. 2, n. 3958 del 18/12/2013, dep. 2014, COGNOME).”
6.3. “Ragionando diversamente”, ha ancora precisato la sentenza Selvaggio, “si finirebbe per sovrapporre nozioni sistematicamente eterogenee. Non si può, infatti, dubitare che il danno civilistico, con forte connotazione privatistica disciplinato dalla prima parte dell’art. 165, primo comma, cod. pen., riguarda le ipotesi del risarcimento del danno e della restituzione dei beni conseguiti per effetto del reato. Entrambe richiedono la costituzione in giudizio della parte civile. Al contrario, il danno criminale, con evidente connotazione pubblicistica e disciplinato dalla seconda parte dell’art. 165, primo comma, cod. pen., riguarda l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato e, quindi, il cosiddetto danno criminale che prescinde dalla costituzione in giudizio della parte civile”.
6.4. Così concludendo, dunque, che, in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice può subordinare tale beneficio al risarcimento del danno solo quando vi sia stata la costituzione di parte civile, in quanto il risarcimento, come l’adempimento dell’obbligo della restituzione di beni conseguiti per effetto del reato, riguarda il solo danno civile, non quello criminale; che si indentifica con le conseguenze di tipo pubblicistico che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale e che assumono rilievo, a norma del citato art. 165 cod. pen., solo se i loro effetti non sono ancora cessati (tra le altre, Sez. 2, n. 23290 del 21/4/2021, COGNOME, Rv. 281597; Sez. 6, n. 8314 del 28/1/2021, Rv. 280711; Sez. 2, n. 45854 del 13/9/2019, COGNOME, Rv. 277632).
6.5. Tanto premesso e ribadito in termini generali, il Collegio rileva che il mancato pagamento di quanto dovuto in ottemperanza alle norme di carattere tributario costituisce un’evidente espressione di lesione al bene giuridico tutelato dalle medesime disposizioni, da individuare nell’integrità dell’erario imprescindibile strumento per il sostenimento della spesa pubblica – alla quale ciascuno è tenuto a concorrere, ottemperando ad un sistema tributario che, per espressa previsione costituzionale (art. 53, comma 2, Cost.), deve essere informato a criteri di progressività. Il pagamento dell’imposta evasa, dunque non versata, non costituisce il risarcimento di un danno arrecato con la condotta di
reato, né la restituzione di un bene di cui il soggetto si sia indebitamente appropriato, ma la doverosa ricomposizione di un rapporto economico tra lo Stato ed il contribuente, evidentemente di natura pubblicistica perché finalizzato alla realizzazione di interessi essenziali che coinvolgono l’intera collettività.
Ne consegue che la costituzione di parte civile ad opera dell’Agenzia delle entrate non costituisce presupposto necessario affinché il giudice subordini la sospensione condizionale della pena al pagamento dell’imposta evasa.
Infine, il ricorso risulta manifestamente infondato quanto all’ultimo, correlato motivo, che qualifica “iniquo” il riconoscimento di un anno (dal passaggio in giudicato della sentenza) per procedere al pagamento. La censura, infatti, posa su un dato meramente ipotetico, astratto ed eventuale, ossia che “l’imputato potrebbe accedere alla rateazione in 120 rate mensili (10 anni)”; un dato, pertanto, che non può essere preso in esame.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2024
Il ,C9rTigliere estensore
COGNOME Il Presidente