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Soccorso in mare reato: la giurisdizione italiana

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12619/2019, ha stabilito la sussistenza della giurisdizione italiana per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina anche quando il trasporto avviene in acque internazionali. Nel caso di specie, l’imputato, skipper di un gommone, è stato condannato poiché il successivo soccorso in mare non interrompe il nesso causale, ma è considerato un evento previsto e voluto dall’organizzazione criminale per completare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato. Questo configura un’ipotesi di soccorso in mare reato, dove i soccorritori diventano, inconsapevolmente, strumenti dell’azione delittuosa.

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Pubblicato il 8 agosto 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Soccorso in mare reato: La Cassazione sulla giurisdizione italiana

Il tema del soccorso in mare reato è al centro di un complesso dibattito giuridico, specialmente quando si tratta di definire i confini della giurisdizione nazionale per reati che iniziano in acque internazionali ma si concludono sulle coste italiane. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12619 del 2019, offre un’analisi cruciale, stabilendo che l’intervento di soccorso, se previsto e strumentalizzato dall’organizzazione criminale, non esclude ma, al contrario, fonda la competenza dei tribunali italiani.

I fatti del caso: dal gommone alla condanna

Il caso riguarda un imputato condannato in primo e secondo grado per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Insieme a un complice, aveva condotto un gommone con a bordo 140 migranti dalle coste libiche. L’imbarcazione, in precarie condizioni, era stata soccorsa in acque internazionali da una nave militare tedesca, e i migranti erano stati successivamente trasferiti su una motonave della Guardia di Finanza e sbarcati in un porto siciliano. L’imputato, identificato da alcuni migranti come uno degli scafisti, ha presentato ricorso in Cassazione, sollevando diverse questioni, tra cui la presunta incompetenza territoriale dei giudici italiani.

La questione della giurisdizione e il soccorso in mare reato

Il punto centrale del ricorso verteva sull’assenza di giurisdizione italiana, poiché il reato si sarebbe consumato interamente in acque internazionali, al di fuori del limite delle 12 miglia. La difesa sosteneva inoltre che l’intervento della nave di soccorso costituisse un evento autonomo, tale da interrompere qualsiasi nesso di causalità tra la condotta dello scafista e l’effettivo ingresso dei migranti in Italia. Infine, l’imputato invocava lo stato di necessità, asserendo di essere stato costretto a guidare il natante.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, smontando punto per punto le argomentazioni difensive.

Sulla giurisdizione: I giudici hanno chiarito che il traffico di migranti è un’attività criminale complessa e pianificata. L’abbandono di persone su imbarcazioni inadeguate in mare aperto non è un atto fine a sé stesso, ma una strategia deliberata per provocare un intervento di soccorso. Questo intervento, obbligatorio per le convenzioni internazionali (come quella di Montego Bay), diventa parte integrante del piano criminale. Di conseguenza, non interrompe il nesso causale, ma ne rappresenta l’ultimo anello, voluto e previsto per garantire lo sbarco dei migranti in territorio europeo. La Corte ha applicato la figura dell’autore mediato (art. 48 c.p.), in cui i soccorritori, agendo in stato di necessità, diventano lo strumento (inconsapevole) attraverso cui i trafficanti portano a termine il loro disegno criminoso. Poiché l’azione si conclude con l’ingresso nel territorio italiano, la giurisdizione del nostro Paese è pienamente fondata (art. 6 c.p.).

Sullo stato di necessità: La Corte ha respinto questa difesa, sottolineando che l’imputato ha l’onere di fornire prove concrete della coercizione subita. Allegazioni generiche non sono sufficienti, specialmente a fronte di testimonianze che lo identificavano con un ruolo attivo e consapevole nell’operazione.

Sulle attenuanti generiche: Anche la richiesta di un trattamento sanzionatorio più mite è stata respinta. La Corte ha ritenuto che la gravità della condotta, inserita in un contesto di criminalità transnazionale che mette a rischio la vita di numerose persone, giustificasse pienamente la pena inflitta e il diniego delle attenuanti.

Le conclusioni

La sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale di fondamentale importanza. Afferma un principio chiaro: la catena criminale del traffico di esseri umani non si spezza con il salvataggio in mare. Anzi, il soccorso viene assorbito nella logica del reato, diventandone un tassello essenziale e pianificato. Questo approccio estende la portata della legge penale italiana, permettendo di perseguire i responsabili di queste traversate anche quando la loro condotta materiale si svolge prevalentemente al di fuori delle acque territoriali. La decisione rafforza gli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata transnazionale, riconoscendo che l’obiettivo finale dell’azione – l’ingresso illegale – è ciò che determina la competenza a giudicare.

L’Italia ha giurisdizione per un reato di favoreggiamento dell’immigrazione commesso in acque internazionali?
Sì. Secondo la Corte, se il piano criminale prevede di abbandonare i migranti su un’imbarcazione insicura per provocare un’operazione di soccorso che si concluda con lo sbarco in Italia, l’intera condotta è riconducibile al reato di ingresso illegale e la giurisdizione italiana è fondata.

Il soccorso prestato da una nave in mare può essere considerato un evento che interrompe il nesso di causa del reato?
No. La sentenza stabilisce che il soccorso non è un evento imprevedibile che interrompe la causalità, ma una circostanza prevista, voluta e addirittura provocata dall’organizzazione criminale. È parte integrante del piano delittuoso e non ne esclude la punibilità.

Uno scafista può invocare lo ‘stato di necessità’ sostenendo di essere stato costretto a guidare l’imbarcazione?
Può invocarlo, ma spetta a lui fornire prove specifiche e concrete della coercizione. In questo caso, la Corte ha ritenuto la difesa inammissibile perché basata su affermazioni generiche e smentita dalle prove che indicavano un ruolo attivo e consapevole dell’imputato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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