Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 10757 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 10757 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato il 04/03/1991
avverso il decreto del 20/05/2024 della CORTE APPELLO di ANCONA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette:
la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso;
le conclusioni presentate dall’avvocato NOME COGNOME il quale nell’interesse del ricorrente – preliminarmente ha eccepito la mancata trasmissione della requisitoria scritta e ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con decreto del 20 maggio 2024 la Corte di appello di Ancona ha confermato il decreto in data 22 febbraio 2024 con il quale il Tribunale di Ancona aveva applicato a NOME COGNOME la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno per la durata di anni cinque.
Nell’interesse del COGNOME è stato proposto ricorso per cassazione avverso il provvedimento di secondo grado, formulando quattro motivi (di seguito esposti nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, d. att. cod. proc. pen.).
2.1. Con il primo motivo sono stati denunciati la violazione della legge penale e il vizio di motivazione, ad avviso della difesa del tutto omessa, in quanto la qualificazione del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d. Igs. 6 settembre 2011, n. 159, sarebbe avvenuta in difformità dai princìpi posti al riguardo dalla giurisprudenza di legittimità (alla luce di quanto affermato da Corte EDU de Tommaso e Corte cost. 24/2019) e, comunque, senza argomentare effettivamente (segnatamente, non indicando gli elementi distintivi rispetto all’ipotesi di cui alla lett. a) dello stesso articolo, dichia costituzionalmente illegittima). Il decreto impugnato avrebbe erroneamente valorizzando reati prescritti o rispetto ai quali è intervenuta remissione della querela, contravvenzioni e delitti tentati, senza motivare sulle allegazioni difensive, ivi comprese quelle volte a escludere che il ricorrente abbia vissuto (anche solo in parte) con i proventi dei delitti a lui attribuiti, mancando pure una disamina del suo reddito; ancora, non si sarebbe considerato il periodo di detenzione del ricorrente, che escluderebbe l’abitualità (anche alla luce degli altri elementi in atti).
2.2. Con il secondo motivo è stata prospettata la mancanza di motivazione in ordine alla richiesta, avanzata dal Pubblico ministero, di ridurre a tre anni la durata della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza determinata dal Tribunale in cinque anni.
2.3. Con il terzo motivo sono stati addotti la violazione di norme processuali poste a pena di nullità e il vizio di motivazione sulle allegazioni contenute nella requisitoria scritta del Procuratore generale distrettuale in ordine al difetto di elementi per affermare che il ricorrente viva con i proventi di attività delittuosa abitualmente.
2.4. Con il quarto motivo sono stati denunciati la violazione della legge penale e il vizio di motivazione in relazione alla durata della misura applicata e dell’imposizione dell’obbligo di soggiorno, evidenziando come essa risulti del tutto sproporzionata ed irragionevole, nonché lesiva della dignità della persona (anche alla luce delle esigenze della famiglia del ricorrente, «sanziona» dall’applicazione della misura in contrasto con «il principio di precauzione»
indirettamente sanzionata); e come la Corte di merito non abbia argomentato sulle censure sollevate sul punto.
Il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso, evidenziando la conformità a legge del provvedimento impugnato (nella parte in cui ha qualificato il ricorrente come persona socialmente pericolosa) e l’irrituale proposizione del vizio di motivazione e di censure non sottoposte alla Corte d’appello (relative alla durata della misura e all’applicazione dell’obbligo di soggiorno; cfr. requisitoria scritta).
Il difensore del ricorrente ha presentato memoria con la quale:
eccepito la mancata trasmissione o comunicazione della requisitoria scritta che avrebbe inciso «in senso negativo sull’instaurazione di un contraddittorio difensionale adeguato»;
e ha ribadito la fondatezza di tutti i motivi di ricorso (cfr. memoria difensiva).
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Deve in primo luogo osservarsi che:
è del tutto infondata l’eccezione sollevata dalla difesa in ordine alla mancata trasmissione o comunicazione della requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte; difatti, l’art. 611, comma 1, cod. proc. pen. che disciplina il rito applicabile al presente procedimento – non prevede affatto tali incombenti («La corte provvede sui ricorsi in camera di consiglio. Se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall’articolo 127, la corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie senza la partecipazione del procuratore generale e dei difensori. Fino a quindici giorni prima dell’udienza il procuratore generale presenta le sue richieste e tutte le parti possono presentare motivi nuovi, memorie e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica»);
nel resto, la memoria difensiva non contiene alcuna replica alle argomentazioni spese del Procuratore generale (ma ha inteso ribadire la fondatezza dei motivi di ricorso); essa, tuttavia, è stata presentata il giorno 9 dicembre 2024, ossia quando era già spirato il termine di quindici giorni (da computarsi interi e liberi, con esclusione sia del dies a quo, sia del dies ad quem) prima dell’udienza del 18 dicembre 2024, posto dall’art. 611, comma 1, cod. proc. pen.; pertanto, delle relative argomentazioni il Collegio non terrà conto (cfr. Sez. 3, Ord. n. 30333 del 23/04/2021, COGNOME, Rv. 281726 – 01; Sez.
1, n. 28299 del 27/05/2019, R., Rv. 276414 – 01; Sez. 4, n. 49392 del 23/10/2018, S., Rv. 274040 – 01).
Ciò posto, al fine di provvedere sui motivi di impugnazione, occorre ribadire che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità:
nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge ai sensi degli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, d. Igs. 159 del 2011; dunque, è escluso dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità il vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso il caso di motivazione inesistente o meramente apparente poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello (dagli artt. 7, comma 1, e 10, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, in combinato disposto con l’art. 125, comma 3, cod. proc. pen.; Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246 – 01; nonché Sez. 5, n. 11325 del 23/09/2019, dep. 2020, COGNOME; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, COGNOME, Rv. 270080 – 01; Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, COGNOME, Rv. 257007 01);
la motivazione del tutto mancante oppure apparente e, dunque, inesistente, è ravvisabile soltanto quando essa sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente (Sez. 5, n. 9677 del 14/07/2014, dep. 05/03/2015, Rv. 263100 – 01; Sez. 3, n. 11292 del 13/02/2002, Salerno Rv. 221437 – 01); in altri termini, «il vizio di motivazione apparente sussiste solo quando il giudice non dia in realtà conto del percorso logico seguito per pervenire alla conclusione che adotta, argomentando per clausole di stile o affermazioni generiche non pertinenti allo specifico caso sottoposto alla sua valutazione» (Sez. 6, n. 31390 del 08/07/2011, COGNOME, Rv. 250686), ossia «allorché la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti» (Sez. 1, n. 4787 del 10/11/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 196361 – 01; cfr. pure Sez. 6, n. 49153 del 12/11/2015, COGNOME, Rv. 265244).
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Il primo motivo è inammissibile.
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La Corte di merito ha indicato i numerosi reati lucrogenetici attribuiti al ricorrente negli anni (in particolare, dal 2011 a epoca recente), facendo riferimento alla sua condanna irrevocabile per la detenzione di 531 grammi di cocaina (commessa nel 2012), alla sua condanna in primo grado per più fatti di ricettazione (commessi nel 2012, aventi ad oggetto assegni provento di furto in abitazione), alla declaratoria di prescrizione di un reato di furto in abitazione (commesso nel 2011) e della ricettazione di oggetti in oro e monili (collocata dal decreto impugnato in epoca successiva al 2011), a più fatti estorsivi (ascritti al Mati tra il 2016 e il 2017; nonché all’estorsione continuata della somma di euro 60.000, commessa tra il 2019 e il 2021 per cui ha riportato condanna in primo grado), ai fatti per cui è stato sottoposto nel 2023 alla custodia cautelare in carcere (ossia l’associazione per commettere tra l’altro i delitti di truffa, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio, impiego d denaro, beni o utilità di provenienza illecita), segnatamente inerenti a una frode dell’ingente importo di oltre 2.000.000 da destinare poi ad acquisti immobiliari e non solo (richiamando il tenore delle statuizioni cautelari); alle condotte appropriative (di attrezzature di cantiere, la cui restituzione il ricorrente ha subordinato alla dazione di somme di denaro) poste in essere nel 2018 (per cui è stato tratto a giudizio). Ed ha, pertanto, fondato su tali fatti essi e sulla continuità con cui sono stati posti in essere (oltre che sulla portata dimostrativa delle condotte produttive di maggior lucro) i presupposti per qualificare il COGNOME come persona che vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuosa, evidenziando – sotto il profilo dell’attualità – la prossimità dell condotte più recenti e il ruolo di spicco da attribuire al proposto negli illeciti che da ultimo hanno condotto alla produzione dell’ingente lucro sopra indicato.
In altri termini, la Corte distrettuale ha avuto correttamente riguardo agli elementi di fatto tratti dai procedimenti penali instaurati nei confronti del Mati, facendo espresso e compiuto riferimento alle condotte delittuose emerse nell’ambito di essi (ivi comprese quelle che non hanno condotto a una condanna per difetto della condizione di procedibilità o per prescrizione) e al lasso di tempo in cui il ricorrente ha agito. E ciò in conformità alla giurisprudenza di legittimità che, anche successivamente alla pronuncia costituzionale invocata dalla difesa, ha chiarito che nel compiere il giudizio di pericolosità e, per quel che qui più rileva, nell’avere riguardo al profilo «constatativo» che ne costituisce la prima fase (Sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, COGNOME, Rv. 260103 – 4), il giudice della prevenzione anche nei casi di pericolosità generica:
– «può ritenere la riconducibilità del proposto ad una delle categorie di pericolosità di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, anche
indipendentemente dall’esistenza di sentenze di condanna che abbiano accertato la pregressa commissione di reati, a condizione che la valutazione incidentale a tal fine compiuta non sia smentita da esiti assolutori di eventuali procedimenti penali, eccezion fatta per il caso in cui tali esiti siano dipesi dal riconoscimento di cause estintive» (Sez. 1, n. 36080 del 11/09/2020, COGNOME, Rv. 280207 – 01);
«può valorizzare dati conoscitivi non presi in considerazione in alcun procedimento penale, così come quelli valutati in procedimenti penali non definitivi sostenendo, naturalmente, il relativo giudizio con congrua motivazione, anche alla luce delle deduzioni e delle allegazioni eventualmente introdotte dalla difesa» (Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020 – dep. 2021, Rv. 280145 – 01; Sez. 6, n. 36216 del 13/07/2017, COGNOME, Rv. 271372).
Si tratta, con evidenza, di una motivazione per nulla apparente, nel corpo della quale non può attribuirsi rilievo alla menzione dei meri deferimenti del Mati all’Autorità giudiziaria e ai reati contravvenzionali e, comunque, non produttivi di lucro; e che non può essere nel resto qui utilmente censurata denunciando un vizio di motivazione (sub specie dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.), che il ricorso finisce per prospettare, né per il tramite delle generiche allegazioni relative soprattutto al reddito del Mati (profilo con riguardo al quale l’impugnazione non chiarisce in che termini effettivamente la motivazione del decreto impugnato sarebbe apparente rispetto ad allegazioni contenute nell’atto di appello).
Il rimanenti motivi, che possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili. Al di là dell’irrituale prospettazione del vizio di motivazione a fortiori rispetto alle allegazioni di un’altra parte processuale – che, peraltro, in ordine alla qualificazione del ricorrente come persona in atto socialmente pericolosa hanno trovato risposta nella motivazione già compendiata – è dirimente considerare che: non vi era motivo di appello sulla durata della misura e sull’applicazione dell’obbligo soggiorno; e «non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute con la dovuta specificità alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di uffic in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza» (Sez. 5, n. 37875 del 04/07/2019, Bondì, Rv. 277637 – 01, che quanto alla violazione di legge – richiama il disposto dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen.).
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende (art. 616 cod. proc. perì.), atteso che l’evidente inammissibilità delle censure dedotte impone di attribuirgli profili di colpa (cfr. Corte cost., sent. n. 186 del 13/06/2000; Sez. 1, n. 30247 del 26/01/2016, COGNOME, Rv. 267585 – 01).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 18/12/2024.