Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 22896 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 22896 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME nata in Svizzera il 28/07/1959; nel procedimento a carico della medesima; avverso la sentenza del 12/04/2024 della Corte di appello di Brescia; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udite. le conclusioni del Pubblico Ministero, dr. NOME COGNOME che ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso; udite le conclusioni del difensore dell’imputata avv.to NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza di cui in epigrafe, la Corte di appello di Brescia riformava parzialmente la sentenza del tribunale di Brescia del 25.10.2023, impugnata dal Procuratore Generale oltre che dall’imputata, disponendo la confisca di denaro ritenuto profitto dell’evasione dell’IVA, dei beni che costituiscano il profitto o prezzo del reato ovvero, se non possibile, di beni di cui l’imputata abbia la disponibilità per un valore corrispondente al predetto profitto, confermando nel resto la sentenza impugnata.
Avverso la suindicata sentenza COGNOME NOMECOGNOME tramite il difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi GLYPH di impugnazione.
Deduce la violazione degli artt. 187 e 533 cod. proc. pen. in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU, e il difetto di motivazione in ordine al capo a) per gli anni di imposta 2013 e 2014. Sarebbero state innanzitutto violate disposizioni sull’onere della prova, ex artt. 187 e 533 cod. proc. pen., nella parte in cui la corte di appello ha stigmatizzato la mancata dimostrazione da parte dell’imputata di prova contraria. Si aggiunge che la sentenza poggerebbe sulla posizione soggettiva e fiscale di un soggetto estraneo alla imputata, tale COGNOME COGNOME, e su sue presunte irregolarità fiscali. In altri termini, si sarebbero ribaltati sulla imputata elementi indiziari a carico del suo fornitore, nei cui confronti mancherebbe ogni accertamento sulla eventuale “retrocessione” di somme pagate dalla imputata al medesimo. Si sarebbe solo dimostrato il pagamento delle fatture da parte della imputata, con diritto della stessa a detrarre l’IVA.
Si sarebbero disattesi i motivi di gravame con cui si sarebbero illustrati i servizi resi dal fornitore COGNOME, aggiungendosi che le movimentazioni bancarie riguardanti il COGNOME non riguardavano invece la COGNOME. Vi sarebbe, altresì, una motivazione apparente, fondata su una mera asserzione di antieconomicità e impossibilità delle prestazioni apparentemente rese dal COGNOME. Né si spiegherebbe come la COGNOME avrebbe potuto accertare gli inadempimenti tributari e contabili del fornitore.
Il secondo motivo riguarda la disposta confisca, con dedotti vizi di violazione di legge e di motivazione. Vi sarebbe violazione degli artt. 12 bis e 21 ter del Dlgs. 74/2000, in combinato disposto con l’art. 4, settimo protocollo della Cedu e l’art. 50 CDFUE, in tema di ne bis in idem. Sarebbero identiche le contestazioni mosse in sede penale e tributaria alla ricorrente, e alla luce dell’art. 21 ter del Dlgs. 74/2000 si sostiene che il medesimo principio dell’adeguamento della sanzione alla luce di altra precedente analoga sanzione già comminata dovrebbe operare in sede penale, a fronte di già contestate sanzioni da parte della amministrazione Finanziaria.
E a tali fini basterebbe la semplice irrogazione di sanzioni con sentenze passate in giudicato, al di là di ogni corrispondete versamento.
In sede di motivi aggiunti, sarebbe stato poi dedotto un fatto risultato travisato dalla Corte di appello. Si cita una sentenza 2106/2019 della CTR Lombardia riguardante un avviso di accertamento per il 2014, rispetto al quale si contesta l’assunto della Corte di appello per cui essa non riguarderebbe VIVA. Il
travisamento avrebbe portato ad una decisione diversa da quella assunta . Se fosse stato acclarato un giudicato in ordine all’IVA del 2014, si sarebbe dovuta respingere l’impugnazione del procuratore Generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato, in assenza di un completo e puntuale confronto con la complessiva sentenza impugnata. Diversamente da quanto sostenuto in ricorso, per cui la Corte avrebbe semplicemente posto a carico della ricorrente inadempimenti fiscali di un suo fornitore, i giudici d merito, con le due conformi sentenze di primo e secondo grado, hanno evidenziato come le fatture di cui al primo capo di imputazione e all’art. 2 del Dlgs. 74/2000 contestato, nei limiti del periodo di imposta per cui è intervenuta condanna, sono state rilasciate da una società “RAGIONE_SOCIALE“, quale quella del già citato COGNOME, così ricostruita in ragione dell’affidamento della gestione ad un prestanome, della assenza di contabilità, di dichiarazioni fiscali, di dipendenti, e in presenza di movimentazioni bancarie sospette. Circostanze mai peraltro contestate dal COGNOME in alcuna sede, cui la corte di appello aggiunge il rilievo per cui le fatture inerivano lavori di un importo complessivo incompatibile con le attività che il COGNOME avrebbe potuto espletare, siccome provo di dipendenti e risorse strumentali. Elementi indiziari, questi, che concordemente e univocamente riconducono verso la corretta e coerente ricostruzione della azienda del COGNOME in termini di “cartiera”, cui la ricorrente solo oppone il tema dell’onere della prova, che, invero, a fronte di un così coerente quadro accusatorio, che dà dimostrazione di fatture (quelle emesse dalla azienda del COGNOME) inerenti a prestazioni per operazioni inesistenti, è anche esso correttamente considerato dalla corte di appello: la presenza di un chiaro compendio accusatorio, quale quello sintetizzate’, implica che sia l’imputato a dovere opporre, per discolparsi, elementi validi e contrastanti, a partire dalla opposta dimostrazione di prestazioni realmente ricevute e pagate, senza che quindi esista i nel caso di specie,alcuna inversione dell’onere della prova, già assolto, nei termini suddetti, dalla accusa. Coerente è anche il rilievo (pag. 8) per cui alla luce delle fatture e dei lavori ivi attestati si sarebbe dovuto ritene che il COGNOME avrebbe ininterrottamente lavorato, negli anni, personalmente, presso la sede della impresa della ricorrente, con relativa antieconomicità di una tale circostanza, siccome implicante la disponibilità per la COGNOME di un lavoratore parasubordinato, dalla retribuzione mensile di circa 25.000 euro. Senza che,peraltro, in tal modo / il COGNOME avrebbe mai potuto svolgere altre attività, invece emerse da complessive indagini svolte nei suoi confronti dalla guardia di Finanza. Significativa è anche la citazione, in sentenza, di una Corte di Cassazione – copia non ufficiale
decisione della Commissione tributaria, confermativa della suesposta ricostruzione accusatoria.
Quanto alla tesi della avvenuta dimostrazione di effettuati pagamenti da parte della imputata, con assenza di prova della retrocessione di tali somme, la corte ha pure congruamente evidenziato come, nel contesto probatorio di cui sopra, in sostanza non sia necessaria alcuna prova sulla retrocessione di pagamenti, che sarebbe solo, evidentemente, un ulteriore elemento rispetto a quelli a carico già acquisiti,.
Il motivo, per concludere, appare altresì meramente ripetitivo di censure già proposte e validamente confutate.
e,
2. Anche il secondo motivo è inammissibile. Al di là del rilievo esposto dalla Corte, per cui la invocata sentenza della CTR della regione Lombardia del 2019 non farebbe riferimento all’IVA, la censura appare generica per mancanza di specificazione della asserita puntuale corrispondenza tra la sentenza predetta e la attuale contestazione in assenza di una precisa indicazione dei punti motivazionali della sentenza che conforterebbero l’assunto difensivo; va inoltre osservato che emerge una questione giuridica, rispetto alla quale opera il principio per cui il vizio di motivazione non è configurabile riguardo ad argomentazioni giuridiche delle parti. Queste ultime infatti, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte, o sono fondate e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all’art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (cfr. in tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 – 01 NOME). Va quindi anche ribadito, in ordine al motivo proposto, il principio di diritto secondo il quale non sussiste violazione del divieto di “bis in idem” convenzionale nel caso in cui, nei confronti di un soggetto cui sia già stata irrogata una sanzione amministrativa, sia emessa condanna per lo stesso fatto storico, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale tale per cui le sanzioni siano parte di un unico sistema, a condizione che, in tal caso, sia comunque garantito un meccanismo compensativo che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima, onde evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata (Sez. 3, n. 2245 del 15/10/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282799 – 01; nello stesso senso, Sez. 5, n. 31507 del 15/04/2021, COGNOME, Rv. 282038 – 01; Sez. 2, n. 5048 del 09/12/2020, COGNOME, Rv. 280570 – 01; Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, COGNOME, Rv. 275833 Corte di Cassazione – copia non ufficiale
– 04; Sez. 4, n. 12267 del 13/02/2018, COGNOME, Rv. 272533 – 01; Sez. 3, n. 6993 del 22/09/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272588 – 01). Il ne bis in idem non si oppone, alla possibilità che l’imputato sia sottoposto, in esito a un medesimo procedimento, a due o più sanzioni distinte per il medesimo fatto (pene detentive, pecuniarie e interdittive), ferma la diversa garanzia rappresentata dalla proporzionalità della pena, fondata sugli artt. 3 e 27 Cost. e sull’art. 49, par. 3, CDFUE.
Nulla di tutto questo risulta essere stato dedotto nel caso di specie, con conseguente genericità del motivo, posto che la ricorrente in ricorso non ha lamentato l’assenza di connessione sostanziale e temporale tra i due procedimenti (quello amministrativo e quello penale), Ciò che si lamenta è il mero fatto storico della convergenza sulla medesima violazione della sanzione amministrativa e di quella penale, circostanza – di per sé – tutt’altro che illegittima ed anzi oggi positivamente prevista e regolata dal legislatore nazionale (art. 21-ter d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. m, n. 4 d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87 e di recente art. 124 del Dlgs. 175/2024 secondo cui “1. Quando, per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del soggetto, una sanzione penale ovvero una sanzione amministrativa o una sanzione amministrativa dipendente da reato, il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, tiene conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva”). A tale ultimo riguardo deve ritenersi altresì del tutto astratto e carente il motivo, in rapporto al rilievo, di cu sentenza, per cui, nel quadro della disciplina del nuovo art. 21 ter del Dlgs. 74/2000 (in tema di compensazione tra sanzioni penali e amministrative e /deve ritenersi / del su citato art. 124 ad esso successivo) mancherebbe la possibilità di riduzione del trattamento sanzionatorio quanto alle imposte dirette, in ragione della minima entità del trattamento penale complessivo intervenuto, tale da non implicare un adeguamento della pena, rispetto ad altre sanzioni tributarie. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Infine il motivo appare anche poco pertinente quanto alla confisca stessa, posto che mentre l’evocato principio di cui al brocardo ne bis in idem attiene al tema, in sintesi, della non ripetibilità della pena applicata rispetto ad un illecito in ragione dello stesso, la confisca in parola pertiene al più particolare e distinto argomento del ripristino dell’ordine economico violato.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il
ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione d causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la som
determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa d
Ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento de spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa de
Ammende
Così deciso, il 15.04.2025