Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 19137 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 19137 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOMECOGNOME nato a Reggio Calabria 1’11/02/1959 avverso il decreto del 28/11/2023 della Corte di appello di Reggio Calabria;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e ticorsé; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del , Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per la inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Orazio NOME COGNOME con atto del proprio difensore, impugna il decreto in epigrafe indicato, che ha confermato l’aggravamento delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza a lui applicata (nello specifico, incrementando la frequenza dell’obbligo di presentazione all’autorità preposta alla sorveglianza).
Il ricorso consta di due motivi:
violazione di legge e vizi di motivazione in punto di esistenza di elementi sintomatici della pericolosità sociale, per avere il decreto acriticamente recepito le valutazioni del Pubblico ministero richiedente e del provvedimento appellato, omettendo la necessaria valutazione complessiva della condotta del ricorrente e limitandosi a riportare l’elenco dei procedimenti penali più recenti cui egli è stato sottoposto ed alcune delle relative risultanze istruttorie;
II) violazione di legge e vizi di motivazione in punto di attualità della pericolosità sociale, perché, allo stato, il ricorrente è ristretto in carcere l’esecuzione della sorveglianza speciale è, perciò, sospesa; il decreto impugnato ha ritenuto irrilevante tale circostanza, con motivazione tuttavia non esauriente, che ha omesso di confrontarsi con le ragioni che hanno condotto dapprima la Corte costituzionale (sent. 291 del 2013) e poi il legislatore – con la novella n. 161 del 2017, che ha introdotto all’art. 14, d. Igs. n. 159 del 2011, il comma 2-ter a prevedere che, dopo la cessazione della detenzione del proposto per una durata superiore ai due anni, l’esecuzione della misura di prevenzione rimasta sospesa impone il previo accertamento della perdurante pericolosità sociale del medesimo.
Ha depositato la propria requisitoria la Procura generale, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, per una pluralità di ragioni.
In primo luogo, è tale perché deduce essenzialmente vizi della motivazione, mentre – a norma dell’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – il ricorso per cassazione avverso il decreto reso dalla Corte di appello in materia di misure di prevenzione è consentito esclusivamente per violazione di legge.
L’affermazione per cui la motivazione del decreto sarebbe soltanto apparente – e, in quanto tale, integrante una violazione di legge (per tutte: Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246) – è nulla più di un flatus vocis.
Apparente, infatti, è la motivazione che ometta del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettato da una parte, il quale, singolarmente considerato, sia tale da poter determinare un esito opposto del giudizio; nulla di tutto questo, invece, si rileva nel caso specifico, in cui la Cor d’appello ha rassegnato, a sostegno del proprio giudizio, una pletora di concludenti risultanze probatorie tratte da plurimi processi penali, alle quali il ricorso no replica alcunché.
Per altro verso, l’impugnazione è inammissibile perché introduce un tema non consentito, qual è quello dell’attuale sussistenza della pericolosità.
Per effetto dell’iniziativa del Pubblico ministero, la questione portata alla cognizione del giudice è soltanto quella dell’adeguatezza della misura imposta e della necessità di ulteriori e più restrittive prescrizioni. Il giudizio sull’at permanenza del presupposto legittimante l’applicazione della sorveglianza speciale, invece, avrebbe richiesto la presentazione, da parte del proposto, di un’istanza di revoca di tale misura, secondo il procedimento di cui all’art. 11, d.lgs. n. 159 del 2011.
Nella parte, poi, in cui deduce l’incompatibilità dell’aggravamento della misura con l’attuale sospensione della relativa esecuzione a causa della restrizione in carcere del destinatario, l’impugnazione è generica e manifestamente infondata.
Essa, infatti, non specifica se COGNOME si trovi attualmente sottoposto a custodia cautelare o in espiazione di pena, ed il disposto dell’art. 14, comma 2ter, d.lgs. n. 159/2011, invocato dalla difesa, è applicabile soltanto nella seconda di tali ipotesi; in caso di custodia cautelare, invece, come correttamente rilevato dal decreto impugnato, la ripresa della misura di prevenzione rimasta sospesa durante la restrizione non necessita della preliminare rivalutazione dell’attualità della pericolosità, trovando applicazione la diversa disciplina del comma 2-bis del medesimo art. 14.
Da quanto s’è appena detto, poi, discende che, qualora il ricorrente fosse detenuto in espiazione di pena, la sua impugnazione sarebbe inammissibile anche per mancanza d’interesse.
L’interesse richiesto dall’art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, infatti, dev’essere concreto, e cioè mirare a rimuovere l’effettivo pregiudizio che la parte asserisce di aver subito con il provvedimento impugnato, con la conseguenza che esso non può ravvisarsi qualora l’eventuale accoglimento dell’impugnazione andasse a cadere su un provvedimento privo di efficacia (per tutte: Sez. U, n. 7 del 25/06/1997, COGNOME, Rv. 208165). Nello specifico, invece, proprio per effetto di quanto disposto dal citato art. 14, comma 2-ter, l’esecuzione della misura di prevenzione, comprensiva delle ulteriori prescrizioni oggetto del provvedimento impugnato, sarebbe subordinata alla previa verifica della persistenza della pericolosità sociale del destinatario, da condursi nel contraddittorio tra le parti, a norma dell’art. 7 d.lgs. n. 159 del 2011, ivi espressamente richiamato, non essendo perciò tale provvedimento suscettibile d’incidere sulla sfera giuridica dell’interessato prima di una rivalutazione dei relativi presupposti (in questo senso, seppur con riferimento
all’ipotesi dell’impugnazione del rigetto dell’istanza di revoca avanzata dall’interessato, vds. Sez. 6, n. 26243 del 24/06/2020, COGNOME, Rv. 279612, i
cui argomenti sono estensibili, per identità di ratio,
al caso, opposto ma simmetrico, dell’aggravamento della misura per effetto d’iniziativa del Pubblico
ministero).
6. Da ultimo, il ricorso in rassegna è inammissibile pure per la genericità dei motivi, deducendo che le risultanze probatorie poste a sostegno delle conformi
decisioni dei giudici di merito non sarebbero concludenti, ma non sorreggendo tale opinione con il benché minimo elemento dimostrativo.
7. L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art.
616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non
ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta
somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 18 aprile 2025.