Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 13586 Anno 2025
REPUBBLICA ITALIANA Relatore: COGNOME
In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Penale Sent. Sez. 2 Num. 13586 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/03/2025
SECONDA SEZIONE PENALE
Sent. n. 591/2025 sez. PU -26/03/2025 R.G.N. 41735/2024
Composta da:
NOME COGNOME – Presidente – NOME COGNOME Relatore – NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME COGNOME nato a Pozzuoli il 23/04/1958 COGNOME NOME nata a Acqui Terme il 13/06/1959 DI COGNOME nato a Napoli il 27/10/1978 COGNOME NOME nato a Napoli il 22/12/1957 COGNOME NOME nato a Parma il 31/03/1951 COGNOME nata a Napoli il 02/08/1987 PORTO TURISTICO INTERNAZIONALE DI RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, nella qualità di responsabile ex l.n. 213 del 2001, nonché di responsabile civile
avverso la sentenza del 04/06/2024 della CORTE di APPELLO di GENOVA
Esaminati gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto, riportandosi alla requisitoria in atti, per COGNOME NOME annullamento senza rinvio con riguardo al capo 8); rigetto per il resto. Per COGNOME NOME: annullamento con rinvio limitatamente alle statuizioni sulla confisca; inammissibilità per il resto. Per COGNOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, inammissibilità. Per D all’ COGNOME NOME: rigetto del ricorso. Per RAGIONE_SOCIALE(quale responsabile ex l.n. 231/2001): rigetto; Per RAGIONE_SOCIALE (quale responsabile civile): annullamento senza rinvio. sentito il difensore della parte civile Regione Liguria, Avv. NOME COGNOME del foro di Genova, che ha concluso chiedendo la conferma delle statuizioni civili a carico
di COGNOME Pasquale, COGNOME, COGNOME, COGNOME NOME oltre la rifusione delle spese di costituzione e difesa in giudizio come da nota allegata; sentiti i difensori: Avv. NOME COGNOME del foro di Milano, in sostituzione anche dell’Avv. NOME COGNOME del foro di Milano per il COGNOME , il quale si riporta ai motivi e alla memoria, chiedendone l’accoglimento; Avv. NOME COGNOME del foro di Milano per la COGNOME, il quale si riporta ai motivi chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e deposita documentazione; Avv. NOME COGNOME del foro di Napoli e Avv. NOME COGNOME del foro di Genova per Lembo, i quali si riportano ai motivi, chiedendo l’annullamento con o sen za rinvio della sentenza impugnata; Avv. NOME COGNOME del foro di Milano per la Scarpino, Avv. NOME COGNOME del foro di Napoli per Capuano, Avv. NOME COGNOME del foro di Campobasso per Di Fraia, Avv. NOME COGNOME del foro di Roma per Capuano Pasquale, i quali tutti si riportano ai motivi chiedendone l’accoglimento; l’Avv. NOME COGNOME del foro di Genova , anche in sostituzione dell’Avv. NOMECOGNOME NOME COGNOME del foro di Milano, per la RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, nella duplice qualità il quale si riporta ai motivi di entrambi i ricorsi, chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 04/06/2024 la Corte d’Appello di Genova, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Tribunale di Genova in data 12/10/2022, appellata anche dagli imputati COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Roberto, Scarpino Marina e dalla Porto Carlo Riva RAGIONE_SOCIALE, nella duplice veste di responsabile di illecito derivante da reato e di responsabile civile, nonché dal Pubblico Ministero nei confronti di COGNOME Andrea, COGNOME Marina e COGNOME NOME, ha così provveduto:
nei confronti di COGNOME PasqualeCOGNOME ha dichiarato non doversi procedere in relazione ai reati di cui sub 5.1 (riqualificato, con la sentenza di primo grado, nella fattispecie di cui all’art. 256 , comma 3, d. lgs. 152/2006) e sub 6, qualificato il fatto ai sensi dell’art. 256 , comma 2, d. lgs. 152/2006, per essere gli stessi estinti per intervenuta prescrizione e ha ridotto la pena inflitta ad anni sette di reclusione ed euro 13.000 di multa, con riferimento ai reati di cui ai capi 2, 4, 8, 10, 13 e 15;
nei confronti di COGNOME ha dichiarato non doversi procedere in relazione ai reati di cui sub 5.1 e sub 6, come riqualificati, perché estinti per prescrizione e, ritenute le già concesse attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, ha determinato la pena inflitta in mesi otto di reclusione, con riferimento al reato di cui al capo 2;
ha assolto NOME dai reati ascritti sub 2 e sub 10 per non aver commesso il fatto e, in relazione ai reati ascritti sub 13 (riqualificato ai sensi dell’art. 648bis cod. pen.) e sub 15, ha determinato la pena in anni uno, mesi sei, giorni venti di reclusione ed euro 3.533,00 di multa;
nei confronti di Scarpino Marina, ha dichiarato non doversi procedere in relazione ai reati sub 5.1 e sub 6 perché prescritti e, concesse le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, ha ridotto la pena inflitta ad anni due e mesi quattro di reclusione, con riferimento ai reati di cui ai capi 2 e 10;
nei confronti di COGNOME COGNOME ha dichiarato non doversi procedere in relazione al reato sub 5.1 per prescrizione e ha determinato la pena inflitta in anni uno, mesi uno, giorni dieci di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche prevalenti, con riferimento al capo 2;
ha dichiarato COGNOME NOME responsab ile dei reati di cui ai capi 3.1, 3.2, 3.3, già riqualificati ai sensi dell’art. 256 , comma 1, lett. b, d. lgs. 152/2006 con la sentenza di primo grado, e con la stessa ritenuti assorbiti nel reato sub 2, nonché dei reati sub 5.1 (riqualificato, con la sentenza di primo grado, nella fattispecie di cui all’art. 256 , comma 3, d. lgs. 152/2006) e sub 6, qualificato il fatto ai sensi dell’art. 256 , comma 2, d. lgs. 152/2006, e ha dichiarato non doversi procedere in relazione a tali reati per essere gli stessi estinti per intervenuta prescrizione; ha, inoltre, assolto l’imputato dal reato lui ascritto al capo 2) perché il fatto non costituisce reato;
nei confronti della RAGIONE_SOCIALE ha ridotto ad euro 64.500,00 la sanzione pecuniaria per gli illeciti amministrativi, nonché ad euro 690.000,00 la disposta confisca;
ha condannato in solido COGNOME Andrea, Scarpino Marina, COGNOME NOME e COGNOME a risarcire il danno cagionato alla Regione Liguria dal reato di cui al capo 6), qualificato il fatto ai sensi dell’art. 256 , comma 2, d. lgs. 152/2006.
ha confermato nel resto la sentenza impugnata (in particolare, la condanna di COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME e delle società responsabili civili al risarcimento del danno provocato a COGNOME NOME in relazione al capo 10; la condanna di COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME al risarcimento del danno provocato a COGNOME NOME e COGNOME NOME).
2. La vicenda processuale si incentra sulla contestazione di attività illecite di gestione e smaltimento di rifiuti aventi ad oggetto i relitti delle barche che, la notte del 30 ottobre 2018, a causa di una violenta mareggiata, naufragarono all’interno del l’area portuale di Rapallo in gestione alla società RAGIONE_SOCIALE o, spinte dalla risacca, si abbatterono sugli scogli, rovesciandosi sul lungomare. La Capitaneria del porto di Genova aveva emesso
dei provvedimenti di diffida a carico degli armatori e dello stesso Porto Internazionale di Rapallo, ingiungendo la rimozione dei relitti a causa del rischio di un danno ambientale e dell’inquinamento delle acque marine. A seguito delle diffide, gli armatori proprietari dei relitti avevano conferito mandati scritti alla società RAGIONE_SOCIALE con i quali avevano manifestato la volontà di demolire i relitti, affidandone la gestione alla stessa mandataria, nel rispetto della normativa vigente. La direttrice dell’aziend a, COGNOME Marina, aveva incaricato per le attività di trasporto e smaltimento la società RAGIONE_SOCIALE dell’imputato COGNOME Pasquale, senza tuttavia formalizzare l’incarico in un contratto , nella consapevolezza dell’ inesistenza dei presupposti di legge in capo a British per poter operare. Dai verbali di sopralluogo della Polizia Giudiziaria era altresì emerso che COGNOME Pasquale, anziché smaltire i relitti secondo la normativa vigente in materia di rifiuti, li aveva trasportati senza formulari su camion diretti a siti di discarica non autorizzati per il deposito di rifiuti speciali, in Massa e Marina di Carrara, ove i relitti erano stati accatastati e parzialmente demoliti al fine di recuperare pezzi da rivendere sul mercato dell’usato .
La responsabilità per il reato ambientale di cui al capo 2 è stata affermata anche nei confronti di COGNOME NOME (esecutore materiale delle opere di recupero, trasporto e smaltimento dei rifiuti per conto della British) e di COGNOME NOME (gestore delle attività in sostituzione del Capuano); nei confronti di COGNOME NOME (presidente del consiglio di amministrazione della RAGIONE_SOCIALE all’epoca dei fatti) , nonostante l’assoluzione per il reato sub 2, a lui pure ascritto, in accoglimento dell’appello del P.M., è stata dichiarata la responsabilità per i reati di cui all’art. 256, comma 1 , 2 e 3, d. lgs. 152/2006 (capi 3.1, 3.2, 3.3, 5.1, 6), con dichiarazione di estinzione per prescrizione e condanna al risarcimento dei danni in favore della Regione Liguria.
Nell’ambito di tale vicenda si inseriscono gli ulteriori reati contestati: la truffa sub 10, per la quale hanno riportato condanna COGNOME Pasquale e COGNOME, ritenuti responsabili di avere ottenuto dagli armatori i mandati di smaltimento con artifici e raggiri, con profitto per entrambi; la minaccia aggravata dal metodo mafioso sub 4, rivolta da COGNOME Pasquale a Lembo; lo sfruttamento del lavoro di cittadini extracomunitari (art. 603bis cod. pen.) per il trattamento abusivo di dei rifiuti speciali, attribuito al COGNOME (capo 8); il delitto di cui all’art. 648ter.1 cod. pen. per avere COGNOME NOME e COGNOME NOME trasferito denaro dal conto corrente della British Shipways su conti e carte prepagate intestati a quest’ultima nonché effettuato fittizie operazioni di denaro (capo 13); l’interposizione fittizia ex art. 512 -bis cod. pen. in relazione all’attribuzione a COGNOME NOME di una quota societaria detenuta da COGNOME NOME nella società RAGIONE_SOCIALE (capo 15).
Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso i suddetti imputati e la RAGIONE_SOCIALE nelle more RAGIONE_SOCIALE in liquidazione (nella duplice qualità di responsabile civile e a titolo di ente per la responsabilità amministrativa), tramite i rispettivi difensori di fiducia e procuratori speciali.
3.1. Nell’interesse di COGNOME Pasquale sono stati articolati cinque motivi di ricorso.
Con il primo motivo si denuncia violazione di legge in relazione alla qualificazione del relitto di una barca quale rifiuto, per avere i giudici di merito attribuito tale definizione sulla base della mera volontà dismissiva degli armatori.
In particolare, la Corte territoriale avrebbe tralasciato di considerare che le imbarcazioni sono beni mobili registrati e che, al fine della loro qualificazione quali rifiuti, era necessaria la cancellazione dai pubblici registri navali; inoltre, in assenza di un codice C.E.R., nessun rifiuto poteva essere trasportato, tanto meno dalle aziende specializzate nel settore.
Con il secondo motivo si eccepisce violazione di legge in relazione all’art. 416 -bis .1 cod. pen., avendo i giudici di merito ritenuto sussistente l’aggravante del metodo mafioso per il reato di minaccia cui al capo 4, in ragione del solo richiamo, nelle modalità di esecuzione della condotta, alla forza intimidatrice espressa dalle organizzazioni criminali, senza considerare che la persona offesa conosceva da oltre venti anni il ricorrente ed era ben consapevole della mancanza di qualsiasi collegamento di quest’ultimo con gli ambienti della criminalità organizzata. Tale circostanza, unitamente alla mancata percezione di una effettiva minaccia da parte della vittima, non avrebbe consentito di ritenere configurabile l’aggravante in contestazione.
Con il terzo motivo si censura vizio di manifesta illogicità della motivazione e travisamento della prova in relazione al reato previsto dall’art. 603 -bis cod. pen. di cui al capo 8) della rubrica, avendo i giudici di merito ritenuto integrata la fattispecie de qua , sebbene i lavoratori irregolari non siano mai stati reperiti, né sentiti nel corso del dibattimento, e nessun riscontro oggettivo sia stato fornito in merito alla violazione degli indici previsti dal comma 3 dell’articolo in contestazione. In particolare, secondo la difesa, in mancanza di una certa individuazione di tali lavoratori, non può ritenersi sussistente la condizione di sfruttamento della manodopera, essendo ben possibile che la richiesta di non regolarizzare il rapporto provenisse dallo stesso lavoratore.
Con il quarto motivo si denuncia vizio di manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza dell’evento di danno nel reato di truffa di cui al capo 10 della rubrica. I giudici di merito avrebbero individuato tale requisito nella permanenza in capo agli armatori degli obblighi di smaltimento dei relitti, con i
relativi costi, omettendo, tuttavia, di considerare che gli obblighi in questione derivavano da l diritto all’indennizzo ottenuto dagli armatori stessi d alle compagnie assicurative, sulla base delle certificazioni rilasciate dal ricorrente.
Con il quinto motivo si denuncia erronea applicazione della legge penale in relazione alla insussistenza dell’elemento soggettivo dei reati di cui agli artt. 648 -ter .1 e 512bis cod. pen. I giudici di merito avrebbero erroneamente considerato quale vantaggio patrimoniale del delitto di autoriciclaggio la somma di denaro percepita dal COGNOME a titolo di corrispettivo per l’esecuzione dei lavori di smaltimento delle barche, che gli erano stati commissionati con regolare contratto, avente oggetto lecito.
C on riferimento al delitto di cui all’art. 512 -bis cod. pen., la corte territoriale aveva considerato illecitamente percepiti i proventi dell’attività svolta dal Capuano, in quanto conseguiti attraverso la commissione di un reato, sull’erroneo presupposto della qualificazione quali rifiuti di quelli che erano meri relitti, e che, come tali, erano sempre stati considerati dall’odierno ricorrente.
3.2. Nell’interesse di COGNOME NOME sono stati articolati cinque motivi di ricorso.
Con il primo motivo si denuncia erronea applicazione della legge penale e vizio di manifesta illogicità della motivazione, con riferimento all’interpretazione dell’art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 (erroneamente indicato in ricorso art. 183 cod. pen.) ed alla qualificazione come ‘rifiuti’ delle imbarcazioni colpite dalla mareggiata del 30 ottobre 2018. A parere della difesa, poco convincente risulterebbe la motivazione con cui la Corte di appello ha aderito alla tesi del giudice di primo grado, in base alla quale i relitti delle barche avevano acquisito la qualifica di rifiuti solo con la manifestazione della volontà degli armatori di disfarsene, accompagnata alla loro oggettiva destinazione verso i siti ove erano stati trasportati e depositati per lo smaltimento. Invero, la Corte di merito avrebbe omesso di attribuire la giusta rilevanza sia all’assenza di una normativa specifica in materia di relitti sia all’assoluta eccezionalità dell’evento che aveva colpito la città di Rapallo nella notte tra il 29 ed il 30 ottobre 2018, fattori che avrebbero reso la vicenda in esame un unicum non assimilabile ad alcuna altra precedente vicenda in tema di relitti e di qualificazione giuridica degli stessi come ‘rifiuti’. La Corte di appello avrebbe sottovalutato altresì la circostanza che le imbarcazioni sono beni mobili registrati, in quanto tali sottoposte a regole rigide e precise, anche con riferimento alla perdita di destinazione d’uso ed alla conseguente cancellazione dai pubblici registri. In particolare, lacunosa e contraddittoria risulterebbe l’argomentazione secondo cui gli adempimenti amministrativi, conseguenti alla scelta dell’armatore di destinare il relitto alla demolizione, non costituiscono presupposti necessari ed indispensabili per la qualificazione dello stesso come
rifiuto, ma avrebbero la mera finalità di accertare l’insussistenza di diritti di terzi creditori sul bene: la contraddizione risiederebbe nella circostanza che, se la Capitaneria di Porto è tenuta, prima di disporre la cancellazione del natante dai pubblici registri, a verificare l’eventuale esistenza di diritti di terzi creditori sul bene, non sarebbe possibile che quello stesso bene acquisti la qualifica di rifiuto prima della cancellazione, in base alla esclusiva valutazione de ll’armatore , senza il coin volgimento del terzo creditore. Inoltre, l’eccezionalità dell’evento occorso e l’immane sforzo profuso da coloro che operavano all’interno del porto avrebbero dovuto indurre la Corte di appello ad una valutazione più prudente delle condotte di trasporto e collocazione dei relitti in altri lidi, che tenesse conto anche dell’assenza di alcun reale pericolo ambientale connesso ad ipotetici sversamenti a terra di carburanti o altri liquidi pericolosi, posto che questi ultimi risultavano essere già interamente defluiti in mare, dove le imbarcazioni affondate erano rimaste per alcuni mesi prima di essere recuperate.
Con il secondo motivo di ricorso viene contestata l’illogicità della motivazione con cui la Corte territoriale ha rigettato la richiesta di parziale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, che la difesa aveva avanzato al fine di disporre una perizia sul tema della qualificazione dei relitti come rifiuti e del momento a partire dal quale essi potevano considerarsi tali. In particolare, si rileva come la Corte territoriale si sia limitata a sottolineare che nella sentenza di primo grado vi era una articolata motivazione in ordine agli elementi riferiti dai consulenti di parte, potendosi così considerare raggiunta la completezza del quadro istruttorio. Errata sarebbe, inoltre, l’argomentazione della Corte in base alla quale alla parziale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale osterebbe il divieto di conferire incarichi peritali per la qualificazione giuridica dei fatti, posto che la richiesta di perizia in questione avrebbe avuto ad oggetto le caratteristiche tecniche di un relitto e lo stato di ciascuna delle imbarcazioni affondate nel porto turistico Carlo Riva.
Con il terzo motivo si denuncia il vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione all’attribuibilità al ricorrente della condotta integrante il reato di cui al capo 2) della rubrica. La Corte di merito avrebbe errato nel ritenere l’imputato promotore e partecipe dell’accordo illecito relativo all’affidamento delle attività di trasporto e smaltimento alla società RAGIONE_SOCIALE poiché non avrebbe tenuto conto di una serie di elementi, già dettagliatamente indicati nell’atto di appello, dai qua li sarebbe stato possibile desumere il ruolo del tutto marginale rivestito dal RAGIONE_SOCIALE nella genesi e nella gestione dei rapporti tra la RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE. Viene altresì contestata la affermata consapevolezza, attribuita dai giudici di seconde cure al ricorrente, del fatto che la British non fosse in possesso delle certificazioni necessarie per svolgere le attività
di trasporto dei relitti per le quali aveva concluso un accordo con la Carlo Riva. In proposito, la difesa rileva come la Corte di merito abbia omesso di considerare i molteplici elementi che erano stati evidenziati nell’atto di appello per dimostrare l’assenza di qualsiasi consapevolezza circa la carenza di autorizzazioni ambientali ed in materia di rifiuti da parte della British Shipways, con la conseguenza che la motivazione dell’impugnata sentenza risulterebbe, sul punto, mancante e lacunosa nonché in a perto contrasto con le risultanze dell’istruttoria dibattimentale.
Con il quarto motivo si censura la violazione di legge in relazione all’art. 5 cod. pen., nell’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 364/1988, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del la norma «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile». Dopo aver brevemente ripercorso i criteri tracciati dalla Consulta per l’applicabilità della scriminante dell’ignoranza inevitabile della legge penale, la difesa rileva come gli stessi siano tutti ravvisabili in relazione alla posizione dell’imputato COGNOME: in primo luogo, nel caso di specie sussisterebbe il requisito della specificità della normativa da applicare e della non univocità interpretativa della stessa, essendo incontestabile che la materia dei reati ambientali – e, in seno alla stessa, lo specifico settore dei relitti di imbarcazioni sia altamente tecnica e specializzata, connotata da una profusione di norme di fonti diverse e non sempre coerenti tra loro, e caratterizzata altresì da una giurisprudenza estremamente scarna; in secondo luogo, rileverebbe nel caso in esame anche il secondo criterio individuato dalla Corte costituzionale, ovvero quello della distinzione tra cittadino comune e soggetto qualificato, essendo indubbio che l’imputato COGNOME sia privo di specifiche competenze tecniche nel settore ambientale e nella gestione dei rifiuti, non potendo dunque essere da lui preteso un grado di diligenza pari a quello esigibile da un professionista del settore; in terzo luogo, ricorrerebbe anche l’ultimo elemento preso in considerazione dal Giudice delle Leggi, costituito dalla possibilità di ravvisare un’ignoranza scusabile nel caso in cui l’agente abbia ricevuto informazioni errate da parte di soggetti professionalmente operanti nella materia oggetto della normativa ignorata, purché sussistano elementi sintomatici della buona fede di colui che invochi la scriminante de qua . In relazione a tale ultimo aspetto, la difesa sottolinea che dall’istruttoria dibattimentale sarebbero emersi plurimi elementi da cui desumere la piena buona fede dell’imputato, specie con riferimento alla questione della qualificazione giuridica delle imbarcazioni danneggiate, e che, pertanto, la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere non sussistenti le condizioni per ravvisare un caso di ignoranza inevitabile -e perciò scusabile -della legge penale.
Con il quinto motivo di ricorso la difesa contesta il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza, in capo al ricorrente, dell’elemento soggettivo dei reati a lui contestati, e, in particolare, del reato ambientale di cui al capo 2), anche in considerazione dell’ignoranza inevitabile ed incolpevole della legge penale secondo quanto stabilito dall’art. 5 cod. pen. , per come interpretato dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale. In relazione a tale aspetto, la difesa rileva come la Corte di appello non abbia tenuto conto dei numerosi elementi di fatto che avrebbero dimostrato la buona fede dell’imputato. In primo luogo, si sottolinea come il mancato intervento di Carabinieri, Capitaneria di Porto ed ogni altra autorità, per tutto il periodo in cui le imbarcazioni affondate furono recuperate dai fondali, caricate sui mezzi e trasportate in altri lidi, non possa essere giudicato un elemento indifferente per chi, come l’imputato -estraneo all’ organico della British Shipways e privo di competenza tecnica specifica in materia ambientale – non poteva che trarre dall’inerzia della Pubblica Amministrazione una conferma della piena regolarità e legittimità dell’operato della British. In secondo luogo, la Corte di appello avrebbe valutato in modo superficiale il dato relativo alla mancanza di profitto in capo al ricorrente, limitandosi a sottolineare che il reato contestato può essere commesso anche da un concorrente che non abbia personalmente percepito alcun compenso, purché egli sia con sapevole dell’ingiusto profitto conseguito dagli altri correi. Sul punto la difesa, pur condividendo il principio affermato dalla Corte di merito , evidenzia che la posizione di chi, nell’ambito della compagine criminale, non abbia conseguito profitti di alcun tipo, dovrebbe essere oggetto di un vaglio più attento e rigoroso, non essendo verosimile che un professionista conosciuto e stimato presti la propria opera in modo rilevante e continuativo senza mai chiedere né percepire alcun compenso. Da ultimo, la Corte di a ppello non avrebbe attribuito il giusto rilievo al fatto che l’imputato, sia in sede di esame dibattimentale che nelle due dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari, abbia sempre riferito di aver mantenuto un ruolo di collaboratore esterno, e mai di vero e proprio dipendente, della RAGIONE_SOCIALE, di essersi dedicato principalmente alla commessa acquisita dalla società per la progettazione e realizzazione di uno yacht di lusso destinato ad un principe del Qatar, e di aver aiutato COGNOME in relazione all’attività da lui svolta a Rapallo, solo occasionalmente e a titolo di favore personale. L’insieme di tali elementi avrebbe dovuto determinare una diversa valutazione in merito alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato.
Con memoria di replica del 20 marzo 2025 il difensore del COGNOME ha insistito, in particolare, nel quarto e quinto motivo di ricorso, ribadendo l’erronea applicazione da parte della Corte di appello di Genova dell’art. 5 c od. pen., così come interpretato dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale.
3.3. Nell’interesse di RAGIONE_SOCIALE è stato articolato un unico motivo con il quale si denuncia violazione di legge, in relazione agli artt. 576 e 578 cod. proc. pen., per avere la Corte di appello erroneamente condannato l’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile Regione Liguria con riferimento al capo 6) dell’imputazione.
Sul punto, occorre premettere che il giudice di prime cure aveva pronunciato, nei confronti del ricorrente, sentenza di assoluzione in relazione a tutti i capi a lui contestati. Avverso la pronuncia assolutoria aveva proposto appello il Pubblico Ministero, chiedendo alla Corte di merito di dichiarare la penale responsabilità di Dall’Asta per i reat i di cui ai capi 2 dell’imputazione – e per quelli ritenuti in esso assorbiti, ossia i capi 3.1, 3.2, 3.3 -5.1, 6. Oltre che dal Pubblico Ministero, la sentenza di primo grado era stata impugnata, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., anche dalla parte civile Regione Liguria, che aveva chiesto la concessione di una provvisionale immediatamente esecutiva nei confronti degli imputati condannati al risarcimento del danno . All’esito del giudizio di appello, la Corte territoriale, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato l’imputato COGNOME responsabile dei reati contravvenzionali di cui ai capi 3.1, 3.2 e 3.3, già ritenuti assorbiti nel reato di cui sub 2, nonché di cui ai capi 5.1 e 6. Tuttavia, in relazione a tali reati, aveva contestualmente dichiarato non doversi procedere per essere gli stessi estinti per intervenuta prescrizione, mentre, relativamente al reato di cui al capo 2, aveva assolto l’imputato perché il fatto non costituisce reato.
Di conseguenza, la Corte di appello aveva condannato il COGNOME, in solido con gli altri coimputati, a risarcire alla parte civile Regione Liguria il danno cagionato dal reato di cui al capo 6 (art. 256, comma 3, d. lgs. 152/2006).
Tanto premesso, la difesa sostiene che la Corte di appello, condannando l’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile, abbia violato l’art. 578 cod. proc. pen. in quanto tale norma, nel prevedere che il giudice dell’impugnazione possa decidere ai soli effetti civili anche laddove dichiar i il reato estinto per prescrizione, presuppone necessariamente che vi sia stata una precedente sentenza di condanna e, dunque, un previo accertamento della responsabilità penale dell’imputato; presupposto, quest’ultimo, che sarebbe mancato nel caso di specie, essendo stato l’imputato assolto in primo grado da tutti i reati a lui ascritti, e non essendovi stato alcun accertamento di responsabilità, né penale né civile. La difesa rileva, inoltre, come la pronuncia di secondo grado si ponga in contrasto anche con il disposto dell’art. 57 6 cod. proc. pen., il quale, pur prescindendo da una previa sentenza di condanna e pur ammettendo che il giudice d’appello, nel dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione, possa comunque decidere ai soli effetti civili, richiede, come
presupposto imprescindibile, che vi sia stata l’impugnazione della sentenza ad opera della parte civile.
Con memoria di replica alle conclusioni della Procura Generale del 20 marzo 2025 , i difensori del COGNOME hanno insistito nella richiesta di annullamento della sentenza impugnata, con specifico riferimento alla condanna alle statuizioni civili relativa al capo 6) di imputazione, ribadendo la mancata impugnazione della decisione di appello da parte della Regione Liguria nei confronti del ricorrente, assolto in primo grado, e, comunque, il mancato accertamento di responsabilità penale, attesa la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.
3.4. Nell’interesse di COGNOME è stato articolato un unico motivo di ricorso con il quale si lamenta vizio di mancanza e illogicità della motivazione, con travisamento delle prove, in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen. (capo 2), per avere i giudici di merito desunto la consapevolezza dell’imputato in merito all’illiceità dell’attività di trasporto dei rifiuti da elementi poco significativi e, in particolare, dalle circostanze per cui l’odierno ricorrente aveva ricevuto dal Capuano precise disposizioni sulle lavorazioni da eseguire sui relitti navali, era stato videoregistrato mentre era intento al lavoro presso i siti di Massa e Marina di Carrara e aveva condotto un mezzo trasportante abusivamente rifiuti. A parere della difesa, la Corte territoriale, non confrontandosi adeguatamente con le deduzioni difensive avanzate in ordine all’insussistenza del dolo specifico richiesto dalla fattispecie incriminatrice, avrebbe omesso di considerare che il ricorrente non aveva mai beneficiato degli introiti derivanti dalla vendita dei materiali di recupero ricavati dai relitti delle navi, né aveva mai agevolato la cessione dei rifiuti a titolo oneroso da parte del suo datore di lavoro, limitandosi ad eseguire ordini e istruzioni ricevuti.
3.5 Nell’interesse di Scarpino Marina sono articolati due motivi di ricorso.
Con il primo motivo si denuncia inosservanza o erronea applicazione della legge penale e vizio di manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla sussistenza del reato previsto dall’art. 452 -quaterdecies cod. pen., di cui al capo 2) della rubrica, e all’interpretazione dell’art. 183 , comma 1, lett. a), d. lgs. 152/2006 sulla definizione di rifiuto. A parere della difesa, i giudici di merito, pur muovendo dalla corretta premessa secondo cui ai fini della qualificazione dei relitti delle barche quali rifiuti è necessaria la manifestazione della volontà degli armatori di disfarsene, accompagnata alla loro oggettiva destinazione verso i siti di smaltimento, avrebbero errato nel ritenere che gli adempimenti amministrativi, che conseguono alla scelta dell’armatore di destinare l’imbarcazione alla demolizione, non costituiscano elementi presupposti, necessari e indispensabili, per la qualificazione come rifiuto del relitto di una barca, ma abbiano la mera finalità di accertare l’insussistenza di diritti di terzi creditori sul bene. Le
imbarcazioni sono, infatti, beni mobili registrati, soggetti ad un regime pubblicistico diretto a regolare la circolazione giuridica dei relativi diritti e a garantirne l’opponibilità a tutela dei terzi. Tale pubblicità permea le vicende giuridiche concernenti le imbarcazioni registrate dalla fase genetica a quella demolitoria, con la conseguenza che la demolizione di un relitto implica necessariamente la cancellazione dai pubblici registri navali, richiedendo un provvedimento autorizzatorio da parte dell’Ufficio locale d’iscrizione che fissa un termine per l’esecuzione. Tali condizioni non sarebbero state adeguatamente valutate dalla corte territoriale la quale, confermando la sentenza di primo grado in punto di qualificazione quali rifiuti dei relitti delle barche dal momento in cui, per effetto dei mandati conferiti dagli armatori al Porto, era iniziato il trasporto verso i siti di Massa, Marina di Carrara e Giuliano, aveva tralasciato di considerare l’anteriorità delle deleghe alle operazioni di recupero e alla conoscenza delle reali condizioni delle imbarcazioni rispetto al loro possibile utilizzo. Del resto, anche le dichiarazioni testimoniali dei consulenti tecnici assunte in dibattimento avevano confermato l’insufficienza della mera manifestazione di volontà degli armatori allo scopo di disfarsi delle imbarcazioni, valorizzando a riguardo la necessità di una valutazione sulla possibilità di recupero delle barche.
Sostiene, inoltre, la difesa che la circostanza per cui nel catalogo europeo dei rifiuti (CER) non siano elencati codici associati alle imbarcazioni registrate costituisca un chiaro indice negativo circa l’attribuibilità alle stesse della qualifica di rifiuto. Il Testo Unico Ambiente, infatti, nell’identificare ogni singola sostanza qualificabile come rifiuto con un apposito codice CER, ha previsto una categoria residuale di ‘rifiuti non specificati altrimenti’, nella quale rientrano i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione. Questi ultimi sono costituiti dagli scarti prodotti a seguito dell’attività demolitoria o comunque di separazione dei singoli elementi e rappresentano il presupposto necessario affinché, in materia di navi o imbarcazioni, possa attribuirsi un codice CER. Ne consegue che soltanto ciò che è prodotto dal processo di demolizione delle navi in appositi impianti può essere considerato rifiuto e non l’imbarcazione in quanto tale.
Sebbene il regolamento europeo 1013/2006 classifichi come rifiuti le navi destinate alla demolizione, tale normativa non consente di risolvere la questione dell’inquadramento giuridico di relitti delle navi, essendo il suo ambito di applicazione circoscritt o all’attività di spedizione di navi , destinate alla demolizione, battenti bandiera di uno Stato terzo.
Il secondo motivo denuncia vizio di manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati previsti dagli artt. 452 -quaterdecies e 640 cod. pen., di cui ai capi 2 e 10 della rubrica. I giudici di merito avrebbero fondato la prova del dolo circa l’illiceità dell’attività posta in essere da
COGNOME NOME e dalla RAGIONE_SOCIALE sulla mancata menzione, nella proposta di quest’ultima, delle necessarie autorizzazioni in materia ambientale, congiuntamente ritenendo che il verbale del collegio sindacale nel quale, su dichiarazione dell’imputata, era stato annotato che tutti gli smaltimenti contrariamente al vero -erano regolarmente certificati, non costituissero elementi idonei di esclusione della colpevolezza. A parere della difesa, nessuna motivazione specifica sarebbe stata fornita in merito all’effettiva consapevolezza dell’imputata circa la mancanza delle autorizzazioni ambientali. A ciò si aggiunga che la Corte di a ppello, ritenendo l’oggettiva assenza delle predette autorizzazioni un elemento sufficiente a dimostrare la sussistenza di un accordo illecito tra la COGNOME e il COGNOME, avrebbe confuso un vizio civilistico, da valorizzare in sede di contestazione di un inadempimento contrattuale, con la responsabilità penale per condotte poste in essere successivamente ad un accordo pienamente lecito, in tal modo riducendo il dolo di concorso ad una mera probabilità di omesso controllo sui requisiti della controparte contrattuale.
C on riferimento alla sussistenza dell’elemento del profitto, inoltre, i giudici di appello avrebbero ritenuto sufficiente a configurare la responsabilità dell’imputata la rappresentazione da parte di quest’ultima dell’interesse della società Porto Carlo RAGIONE_SOCIALE alla prosecuzione delle attività di impresa, omettendo di considerare che la sospensione prolungata della gestione portuale avrebbe comportato la decadenza della concessione.
Quanto al contributo nella truffa, la corte territoriale non avrebbe fornito alcuna indicazione dei dati probatori a sostegno della penale responsabilità della COGNOME. In particolare, con riferimento alla consapevolezza degli artifici e raggiri, consistiti nella simulazione del rispetto delle condizioni poste nei mandati e nelle false certificazioni attestanti l’avvenuto smaltimento dei relitti, i giudici di appello si sarebbero limitati ad affermare che il verbale del collegio sindacale non costituiva un elemento idoneo ad escludere il dolo.
Circa la consapevolezza dell’illiceità del profitto percepito da RAGIONE_SOCIALE e COGNOME Pasquale, la corte genovese avrebbe ritenuto sussistente la responsabilità della ricorrente sulla scorta di mere presunzioni, distoniche rispetto alle risultanze processuali le quali, per contro, evidenziavano una serie di circostanze idonee ad escludere il concorso nel reato di truffa (in particolare, i giudici di appello avrebbero tralasciato di considerare che i servizi offerti dal COGNOME erano stati presentati al Porto tramite una mail inoltrata dal perito nominato dalle assicurazioni, ergo da un soggetto affidabile; COGNOME aveva già curato con successo la presa in carico di un’imbarcazione di proprietà di un cliente del Porto Carlo Riva, presentandosi come un operatore ben noto e stimato nell’ambito della cantieristica nautica a livello mondiale; alla mail inoltrata al Porto
risultavano allegate alcune certificazioni di impresa quality system che prevedevano tra le competenze della British la demolizione navale e industriale, il recupero di rottami anche subacquei e lo smaltimento di rifiuti anche speciali). Tali circostanze, unitamente al fatto che il ruolo dell’imputata nell’ambiente portuale non comprendeva la conoscenza di procedure e iter autorizzativi in materia di smaltimento delle imbarcazioni, non consentirebbero di configurare in capo alla Scarpino la consapevolezza in merito alla mancanza delle autorizzazioni ambientali e alla falsità dei certificati inoltrati agli armatori direttamente dal COGNOME, potendo al più essere indicative di negligenza e imperizia. L’omessa verifica circa l’effettiva iscrizione della British all’albo dei gestori ambientali potrebbe, infatti, rilevare a titolo di colpa, tanto più se si considera che neppure la figlia del COGNOME e il legale della società British avevano avuto conoscenza della falsità delle certificazioni; a fronte dei numerosi solleciti ricevuti da parte degli armatori, l’imputata aveva incalzato la British a provvedere alle formalità di smaltimento, pretendendo dei riscontri documentali.
Con riferimento alla falsa rappresentazione del Porto circa l’approvazione del piano di recupero da parte della Capitaneria, la difesa osserva che, sebbene la Capitaneria non avesse approvato globalmente tale piano, le operazioni per ogni imbarcazione erano state richieste dai singoli armatori e puntualmente autorizzate. Per quanto riguarda, infine, l’ingiusto profitto conseguito , la COGNOME non aveva percepito alcun utile in conseguenza dei fatti in contestazione, non essendo mai stata socia del Porto, né amministratrice di fatto della società, come del resto si evinceva dalla scrittura privata del 13 marzo 2019 la quale aveva legittimato la direttrice alle trattative con i clienti, utenti degli ormeggi e dei servizi del Porto, con chiari limiti di mandato e con obbligo di rispettare le istruzioni ricevute.
3.6. Nell’interesse di COGNOME NOME sono stati articolati quattro motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso si censura violazione di legge, per avere la Corte territoriale riqualificato il reato di cui all’art. 648 -ter.1 cod. pen. (capo 13) nel delitto previsto dall’art. 648 -bis cod. pen., in ragione dell’assenza di responsabilità dell’imputata nella commissione del reato presupposto di cui al capo 2, senza consentire alla difesa alcun contraddittorio sul fatto diversamente qualificato e sulla sussistenza dei diversi elementi costitutivi del riciclaggio in luogo dell’autoriciclaggio . In particolare, i giudici di merito, trasformando nei suoi elementi essenziali la fattispecie concreta attribuita alla ricorrente e omettendo qualsiasi possibilità di confutazione di contestazioni ontologicamente differenziate, avrebbero determinato la violazione del principio del giusto processo sia con riferimento alla mancata trasmissione degli atti al Pubblico Ministero (art.521,
comma 2, cod. proc. pen.), sia in relazione alla compromissione del contraddittorio sul punto (art. 178, lett. c, cod. proc. pen.).
Il secondo motivo lamenta erronea applicazione di legge penale e vizio di manifesta illogicità della motivazione in relazione alla riqualificazione del delitto di cui al capo 13 in quello previsto dall’art. 648 -bis cod. pen. In particolare, secondo la difesa, la Corte territoriale avrebbe ritenuto provata la consapevolezza della provenienza illecita delle somme di denaro trasferite dalla British al conto personale della ricorrente sulla base di due elementi di prova, insufficienti e del tutto travisati, rappresentati dalla volontà della COGNOME di ‘ripulire’ il denaro della British, quale attestata dal contenuto di una conversazione intercorsa con il padre presso il carcere di Marassi, e dal carattere fittizio della causale indicata sul trasferimento, eseguito dal conto della società a quello personale dell’imp utata.
Con riferimento al primo elemento, la circostanza per cui il colloquio captato fosse avvenuto in epoca ampiamente successiva rispetto all’accredito delle somme dimostrava che la conversazione intercettata riguardava un ipotetico futuro e non un comportamento distrattivo, riferibile ai proventi della commessa del Porto di Rapallo. Quanto al secondo argomento, il trasferimento era stato eseguito unilateralmente da COGNOME NOME, cui andrebbe riferita in via esclusiva l’indicazione di una causale fittizia, in un momento in cui la figlia era totalmente estranea alla vicenda sfociata nel presente procedimento. Inoltre, tutte le movimentazioni sul conto corrente dell’imputata erano state tracciate, risultando contabilmente corrette e giustificate nell’interesse della società e dei suoi creditor i.
Infine, se, come affermato dai giudici di merito, la ratio dell’autoriciclaggio contestato al COGNOME -cui la finalità del riciclaggio attribuito alla ricorrente è stata riferita -era quella di trasferire il patrimonio sociale della British per aggirare il rischio di misure di sicurezza e poi riacquistarne la disponibilità, mancava in atti la prova del reingresso di tali somme nella disponibilità del COGNOME stesso.
Con il terzo motivo si censura il vizio di manifesta illogicità della motivazione in relazione al reato di cui all’art. 512 -bis cod. pen., contestato al capo 15 della rubrica, per aver i giudici di merito giustificato la sussistenza della fattispecie de qua in ragione dell’assenza di prova circa l’avvenuta corresponsione del prezzo pattuito per la cessione delle quote sociali della British da COGNOME NOME alle figlie NOME e NOME, contestualmente ritenendo che l’avvenuta retrocessione di tali quote a breve distanza di tempo costituisse prova del carattere fittizio dell’intera operazione. A parere della difesa, la Corte territoriale si sarebbe limitata ad aderire alle argomentazioni del primo giudice, omettendo di valutare la documentazione versata in atti dalla quale, invece, risultava che l’imputata aveva sempre preso le distanze dalla gestione pregressa del padre e dagli intenti elusivi di quest’ultimo; il pagamento delle quote era stato effettuato attraverso il rilascio
di cambiali in favore di COGNOME NOME, cambiali mai incassate per il successivo arresto di quest’ultimo; la retrocessione delle quote sociali era avvenuta per fuoriuscire dalla compagine sociale, una volta preso atto della perdurante ingerenza del COGNOME, il quale aveva continuato a voler gestire la British come un bene personale, sovrapponendosi alle decisioni delle figlie.
Il quarto motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 648quater , 452quaterdecies e 240 cod. pen., per aver i giudici di merito confermato la confisca anche per equivalente degli interi proventi della commessa Rapallo, senza tener conto dell’effettivo incremento patrimoniale conseguito dalla ricorrente. In particolare, la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che le operazioni di trasferimento erano state eseguite dal conto personale della ricorrente a vantaggio della British e che la quota di profitto realizzata poteva essere, al più, limitata ai trasferimenti effettuati sine titulo su carte prepagate in uso all’imputata, ovvero alle somme investite nell’istituzione della società RAGIONE_SOCIALE, il cui capitale era pari al limitato importo di diecimila euro.
3.7. Nell’interesse della società RAGIONE_SOCIALE Rapallo (RAGIONE_SOCIALE in liquidazione sono stati articolati due ricorsi da parte di distinti difensori e procuratori speciali, in relazione al duplice profilo di responsabilità oggetto di condanna (per gli illeciti amministrativi dell’ente e per la responsabilità civile).
3.7.1. Con riferimento alla responsabilità amministrativa per gli illeciti ascritti ai capi 16 lett. b) e d), con relativa condanna alla sanzione pecuniaria e disposizione di confisca (nella misura ridotta in appello), con ricorso del 16 ottobre 2024, a firma dell’avv. NOME COGNOME, sono stati articolati tre motivi.
Con il primo motivo si denuncia erronea applicazione degli artt. 5 e 6 del d. lgs. n. 231/2001 e vizio di manifesta illogicità della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità amministrativa da reato. In particolare, la Corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi in maniera puntuale sulla questione relativa alla sussistenza di una colpa di organizzazione in capo alla società, condividendo erroneamente la tesi del giudice di prime cure secondo la quale, nel caso di specie, non vi sarebbe stata alcuna forma di controllo sull’operato di chi agiva in nome e per conto di PTIR. Sul punto, la difesa osserva che il controllo da parte del collegio sindacale è stato eluso per mezzo delle false dichiarazioni rese da COGNOME alla riunione svoltasi in data 25 febbraio 2019 e che, in un’ottica ex ante , la predisposizione del modello organizzativo di cui al d. lgs. n. 231/2001 non sarebbe comunque stata in grado di dare origine ad un presidio efficace ed idoneo a prevenire reati della specie di quelli verificatisi, stante l’assoluta eccezionalità degli eventi occorsi a Rapallo nella notte tra il 29 ed il 30 ottobre 2018. Confermando, dunque, la dichiarazione di responsabilità
emessa in primo grado nei confronti della società, la Corte di appello avrebbe erroneamente applicato le norme disciplinanti la responsabilità amministrativa degli enti, per come interpretate da numerose pronunce della Suprema Corte.
Alla medesima conclusione si perviene anche con riferimento alla questione della sussistenza del nesso di causalità tra la colpa di organizzazione dell’ente e i reati presupposto. La sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto delle ragioni per le quali la mancata predisposizione di un modello ai sensi del d. lgs. 231/2001 non potesse essere considerata, al di là di ogni ragionevole dubbio, condicio sine qua non per la commissione dei reati presupposto; al contrario, la corte di merito si sarebbe limitata a d affermare che l’omissione dei controlli all’interno della società era stata direttamente e causalmente collegata alla commissione dei reati, senza esplicitare le ragioni per cui aveva reputato corretto il riferimento, operato dal t ribunale, al rapporto di c.d. ‘causalità agevolatrice’ tra la mancata predisposizione di idonei piani di controllo e la commissione degli illeciti e l’affermazione secondo la quale i deficit organizzativi riscontrati erano stati il presupposto necessario per la commissione dei reati ad opera dei soggetti apicali dell’azienda.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta erronea applicazione degli artt. 256, comma 3, d. lgs. 152/2006 e 25undecies, comma 2, lett. b), n. 3, d. lgs. 231/2001 e vizio di manifesta illogicità della motivazione, circa la conferma della dichiarazione di responsabilità della società RAGIONE_SOCIALE per l’illecito amministrativo di cui al capo 16 lett. d). La difesa rileva che, in relazione a tale capo d’imputazione, la responsabilità amministrativa dell’ente avrebbe dovuto essere esclusa, in quanto la riqualificazio ne del reato contestato al capo 5.1 nella fattispecie prevista dall’art. 256, comma 3, d. lgs. 152/2006 avrebbe dovuto comportare l’assorbimento del capo 5.1 nel capo 2 (e dunque nel reato di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen.), con conseguente assorbimento dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25 -undecies , comma 2, lett. b), n. 3, d. lgs. 231/2001 in quello di cui all’art. 25 -undecies , comma 2, lett. f), contestato al capo 16 lett. b). Invero, in base all’assunto difensivo, l’intero disvalore della condotta di cui al capo 5.1 sarebbe contenuto nella condotta descritta e contestata al comma 2 lett. f), con la conseguenza che, in mancanza dell’assorbimento dell’una nell’altra, la medesima condotta finirebbe per essere punita due volte, senza che ciò trovi giustificazione in alcun elemento specializzante di una fattispecie rispetto all’altra.
Con il terzo motivo si censura l’erronea applicazione degli artt. 9 e 19 d. lgs. 231/2001 in relazione all’art. 452 -quaterdecies , ultimo comma, cod. pen., con specifico riferimento alla questione se possa considerarsi profitto del reato, in quanto tale assoggettabile alla confisca, il minor debito che è venuto a crearsi nel patrimonio della società in conseguenza della condotta ad essa contestata. In
particolare, la difesa evidenzia che quando, nel giugno 2020, era stato eseguito il decreto di sequestro preventivo disposto per euro 2.831.369,00 i due conti correnti di cui PTIR era titolare presentavano un ‘esposizione debitoria . Di conseguenza, il sequestro del denaro era stato eseguito solo nel luglio 2021, quando un nuovo soggetto, entrato nella compagine sociale, aveva effettuato un versamento su un diverso conto, così permettendo al Pubblico Ministero di portare a termine l’esecuzione del sequestro p reventivo. Alla luce di tali circostanze, la difesa rileva come PTIR non aveva mai beneficiato di alcun effettivo accrescimento patrimoniale derivante dal reato, poiché non aveva una disponibilità concreta in attivo; per effetto della condotta omissiva contestata, PTIR avrebbe conseguito solo il risultato di una minore esposizione debitoria, in quanto tale non assoggettabile a confisca ex art. 19 d. lgs. 231/2001. Si sostiene, in definitiva, che la misura ablatoria in esame possa avere ad oggetto unicamente il profitto del reato, che va determinato tenendo conto dell’utilità già conseguita in concreto, mentre il ‘minor debito’ così come il credito, che, anche se liquido ed esigibile, non può costituire di per sé profitto del reato -non va al di là di una rilevanza meramente contabile. Peraltro, alla medesima conclusione si perverrebbe anche laddove si volesse disporre la confisca per equivalente, posto che, anche in questo caso, sebbene oggetto dell’ablazione possano essere beni non individuabili in sé ste ssi come ‘profitto’, non sarebbe comunque possibile trascurare il rigoroso accertamento dell’effettiva esistenza del profitto medesimo, specie in considerazione del fatto che, in materia di responsabilità amministrativa degli enti, la confisca costituisce sanzione principale.
Con memoria di replica del 20 marzo 2025, l’a vv. NOME COGNOME ha puntualizzato i motivi di ricorso, insistendo per l’accoglimento.
3.7.2. Nell’interesse di RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, condannata, nella sua qualità di responsabile civile per il reato di cui al capo 10), commesso dalla dipendente Scarpino Marina, al risarcimento integrale del danno provocato alla costituita parte civile NOME COGNOME sono stati articolati due motivi di ricorso.
Con il primo motivo viene censurato il vizio di motivazione in relazione all’asserito mancato adempimento, da parte di RAGIONE_SOCIALE, dell’impegno contrattuale assunto nei confronti della parte civile COGNOME. A parere della difesa, la Corte di appello si sarebbe limitata a ripercorrere le argomentazioni del giudice di primo grado, articolando una motivazione meramente apparente ed avulsa dalle risultanze processuali, ed omettendo di fornire una propria ed autonoma valutazione in ordine alle circostanze, già pu ntualmente evidenziate nell’atto di appello, dalle quali sarebbe stato possibile desumere la piena volontà del responsabile civile di adempiere al mandato. In particolare, non sarebbe stato
considerato che: il contratto originariamente stipulato ai fini dello smaltimento era da considerarsi ancora valido, non essendo stato mai risolto dalla società RAGIONE_SOCIALE né revocato dalla parte civile; l’odierno responsabile civile non aveva mai manifestato l’intenzione di non adempiere all’impegno contrattuale precedentemente assunto; le operazioni di trasporto e smaltimento dell’imbarcazione ‘RAGIONE_SOCIALE‘, di proprietà della parte civile, erano rimaste interamente a carico della RAGIONE_SOCIALE, come in precedenza pattuito dalle parti; nessun onere in relazione allo smaltimento della imbarcazione era posto a carico dell’armatore COGNOME il quale infatti, come emerso nel corso del giudizio di appello, in data 5 aprile 2024 aveva sottoscritto apposito mandato con il quale aveva confermato il conferimento a RAGIONE_SOCIALE dell’incarico relativo alla rimozione, allo smaltimento e alla demolizione della propria imbarcazione; in esecuzione del mandato ad essa conferito, RAGIONE_SOCIALE aveva effettivamente provveduto a smaltire l ‘imbarcazione con spese interamente a suo carico, così adempiendo in via definitiva agli impegni assunti nei confronti di COGNOME NOME
L’insieme di tali circostanze, a giudizio della difesa, avrebbe dovuto condurre la Corte territoriale ad una diversa ricostruzione del quadro fattuale, che tenesse conto non solo del nuovo mandato conferito dalla parte civile, ma dell’effettivo adempimento, medio tempore effettuato; diversamente argomentando, la società dovrebbe risarcire un danno per un inadempimento relativo ad una obbligazione contrattuale eseguita.
Il secondo motivo di ricorso lamenta l’erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 74 cod. proc. pen. e 185 cod. pen., avendo la Corte d’Appello erroneamente ritenuto sussistente la legittimazione della costituzione della parte civile COGNOME in relazione al capo 10) -e, conseguentemente, concesso il risarcimento del danno in relazione al reato di truffa ivi contestato -nonostante tale legittimazione fosse stata esclusa, in sede di dibattimento, dai giudici di primo grado. La difesa r ileva, in particolare, come la Corte d’Appello abbia interamente omesso di tener conto del fatto che, nel corso di quel giudizio, il Tribunale aveva espressamente segnalato la mancata menzione, all’interno del capo 10 dell’imputazione, dell’armatore COGNOME il quale pertanto non figurava né quale persona offesa dal reato di truffa né tanto meno come parte civile.
Con memoria difensiva del 14 marzo 2025, NOME COGNOME parte civile in relazione al reato di truffa di cui al capo 10, ribadendo la regolarità della propria costituzione nel procedimento penale e contestando le argomentazioni della società RAGIONE_SOCIALE ha richiamato la motivazione di entrambe le sentenze di merito circa il riconoscimento della pretesa risarcitoria fatta valere e ha chiesto che la Corte di
Cassazione rigetti il ricorso di RAGIONE_SOCIALE (quale responsabile civile) così riconoscendo la sua legittimazione e confermando la doppia conforme di condanna.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La gestione dei relitti delle imbarcazioni e il loro smaltimento: qualificazione giuridica come rifiuti speciali. I motivi di ricorso comuni a Capuano Pasquale, Scarpino Marina e COGNOME Roberto.
Trattasi di argomenti già introdotti con l’atto di appello, riproponendo i ricorrenti le medesime argomentazioni difensive, senza realmente confrontarsi con l’ampia, logica e persuasiva motivazione della Corte di appello. In particolare, le difese hanno reiteratamente contestato la qualificazione dei relitti delle barche quali rifiuti, operata dai giudici di merito, evidenziando che, sebbene sia corretta la premessa secondo cui, ai fini della predetta qualificazione, è necessaria la manifestazione della volontà degli armatori di disfarsi dei relitti, accompagnata alla loro oggettiva destinazione verso i siti di smaltimento, errata deve ritenersi la considerazione in base alla quale gli adempimenti amministrativi, che conseguono alla scelta dell’armatore di destinare l’ imbarcazione alla demolizione, non costituiscano presupposti necessari e indispensabili per la qualificazione come rifiuto del relitto, avendo la mera finalità di accertare l’insussistenza di diritti di terzi creditori sul bene, e non di verificare la possibilità di recupero della barca.
In quanto beni mobili registrati, le imbarcazioni di determinate dimensioni sono soggette ad un regime pubblicistico che permea le vicende giuridiche, dalla fase genetica alla fase demolitoria, con la conseguenza che la demolizione di un relitto implica necessariamente la cancellazione dai pubblici registri navali, all’esito di una valutazione sulla perdita costruttiva del bene.
Tali condizioni, secondo le difese, non sono state adeguatamente valutate dalla c orte territoriale, avendo quest’ultima tralasciato di considerare che le deleghe erano state conferite dagli armatori prima che le imbarcazioni venissero recuperate dall’acqua, quando non si era ancora a conoscenza delle reali condizioni in cui le stesse versavano e non era, dunque, possibile accertarne l’idoneità all’uso.
In realtà, l a sentenza impugnata, preso atto dell’assenza nella legislazione interna di disposizioni specifiche circa la qualificazione del relitto di una barca quale rifiuto e della mancanza nel catalogo europeo dei rifiuti di un codice CER associato alle imbarcazioni registrate, ha definito la questione in via interpretativa; operazione ermeneutica incentrata sulle norme generali e, in particolare, su ll’art. 183, comma 1, lett. a), d. lgs. 152/2006 relativo alla nozione di rifiuto, quanto più possibile conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia -correttamente
richiamata a pag. 4 della sentenza del Tribunale di Genova -e ai principi di prevenzione e precauzione in tema di tutela dell’ambiente e della salute umana.
Così, muovendo dalla definizione normativa, secondo la quale costituisce rifiuto qualsiasi oggetto di cui il detentore si disfi, o abbia l’intenzione ovvero l’obbligo di disfarsi, i giudici di merito hanno ritenuto che la qualificazione dei materiali quali rifiuti consegua a dati obiettivi che definiscono la condotta del detentore, anche in rapporto a specifici obblighi di eliminazione. In particolare, affinché un oggetto possa essere classificato come rifiuto, alla volontà del detentore di disfarsi del bene, richiesta dalla disposizione, deve accompagnarsi un elemento oggettivo, rappresentato dalla destinazione oggettiva che il bene ha avuto, non essendo sufficiente la mera valutazione soggettiva circa la mancanza di utilità del bene per il detentore.
Nel caso in esame, la volontà di disfarsi dei relitti delle barche è stata ritenuta compiutamente manifestata nel momento in cui, per effetto del mandato conferito da ciascun armatore alla Porto Turistico Internazionale Carlo Riva di Rapallo, i relitti sono stati trasportati verso i siti di deposito di Massa, Marina di Carrara e Giuliano, ad opera della società RAGIONE_SOCIALE, all’esito della valutazione, eseguita anche dai periti assicurativi, della perdita costruttiva del bene.
A conferma di tale conclusione, è stato osservato che in alcuni casi i trasporti sono stati preceduti dal distacco di parti del relitto ovvero da completa demolizione; in un caso, il relitto è stato rinvenuto all’interno dell’area in concessione a Porto Carlo Riva, ma già soggetto ad iniziale attività di demolizione; in un altro, il relitto è stato depositato integro presso il sito di Marina di Massa e qui sottoposto alle attività di demolizione.
Privi di rilievo, ai fini dell’inquadramento giuridico dei relitti delle navi, sono stati correttamente considerati gli adempimenti amministrativi conseguenti alla scelta dell’armatore di destinare il relitto alla demolizione, atteso che gli accertamenti di legge, a cura della Capitaneria di Porto, preliminari alla cancellazione del registro, sono finalizzati a verificare l’insussistenza dei diritti di terzi creditori sul bene, e non anche la possibilità di recupero della barca, già esclusa dal proprietario che, conferendo la delega, manifesta la volontà di disfarsene.
La sintesi contenuta nel paragrafo 5 della sentenza di appello è pertanto condivisibile: la manifestazione di volontà degli armatori e l’effettivo trasporto dei relitti presso i siti ove gli stessi furono depositati, in assenza di attività di restauro finalizzate al recupero per la navigabilità, hanno consentito di confermare la sentenza di primo grado circa la qualificazione giuridica dei beni in questione quali rifiuti.
Ulteriori riscontri, tratti dalla giurisprudenza e dalla dottrina, confortano la conclusione che precede.
Ha affermato il giudice di legittimità che in tema di rifiuti, la definizione dell’art. 183, comma primo, lett. a), d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, esige – in sintonia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale impone di interpretare l’azione di disfarsi alla luce della finalità della normativa europea, volta ad assicurare un elevato livello di tutela della salute umana e dell’ambiente, secondo i principi di precauzione e prevenzione – che la qualificazione alla stregua di rifiuti dei materiali di cui l’agente si disfa consegua a dati obiettivi connaturanti la condotta tipica, anche in rapporto a specifici obblighi di eliminazione, con conseguente esclusione della rilevanza di valutazioni soggettivamente incentrate sulla mancanza di utilità, per il medesimo, dei predetti materiali (Sez. 3, n. 19206 del 16/03/2017, Costantino, Rv. 269912 -01).
Nella fattispecie in esame, oltre la volontà degli armatori di disfarsi delle imbarcazioni a seguito dell’accertata perdita di funzionalità risultante dalle indagini peritali effettuate, vi era uno specifico obbligo di eliminazione, avendo la Capitaneria di porto di Genova emesso provvedimenti di diffida a carico dei proprietari dei relitti e dello stesso Porto Turistico Internazionale di Rapallo, con ingiunzione alla rimozione a causa del rischio di danno ambientale e di inquinamento delle acque marine.
Il datato precedente di legittimità -in materia specificamente marittima, citato dalle difese, oltre che da entrambe le pronunce di merito (Sez. 3, n. 34768 del 06/07/2007, COGNOME, Rv. 237224) -sebbene non significativo sul piano ermeneutico, perché per vari aspetti superato dalle pronunce della Corte di Giustizia, fa riferimento al diverso caso di demolizione di una nave che si trovava ancora immersa nelle acque marine ossia di un relitto che di per sé non costituiva un rifiuto, al contrario delle varie parti derivanti dalla demolizione stessa; nella fattispecie in oggetto, invece, i relitti -alcuni dei quali, come evidenziato in precedenza, già interessati da una attività di smantellamento -dovevano essere trasportati verso i siti di discarico e smaltimento, con le precauzioni a tutela dell’ambiente , da parte di ditte specializzate.
D’altra parte, la stessa autorevole dottrina citata dalla difesa della COGNOME conclude nel senso che soltanto a cominciare dallo svolgimento delle attività di gestione del prodotto della demolizione, o comunque -in ossequio alla normativa europea, e in particolare al regolamento del 2006 sul trasporto dei rifiuti e a quello del 2013 sul riciclaggio -a cominciare dalle attività di trasporto finalizzato alla demolizione o riciclaggio delle navi, diventa possibile, ma anche obbligata, la loro qualificazione come rifiuti.
In definitiva, i relitti in questione non potevano essere considerati abbandonati all’interno dell’area portuale ; dovevano essere eliminati e, pertanto, rimossi e trasportati altrove, presso siti idonei alla demolizione, attesa la loro perdita di funzionalità e l’accertata impossibilità di recupero .
Opportunamente, infine, la sentenza di appello ha riportato (pag. 34) una recente pronuncia del Consiglio di Stato in sede di parere nell’ambito di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica , presentato dall’armatore di una delle barche coinvolte dalla burrasca che si abbatté sul Porto di Rapallo, avverso provvedimento amministrativo concernente lo smaltimento del relitto, ove è stato ritenuto: ‹‹ nel caso di specie, si tratta di una imbarcazione affondata e in relazione alla quale il proprietario ha incaricato terzi, pagando il relativo corrispettivo, di procedere alle operazioni di rimozione e demolizione e al successivo smaltimento dei rifiuti, con conseguente trasporto della stessa in un terreno. Alla luce di ciò, si ritiene che la destinazione oggettiva dell’imbarcazione, per come desumibile dall’inequivoco intento del proprietario di ‘disfarsi’ della stessa, consenta di ricondurre al natante in questione la qualifica di ‘rifiuto’, ai sensi dell’art.183, comma 1, lett. a) del d.lgs. n 152 del 2006, oltre che dell’art. 3, n. 1, direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti ›› (Consiglio di Stato, Sezione Prima, Adunanza di Sezione 25/01/2023, parere n.00112/2023 del 30/01/2023).
Qualificati i relitti delle barche quali rifiuti, la corte territoriale ha confermato la sentenza di primo grado relativamente al delitto di cui al capo 2) dell’imputazione (art. 452 -quaterdecies cod. pen.) e alle contravvenzioni in esso ritenute assorbite di cui ai capi 3.1, 3.2, 3.3 (art. 256 d. lgs. 152/2006), previa ricostruzione in fatto della fattispecie dalla quale è emerso che, dopo la mareggiata, la società RAGIONE_SOCIALE, mandataria degli armatori (e, per essa, la direttrice COGNOME a ciò espressamente delegata), ha cercato sul mercato un’impresa che gestisse il recupero dei relitti, il trasporto presso siti di discarica e lo smaltimento; a tal fine, dapprima instaurò una trattativa commerciale con il consorzio RAGIONE_SOCIALE, composto da ditte specializzate in operazioni di recupero navale, ma, a causa dei costi ritenuti troppo elevati, preferì scegliere la ditta British di NOME COGNOME che offriva prezzi inferiori e tempi celeri, ma che era sprovvista delle autorizzazioni di legge al trasporto e allo smaltimento di rifiuti speciali.
2. Gli ulteriori motivi del ricorso di COGNOME Pasquale (capi 2, 4, 8, 10, 13, 15).
Il primo motivo di ricorso, riferito ai capi 2 e 3, riguarda ‘la violazione di legge con riferimento all’erronea qualificazione della res illicita ‘ e deve intendersi definito nei termini di cui al paragrafo che precede.
Anche gli ulteriori motivi , con i quali si contesta l’affermazione di responsabilità per gli altri reati oggetto di condanna, reiterano censure già sottoposte all’esame del giudice di appello , senza effettivo confronto con le risultanze probatorie richiamate nella sentenza impugnata e con la loro lineare valutazione.
La responsabilità per il reato presupposto di cui al capo 2 dell’imputazione ha determinato la configurabilità del delitto di autoriciclaggio (capo 13), oggetto di generica censura nel quinto motivo di ricorso. A parere della difesa, la circostanza per cui il delitto presupposto costituisca il frutto di un’interpretazione giurisprudenziale di una condotta priva di rilevanza penale e, in particolare, dell’erronea qualificazio ne dei relitti delle barche quali rifiuti, non avrebbe consentito di ritenere sussis tente il reato di cui all’art. 648 -ter.1 cod. pen. I giudici di merito avrebbero, infatti, erroneamente considerato quale vantaggio patrimoniale del delitto le somme di denaro percepite dal COGNOME a titolo di corrispettivo per l’attività svolta in adempimento di un regolare contratto stipulato con Porto Carlo Riva per l’attività di recupero, trasporto e smaltimento di quelli che sono sempre stati ritenuti meri relitti.
Ribadita, invece, la natura giuridica di rifiuti dei beni in questione, la corte di merito ha evidenziato le circostanze che non consentono di dubitare della consapevolezza del COGNOME in merito all’ill i ceità dell’attività di smaltimento , sulla base degli esiti dell’attività di intercettazione, dei controlli effettuati sugli autoarticolati che trasportavano i relitti delle imbarcazioni e delle ispezioni presso i siti di destinazione. Con accertamento in fatto che si sottrae a censure di legittimità, ha rilevato che i trasporti venivano eseguiti dalla RAGIONE_SOCIALE, facente capo al Capuano, su richiesta della società RAGIONE_SOCIALE, per conto terzi, documentati da semplice DDT (documento di trasporto di merci); che in alcuni casi gli autoarticolati, sprovvisti di formulario rifiuti, trasportavano cassoni stradali del Comune di Rapallo, contenenti materiale di risulta costituiti da guaine, cavi, parabordi, parti di cavi elettrici, cassette in plastica e rifiuti pericolosi; che il luogo indicato nei DDT di accompagnamento non corrispondeva a quello di effettiva destinazione; che presso i siti di smaltimento venivano cumulati materiali eterogenei di varia natura, consistenti in rifiuti solidi (resti di imbarcazioni) e liquidi (olii provenienti dai motori), nonché imbarcazioni estremamente danneggiate, depositate su un fondo terroso, con segni di percolamento di liquidi (chiazze di idrocarburi).
Quanto al profitto conseguito, è stato correttamente osservato che lo stesso è consistito, da un lato, nel percepimento del compenso per le attività svolte in favore della Porto Carlo Riva e, dall’altro, nella disponibilità dei relitti delle barche, da cui furono estratti materiali ceduti a titolo oneroso a terzi.
In definitiva, la responsabilità del ricorrente per il reato presupposto di cui al capo 2) della rubrica determina la manifesta infondatezza del motivo di ricorso relativo al l’autoriciclaggio sub 13). Le somme di denaro pervenute alla società RAGIONE_SOCIALE e, successivamente, trasferite dal COGNOME al conto corrente e alle carte prepagate intestati alla figlia, costituiscono, infatti, provento del reato di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., ossia dell’attività illecita posta in essere dall’imputato per la gestione e lo smaltimento di rifiuti, in assenza delle necessarie autorizzazioni ambientali.
I rilievi sul reato di cui al capo 15), di cui è pure cenno nel quinto motivo di ricorso, sono del tutto generici, negandosi la consapevolezza di aver percepito proventi di impresa attraverso la commissione di un reato e -nuovamente -la qualificazione di rifiuti dei relitti in questione; non è in contestazione, invece, l’attribuzione fittizia di quote societarie alle figlie per eludere disposizioni in materia di misure di prevenzione (condotta integrante il reato ex art. 512bis cod. pen.), così come accertata in sede di merito (§ 13 della sentenza di appello, pagg 76 e segg.).
Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono privi della specificità necessaria ex artt. 581, comma 1, e 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. perché privi di effettivo confronto con la motivazione della sentenza impugnata.
L’aggravante del metodo mafioso ex art. 416bis .1 cod. pen. -circostanza che ha reso procedibile d’ufficio il reato di minaccia di cui al capo 4 -è riscontrata dalle modalità della condotta, tale da richiamare nella vittima la forza intimidatrice espressa da organizzazioni criminali di tipo mafioso o camorristico (in tal senso il riferimento agli ‘amici di Casal di Principe’ per rafforzare l’intimidazione rivolta al Lembo di non recarsi ad un incontro -pag. 73 della pronuncia di appello; secondo motivo di ricorso).
Le contestazioni sul capo 8 (terzo motivo di ricorso), attinenti alla erronea valutazione e travisamento della prova, non fanno riferimento agli elementi istruttori presi in considerazione dai giudici di merito per ritenere sussistente il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex art. 603bis cod. pen. ( l’effettivo espletamento dei lavori di demolizione e trattamento dei rifiuti presso i siti di Massa e di Marina di Carrara, le intercettazioni telefoniche circa la ricerca di manodopera di cittadini extracomunitari tramite NOME COGNOME, i riscontri documentali costituiti dalle foto nelle quali erano visibili quattro lavoratori di colore a mani nude e senza protezione – pag. 18 della sentenza di primo grado -, la mancata conclusione di contratti di lavoro, i pagamenti ‘in nero’ ).
È altresì irrilevante l’ omessa identificazione dei singoli lavoratori per desumere -sulla base del suddetto quadro probatorio -l’impiego di manodopera in condizioni di sfruttamento, non spiegandosi altrimenti la condotta distorsiva del
mercato del lavoro, posta in essere con la ricerca mirata di cittadini extracomunitari, disponibili a trattare rifiuti speciali senza alcuna protezione, a rischio della propria incolumità, e tutela legale (assicurativa, contributiva).
Sostiene il ricorrente che era ben possibile che la richiesta di non regolarizzare il rapporto provenisse dallo stesso lavoratore, non considerando che è onere del datore di lavoro assicurare il rispetto delle prerogative retributive ed orarie nonché garantire la sicurezza nel luogo di lavoro (Sez. 4, n. 7861 del 11/11/2021, dep. 2022, Cirigliano, Rv. 282604), con la conseguenza che alternative modalità di adempimento, ancorché irregolari, ovvero circostanze di fatto implicanti esonero da responsabilità dovevano essere specificamente provate in giudizio dallo stesso soggetto tenuto all’osservanza della normativa di settore , tesa ad evitare situazioni di sfruttamento.
Il quarto motivo, con il quale si contesta l’esistenza del danno procurato alle vittime della truffa sub 10), non tiene conto del pregiudizio economico ben evidenziato dalla corte di merito (pag. 68), che ha puntualizzato, innanzitutto, che l a condotta descritta nel primo capoverso del capo d’imputazione integra di per sé gli estremi del reato (l’ottenimento dei mandati, mediante artifizi e raggiri consistiti nel rappresentare agli armatori la falsa promessa di esecuzione del trasporto e dello smaltimento in conformità alle disposizioni normative in materia ambientale, con affidamento a soggetti in possesso delle necessarie autorizzazioni), e, in particolare, che il profitto era costituito per la RAGIONE_SOCIALE nel vantaggio di provvedere nel minor tempo possibile alla rimozione dei relitti dallo specchio acqueo oggetto di concessione e di procedere al ripristino dell’operatività del porto privato e per la RAGIONE_SOCIALE del Capuano nel percepimento dei compensi pattuiti; il danno per gli armatori, oltre ai pagamenti eseguiti, è stato a ragione individuato negli ulteriori costi relativi allo smaltimento dei relitti delle barche, permanendo in capo agli stessi, quali produttori iniziali del rifiuto, l’onere economico di provvedere in tal senso.
In definitiva, il ricorso di COGNOME Pasquale è nel suo complesso inammissibile.
3. Gli ulteriori motivi del ricorso di COGNOME NOME (capo 2).
3.1 I motivi con i quali la difesa si duole della conferma della dichiarazione di responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen. sia sul piano materiale che su quello psicologico, si limitano a reiterare doglianze già sottoposte all’esame della Corte territoriale e da quest’ultima adeguatamente disattese, con motivazione logica ed esaustiva.
In particolare, manifestamente infondato deve reputarsi il secondo motivo di ricorso, con il quale viene censurato il rigetto, da parte del giudice di appello, della
richiesta difensiva di predisposizione di una perizia finalizzata ad accertare il tema della qualificazione giuridica dei relitti, specie in considerazione del contrasto che, su tale specifico punto, era venuto a crearsi tra le interpretazioni fornite dai consulenti tecnici, dell’accusa e degli imputati.
La doglianza non coglie nel segno, dovendosi ritenere che nel caso di specie la corte di merito abbia fatto corretta applicazione del principio di diritto in forza del quale «il giudice ha il dovere di esplicitare le ragioni per le quali ritenga di non procedere ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., in quanto il potere di disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova rientra nel compito del giudice di accertare la verità ed ha la funzione di supplire all’inerzia delle parti o a carenze probatorie, quando le stesse incidono in maniera determinante sulla formazione del convincimento e sul risultato del giudizio» (Sez. 3, n. 50761 del 13/10/2016, Rv. 268606 -01). Il giudice di seconde cure, infatti, anche alla luce del percorso argomentativo che lo ha condotto a confermare l’attribuzione della qualifica di rifiuti ai relitti di barche, ha rilevato come già nella sentenza di primo grado vi fosse un’articolata motivazione in ordine agli elementi riferit i dai consulenti di parte, con la conseguenza di poter ritenere già pienamente raggiunta, sul punto, la completezza del quadro istruttorio.
Puntualizza il ricorrente che la perizia richiesta non avrebbe avuto ad oggetto la qualificazione giuridica di un fatto, ma piuttosto le caratteristiche tecniche dei relitti e le specifiche qualità di ciascuna delle imbarcazioni, elementi, tuttavia, già acquisiti agli atti, e oggetto di puntuale analisi valutativa, come esposto nel paragrafo 1.
3.2. Il terzo motivo, incentrato sulla riferibilità all’imputato della condotta integrante la fattispecie di cui al capo 2, e, in particolare, del ruolo concretamente svolto nella conclusione dell’accordo illecito con cui la società RAGIONE_SOCIALE aveva affidato le attività di trasporto e smaltimento delle imbarcazioni alla ditta RAGIONE_SOCIALE costituisce anch’esso reiterazione di una censura già definita in termini corretti in secondo grado.
La corte di merito ha, infatti, adeguatamente illustrato le numerose risultanze processuali in base alle quali l’imputato è stato ritenuto promotore e partecipe dell’accordo illecito in questione, e precisamente: la pregressa conoscenza di COGNOME NOME e l’inte nsa collaborazione commerciale in favore della società RAGIONE_SOCIALE; le iniziative personali, indice di autonomia decisionale (in particolare, l’invio per conto di RAGIONE_SOCIALE della mail del 3 gennaio 2019 con la quale era stato chiesto l’affidamento dei lavori di rimozione, trasporto e smaltimento delle imbarcazioni danneggiate, con dichiarazione che la RAGIONE_SOCIALE era in possesso di tutti i requisiti nonché del codice CER per lo svolgimento delle relative attività; mail nella quale, peraltro, l’imputato si
qualificava espressamente quale Technical Manager ); la partecipazione all’incontro tra Capuano Pasquale e Scarpino Marina avvenuto in data 8 febbraio 2019, cui seguiva la mail di quest’ultima, inviata in pari data a l Lembo, con la quale, per conto di Porto Carlo Riva sRAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE, veniva confermato l’affidamento a RAGIONE_SOCIALE dell’incarico di trasporto e smaltimento; l’invio, ad opera del Lembo, della mail del 10 febbraio 2019 con cui egli forniva a Capuano Pasquale precise indicazioni su come organizzare e registrare il movimento dei relitti presso il sito di destinazione.
È condivisibile, pertanto, la conclusione cui perviene la corte di merito circa il ruolo fondamentale de ll’imputato, sottolineando si come egli dovesse reputarsi certamente consapevole della mancanza, in capo alla RAGIONE_SOCIALE, delle necessarie autorizzazioni in materia ambientale.
3.3. Del pari all’evidenza infondati risultano gli ultimi due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, in quanto basati sul medesimo presupposto ossia quello dell’asserita erronea applicazione dell’art. 5 cod. pen. così come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364/1988.
Occorre innanzitutto sottolineare come anche in relazione a tali motivi assuma un rilievo preminente il tema della qualificazione giuridica da attribuire ai relitti di imbarcazioni. Invero, nel sostenere che nel caso di specie ricorrano tutti i criteri sta biliti dalla Consulta ai fini dell’applicazione della scusante dell’ignoranza inevitabile della legge penale, il ricorrente rimarca come la materia dei reati ambientali, oltre ad essere già di per sé particolarmente tecnica e specializzata, nonché connotata da una pluralità di norme non sempre coerenti tra loro e perciò di difficile comprensione, sia resa nel caso di specie ancora più complessa dalla mancanza di una specifica disciplina relativa ai relitti di imbarcazioni. Tale lacuna normativa, unita alla pressoché totale assenza di giurisprudenza sul punto, consentirebbe di ipotizzare plurime interpretazioni delle regole da applicare, con esiti diametralmente opposti a seconda della tesi in concreto seguita. A dimostrazione di ciò, si evidenzia come nel co rso dell’istruttoria dibattimentale si sia verificato un evidente contrasto tra i consulenti, con particolare riferimento alla qualificazione giuridica da attribuire alle imbarcazioni, da considerarsi rifiuti per il consulente dell’accusa e meri relitti per quelli della difesa.
A parere del ricorrente, la Corte di appello, a fronte di tali difficoltà ed incertezze, avrebbe errato nel l’esclu dere , nel caso di specie, un’ipotesi di ignoranza inevitabile -e perciò scusabile -della legge penale; inoltre, la sussistenza della scriminante di matrice costituzionale inciderebbe anche sull’elemento soggettivo del reato contestato all’imputato (quinto motivo di ricorso).
In definitiva, l’estrema complessità della normativa in materia ambientale e l’incertezza esistente in merito alla possibilità di qualificare i relitti come rifiuti, unitamente agli altri elementi puntualmente indicati nel ricorso -il mancato intervento di Carabinieri, Capitaneria di Porto ed ogni altra autorità; la mancanza di un profitto diretto; la circostanza di aver sempre mantenuto un ruolo di mero collaboratore esterno della British Shipways -avrebbero dovuto far propendere per una diversa valutazione circa la sussistenza, in capo al COGNOME, del dolo del reato di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen.
Senonché, anche in relazione alle censure in esame risultano corrette le argomentazioni con cui i giudici di merito hanno escluso che ricorra un’ipotesi di ignoranza inevitabile della legge penale, confermando la sussistenza del l’elemento soggettivo del reato contestato all’imputato. In particolare, la Corte di appello ha osservato, in termini pertinenti, che, qualificati i relitti come rifiuti, l’eventuale mancata conoscenza di tale qualità si risolve in una ignoranza della legge penale in tema di gestione e trattamento dei rifiuti, come tale non rilevante ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo del reato, venendo in considerazione il grado di attenzione e di conoscenza nella materia, esigibile in capo a chi si trovi ad operare nell’ambito di operazioni concernenti lo smaltimento di relitti di barche, tanto più che, in virtù del principio di precauzione in materia ambientale, deve riconoscersi l’esistenza di un dovere di astensione dal tenere le condotte in caso di ignoranza della legge.
Pertinente a tal fine una pronuncia della Corte che, ancorché datata, ha specificato in materia di rifiuti che l’errore sulla qualificazione della tipologia del l’insediamento si risolve in errore di diritto e non in errore sul fatto costituente reato, avendo per oggetto norme penali (Sez. 3, n. 5872 del 19/04/1994, COGNOME, Rv. 197830 -01, nella circostanza la Corte ha altresì precisato che nel caso in esame non poteva trovare fondamento, ex art. 5 cod. pen. come integrato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988, l’ipotesi dell’inevitabilità dell’errore sulla legge penale provocato dalle carenze della p.a., che nel corso dei controlli eseguiti non aveva mosso rilievi, e dalle oscillazioni della giurisprudenza, in quanto proprio la situazione di dubbio sulla possibile illiceità della condotta avrebbe dovuto indurre l’agente ad astenersi dalla stessa).
Infine, circa la mancata percezione di un compenso per l ‘ attività, i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui «ai fini della configurabilità del concorso nel delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452quaterdecies , cod. pen., non è necessario che il singolo concorrente agisca al fine di conseguire un ingiusto profitto, essendo sufficiente che abbia consapevolezza del profitto perseguito dai correi» (Sez. 3, n.
35108 del 15/05/2024, COGNOME, Rv. 286899 -03; Sez. 3, n. 2842 del 18/11/2021, dep. 2022, Natale, Rv. 282697 -01).
4. Gli ulteriori motivi del ricorso di Scarpino Marina (capi 2, 10)
Il secondo motivo di ricorso, con il quale si contesta la sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati oggetto di condanna, reitera censure già dedotte in appello ed esaurientemente definite dalla corte territoriale.
In tema di gestione dei rifiuti, è jus receptum che colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per il recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che questi ultimi siano debitamente autorizzati allo svolgimento delle operazioni, con la conseguenza che l’inosservanza di tale regola di cau tela imprenditoriale è idonea a configurare la responsabilità per il reato di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen. in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo (Sez. 3, Sentenza n. 29727 del 04/06/2013, COGNOME, Rv. 255876 -01).
Nel caso di specie, la proposta presentata dal Capuano e dal Lembo a Porto Carlo Riva, all’inizio d el mese di gennaio 2019, non è stata accompagnata da documentazione idonea a offrire la prova dell ‘esistenza delle necessarie autorizzazioni in materia ambientale in capo alla British Shipways, né tali autorizzazioni sono state richieste dall’imputata in sede di conclusione dell’accordo in data 8 febbraio 2019. L’istruttoria ha altresì consentito di accertare il ruolo della COGNOME nella gestione delle attività della RAGIONE_SOCIALE; in quanto amministratrice di fatto della società, le scelte operate in relazione al conferimento dell’incarico a RAGIONE_SOCIALE e alle operazioni di rimozione e trasporto dei relitti delle barche sono state assunte in piena autonomia, senza alcuna direttiva impartita dai componenti del Consiglio di amministrazione, con la consapevolezza, quindi, del l’attività di gestione abusiva dei rifiuti effettuata dal coimputato COGNOME.
Non esclude la colpevolezza della condotta la mancata conoscenza della classificazione giuridica dei relitti da smaltire , risolvendosi quest’ultima come già rilevato nel paragrafo che precede, relativo al Lembo -in una ignoranza della legge penale in tema di gestione e trattamento dei rifiuti, come tale non rilevante ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo del reato, in considerazione anche del grado di attenzione e di conoscenza esigibile da chi opera con ruolo decisionale nell’ambito di opera zioni con indubbio impatto ambientale. Parimenti privo di rilievo è stato a ragione considerato il verbale del collegio sindacale sul quale era stato annotato, su richiesta dell’imputata, che tutti gli smaltimenti -contrariamente al vero -erano regolarmente certificati e che, entro il 2020, vi sarebbe stata la chiusura delle operazioni nel rispetto della normativa. Il fatto che
le dichiarazioni della COGNOME siano state raccolte dal presidente del collegio sindacale sulla banchina del porto e che il riferimento ai rifiuti speciali fosse da attribuirsi, nelle intenzioni, non già ai relitti delle barche ma ai detriti presenti sul fondale ed alle scorie prodotte dagli interventi di altra ditta specializzata, non inficia la rilevanza dell’atto ai fini dell’accertamento del dolo , attestando comunque la diretta partecipazione dell’imputata alle attività poste in essere dalla British RAGIONE_SOCIALE nella consapevolezza che la società incaricata dello smaltimento fosse priva delle autorizzazioni di legge.
Con riferimento al profitto, sono plausibili le argomentazioni con le quali i giudici di merito hanno giudicato infondata la doglianza difensiva -reiterata in questa sede -volta a contestare la sussistenza di un vantaggio personale in capo all’imputata. Come riportato in precedenza, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, ai fini della configurabilità del concorso nel reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., non è necessario che il singolo concorrente agisca al fine di conseguire un ingiusto profitto, essendo sufficiente che del profitto perseguito dai correi egli abbia consapevolezza.
Nel caso di specie, il vantaggio patrimoniale è stato individuato non già in un’ utilità personale, relativa ad una futura posizione di rilievo nell’ambito della società, ma nell’obiettivo di consentire la prosecuzione dell’attività di Porto Carlo Riva con interventi di ripristino economici ed informali , nell’interesse esclusivo della società amministrata; finalità realizzata, posto che alla data del 31 dicembre 2018 il patrimonio netto della società era negativo e che nel 2019 ritornò attivo, a seguito del cospicuo indennizzo assicurativo incassato, con conseguente utilitaristica esigenza di rendere produttiva – nel breve termine e senza oneri eccessivi -la gestione dell’area portuale in concessione.
Quanto all’imputazione di truffa di cui al capo 10 -per la quale la COGNOME ha riportato condanna unitamente al COGNOME -si richiamano le argomentazioni relative a ll’esame del quarto motivo del ricorso di quest’ultimo (paragrafo 2) circa l’accertamento della condotta truffaldina , attribuita ad entrambi gli imputati in danno degli armatori, con l’ulteriore precisazione che la maggior parte delle coperture delle polizze assicurative erano relative ai costi di recupero delle barche, ma non a quelli di smaltimento dei relitti, per cui l’ingiusto profitto era costituito anche dal risparmio di spesa conseguente al mancato adempimento dell’obbligazione della mandataria PTIR (per sei barche furono emessi falsi certificati di smaltimento e, in generale, l’attività prevista nel mandati non fu eseguita, posto che i relitti furono abbandonati presso i siti di destinazione).
5. Il ricorso di Dall’Asta Andrea (capi 3.1, 3.2, 3.3, 5.1, 6 )
Nella parte in fatto relativa al ricorrente sono stati evidenziati gli snodi processuali circa la sua posizione: il giudice di prime cure aveva pronunciato sentenza di assoluzione in relazione a tutti i capi a lui contestati; avverso la pronuncia assolutoria aveva proposto appello il Pubblico Ministero, chiedendo alla c orte di merito di dichiarare la penale responsabilità di Dall’Asta per il reato di cui al capo 2 dell’imputazione e per quelli ritenuti in esso assorbiti, ossia i capi 3.1, 3.2, 3.3, nonché per i capi 5.1 e 6; oltre che dal Pubblico Ministero, la sentenza di primo grado era stata impugnata, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., anche dalla parte civile Regione Liguria, che aveva chiesto la concessione di una provvisionale immediatamente esecutiva nei confronti dei soggetti condannati al risarcimento dei danni; a ll’esito del giudizio di appello, la corte territoriale, in riforma della sentenza di primo grado, aveva confermato l’a ssoluzione del Da ll’Asta dal delitto di cui al capo 2, perché il fatto non costituisce reato, dichiarandolo tuttavia responsabile dei reati contravvenzionali di cui ai capi 3.1, 3.2 e 3.3, già ritenuti assorbiti nel reato sub 2, nonché di cui ai capi 5.1 e sub 6, con contestuale dichiarazione di estinzione degli stessi per intervenuta prescrizione e condanna, in solido con gli altri coimputati, a risarcire alla parte civile Regione Liguria il danno cagionato dal reato di cui al capo 6 (art. 256, comma 3, d. lgs. 152/2006).
Sostiene il RAGIONE_SOCIALE con l’unico motivo di ricorso che la corte di merito lo ha erroneamente condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in violazione degli artt. 578 e 576 cod. proc. pen.
Il motivo è fondato e il ricorso merita accoglimento.
Premesso che il ricorrente non contesta la dichiarazione di prescrizione, l’impugnazione attiene esclusivamente alla condanna al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile Regione Liguria in relazione al reato sub 6 (realizzazione di due discariche abusive in Massa e Carrara).
Stabilisce l’art. 578 cod. proc. pen. che , quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.
Ha precisato il giudice di legittimità che non sussistono i presupposti per l’operatività dell’art. 578 cod. proc. pen. nel caso in cui il giudice di appello, in riforma della sentenza di primo grado di assoluzione debba pronunciare declaratoria di estinzione del reato per prescrizione e, in assenza della impugnazione della parte civile, nemmeno sussistono i presupposti per l’applicabilità dell’art. 576 cod. proc. pen., che conferisce al Giudice della impugnazione il potere di decidere sul capo della sentenza relativo alla azione
risarcitoria, anche in mancanza di una precedente statuizione sul punto (Sez. 2, n. 46257 del 17/10/2013, COGNOME, Rv. 257429; Sez. 5, n. 9638 del 24/01/2011, COGNOME, Rv. 249713).
Poiché il COGNOME era stato assolto in primo grado (anche) dal reato sub 6, l’impugnazione del PM agli effetti penali giustificava da parte della corte di appello l ‘accertamento di responsabilità e la declaratoria di estinzione per decorso del termine prescrizionale; in mancanza di impugnazione della Regione Liguria -che pure aveva proposto impugnazione avverso la sentenza del tribunale ma soltanto nei confronti degli imputati condannati in primo grado e, quindi, non del prosciolto COGNOME il giudice di secondo grado non poteva, invece, statuire in senso sfavorevole al ricorrente in ordine agli effetti civili, estendendo a costui la condanna dei coimputati al risarcimento del danno.
In definitiva, solo nel caso in cui il giudice di appello, su gravame del solo pubblico ministero condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, vi è obbligo di provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia impugnato la decisione assolutoria (Sez. U, n. 30327 del 10/07/2002, COGNOME, Rv. 222001); non così in ipotesi di prescrizione, posto che per espressa disposizione legislativa l’adozione di ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge (e, quindi, anche la decisione sulle statuizioni civili) è collegata ad una pronuncia di condanna (art. 597, comma 2 lett. a e b, cod. proc. pen.).
La sentenza impugnata va pertanto annullat a nei confronti del RAGIONE_SOCIALE limitatamente alle statuizioni civili che si eliminano.
6. Il ricorso di COGNOME NOME (capi 13, 15)
Va precisato preliminarmente che il ricorso deve considerarsi tempestivo e che, contrariamente a quanto annotato in calce alla sentenza impugnata, la pronuncia di secondo grado non è divenuta irrevocabile per Capuano NOME il 18 ottobre 2024. Dai verbali di udienza risulta, infatti, che il processo si è svolto in assenza dell’imputata (in base al disposto di cui all’art. 598 -ter , comma 1, cod. proc. pen., in caso di regolarità delle notificazioni, l’imputato appellante non presente all’udienza di cui agli articoli 599 e 602 è sempre giudicato in assenza anche fuori dei casi di cui all’articolo 420bis ). Ne consegue che, ai fini del calcolo dei termini per proporre impugnazione occorre fare riferimento anche all’art. 585, comma 1bis, cod. proc. pen., in vigore all’epoca della pronuncia di appello, norma che stabilisce che i termini previsti dal comma 1 sono aumentati di quindici giorni per l’impugnazione del difensore dell’imputato giudicato in assenza . Il ricorso depositato il 30 ottobre 2024 deve, quindi, considerarsi tempestivo, perché, rispetto alla scadenza del 18 ottobre 2024, determinata ai sensi dell’art. 585,
comma 1, cod. proc. pen., il difensore della COGNOME imputata assente in appello, aveva a disposizione un ulteriore periodo di quindici giorni per proporre impugnazione.
Ciò posto, circa il primo motivo di ricorso, va ulteriormente precisato che nei confronti di COGNOME NOME l’assenza di responsabilità nella commissione del reato presupposto di cui al capo 2 dell’imputazione -ritenuta dalla corte territoriale, in ragione della mancanza di prove circa il coinvolgimento dell’ imputata nel periodo di gestione dei rifiuti in oggetto -ha determinato l’esclusione del concorso nel reato di autoriciclaggio contestato al padre COGNOME NOME, nonché la riqualificazione della condotta di cui al capo 13 (art. 648ter.1 cod. pen.) nel reato ex art. 648bis cod. pen. Sul punto, la difesa ha osservato che i giudici di merito, trasformando nei suoi elementi essenziali la fattispecie concreta attribuita alla ricorrente e omettendo qualsiasi possibilità di confutazione di contestazioni ontologicamente differenziate, hanno determinato una menomazione del diritto di difesa.
La doglianza è manifestamente infondata. La Corte ha chiarito -in tema di reati di cui agli artt. 648 e segg. cod. pen. -che non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la qualificazione del fatto, prima inquadrato nella fattispecie di riciclaggio, come impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, se nella contestazione sono contenuti gli elementi concreti per apprestare un’utile difesa in riguardo al diverso reato poi ritenuto in sentenza (Sez. 2, n. 29912 del 17/05/2007, COGNOME, Rv. 237262 -01); lo stesso può dirsi nel caso in esame, considerando il rapporto di specialità che sussiste tra i due reati in oggetto ed il tenore della originaria imputazione (capo 13), sì che rispetto ai fatti contestati, nei confronti della COGNOME, è stato escluso uno degli elementi che caratterizzano l’autoriciclaggio (la partecipazione al reato presupposto) e accertati gli altri, idonei in sé ad integrare il riciclaggio, senza alcun pregiudizio difensivo, peraltro non specificato in ricorso.
Il secondo motivo è estraneo al sindacato di legittimità, perché incentrato su doglianze di merito relative alla valutazione delle risultanze istruttorie.
La sentenza impugnata, infatti, ha ritenuto provata la consapevolezza dell’imputata in ordine alla provenienza illecita del denaro versato dalla società RAGIONE_SOCIALE dalla Porto Carlo Riva sulla base dei colloqui intercettati con il padre NOME, attestanti la finalità di ‘lavare’ il denaro percepito per le attività realizzate , sull’ovvio presupposto della illegale acquisizione dei proventi. A conferma di ciò, le causali apposte alle movimentazioni delle somme (dal conto corrente della British RAGIONE_SOCIALE al conto personale ed alle carte prepagate intestate all’imputata ) sono risultate fittizie, attesa la mancanza di rapporti commerciali tra le parti che giustificasse gli accrediti.
Priva di rilievo deve considerarsi altresì la circostanza secondo cui le movimentazioni sul conto corrente personale dell’imputata fossero state tutte tracciate. La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, precisato che integra il delitto di riciclaggio il compimento di condotte volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, e ciò anche attraverso operazioni che risultino tracciabili, in quanto l’accertamento o l’astratta individuabilità dell’origine delittuosa del bene non costituiscono l’evento del reato (Sez. 5, n. 21925 del 17/04/2018, Ratto, Rv. 273183 -01).
All’evidenza infondato, oltre che reiterativo, deve ritenersi anche il terzo motivo di ricorso, relativo al l’elemento soggettivo del reato ex art. 512bis , contestato al capo 15.
La Corte ha chiarito come in tema di trasferimento fraudolento di valori, l’intestatario fittizio del bene non debba essere animato necessariamente dal dolo specifico, che caratterizza, invece, la condotta dell’interponente, unico soggetto direttamente interessato a eludere la possibile adozione di misure di prevenzione a suo carico, essendo sufficiente, invece, la consapevolezza del dolo specifico altrui (Sez. 2, n. 16997 del 28/03/2024, Severini, Rv. 286355 -01), precisando che il delitto può essere commesso anche da chi non sia ancora sottoposto a misure di prevenzione patrimoniali e ancora prima che il relativo procedimento sia iniziato, occorrendo solo, ai fini della configurabilità del dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, che l’interessato possa fondatamente presumere l’avvio di detto procedimento (Sez. 5, n. 1886 del 07/12/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282645 -01).
Nel caso in esame, con argomentazioni lineari sul piano logico e coerenti con il quadro probatorio, la corte territoriale ha ritenuto che il trasferimento della quota sociale della RAGIONE_SOCIALE, posto in essere da COGNOME NOME nei confronti delle figlie NOME e NOME fosse stato determinato dalla volontà di sottrarre la stessa ai creditori e al potenziale sequestro, essendo il trasferimento avvenuto immediatamente dopo l’applicazione al COGNOME di una misura cautelare personale, nell’ambito di un procedimento instaurato nei suoi confronti per tentato omicidio, quando sussistevano i presupposti per l’applicazione di una misura d i prevenzione patrimoniale.
A conferma del carattere fittizio della cessione sono state evidenziate ulteriori circostanze: l’assenza di prova in ordine alla corresponsione del prezzo per la cessione della quota societaria, non essendo mai state esibite le cambiali che sarebbero state utilizzate per il pagamento; la retrocessione della quota, a breve distanza di tempo, in assenza di alcun ragionevole motivo, essendo risultata la causale dedotta (restituzione di un debito) priva di fondamento.
Le alternative letture della difesa dei dati istruttori non inficiano la portata logica delle argomentazioni della corte di merito e la tenuta della motivazione, secondo i criteri più volte indicati dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 5517 del 30/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285801 -01).
Il quarto motivo di ricorso non è stato sottoposto alla precedente cognizione del giudice di appello e non è pertanto deducibile per la prima volta in cassazione.
Dal la lettura dell’atto di impugnazione e dal riepilogo dei motivi, riportato a pag. 21 della sentenza impugnata, si evince infatti che, in sede di appello, la difesa si era limitata a chiedere la revoca della confisca, per l’insussistenza dell’ipotesi delittuosa di cui al capo 13 dell’imputazione. D iversamente, in sede di legittimità, è stato contestato il profilo dei criteri di imputazione, eccependosi -peraltro genericamente -che, in presenza di illecito plurisoggettivo, la confisca è stata disposta per l’intero importo del profitto nei confronti d ell’imputata e non già limitatamente alla quota di profitto concretamente a lei attribuibile.
7. Il ricorso di COGNOME (capo 2)
L’unico motivo di ricorso proposto nell’interesse del COGNOME, con il quale si denuncia il vizio di motivazione e il travisamento della prova, è manifestamente infondato oltre che generico.
Si sostiene, infatti, che ‘sulla scorta di esigui e poco significativi elementi, e pur a fronte di una mole imponente di informazioni acquisite nel corso del dibattimento, si desumeva che il Di COGNOME avesse piena consapevolezza della illiceità dell’attività di trasporto dei rifiuti’ (pag. 4 del ricorso).
In realtà, il ricorrente -che omette di specificare quali elementi probatori a suo favore i giudici di merito avrebbero omesso di considerare -non contesta la classificazione giuridica di rifiuti del materiale, limitandosi a sostenere l’insussistenza del dolo per non aver avuto consapevolezza della illiceità della attività di smaltimento alla quale aveva dato esecuzione, in adempimento di disposizioni ricevute dal datore di lavoro, COGNOME Pasquale, senza alcun potere decisionale a riguardo e percezione di ricavi economici.
Con accertamento in fatto che si sottrae a censure di legittimità, la corte territoriale ha evidenziato, invece, il diretto coinvolgimento del COGNOME nella gestione dei rifiuti in questione, in stretta collaborazione con il COGNOME (pag. 56), indicando le circostanze in tal senso emblematiche (il conferimento degli incarichi di guardiania dei siti dove i relitti furono depositati, con pattuizione dei relativi compensi; i rapporti intrattenuti con NOME COGNOME per la gestione dell’attività materiale di demolizione; gli stratagemmi escogitati per sfuggire ai controlli,
nell’evidente consapevolezza che il carico trasportato necessitasse dei relativi formulari).
Il compendio probatorio -costituito da intercettazioni telefoniche e dichiarazioni testimoniali, oltre che dalla documentazione sui trasporti -è estraneo alla censura che, anche per tale aspetto, si caratterizza per genericità.
8. I ricorsi della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione.
8.1. Il ricorso in qualità di ente responsabile amministrativo per gli illeciti di cui ai capi 16 lettera b) e d) delle imputazioni.
Con il primo motivo di ricorso, il difensore ha lamentato la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla conferma della dichiarazione di responsabilità della società, rilevando tanto l’inesistenza di una colpa di organizzazione in capo all’ente quanto l’assenza del nesso di causalità tra le omissioni ad esso imputabili e il reato presupposto commesso dagli apicali.
La doglianza in esame non supera il vaglio di ammissibilità, poiché fondata su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dal giudice di merito.
La Corte di appello ha in termini pertinenti richiamato il principio di diritto in forza del quale in tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di ado ttare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261113 – 01). In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che, accertato il reato presupposto sub 2, l’affermazione di responsabilità in capo all’ente discende dal dato oggettivo -emerso dall’istruttoria espletata della mancata predisposizione, da parte dello stesso, di un modello di organizzazione finalizzato ad adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi; infatti, né all’interno di PTIR né in seno alla ditta RAGIONE_SOCIALE di Capuano Pasquale è stato possibile riscontrare la presenza del modello di gestione e controllo di cui all’art. 6 d. lgs. 231/ 2001, posto che, in entrambi i casi, si trattava di società di ‘ st ampo familiare’ , nelle quali la gestione era tendenzialmente affidata ad una sola persona, con controlli minimi se non del tutto inesistenti. Peraltro, ribadendosi quanto affermato dalle sezioni unite, il d. lgs. n. 231/2001 coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo ed il sistema che ne discende, di tertium genus , configura una ipotesi di responsabilità per fatto proprio colpevole, con la conseguenza che, provato l’illecito, ricade
sull’ente l’onere di dimostrare di avere efficacemente adottato, prima della commissione del reato, modelli gestionali ed organizzativi idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, COGNOME, Rv. 261112 -01). Tale dimostrazione, nel caso di specie, non è stata allegata; al contrario, le due sentenze di merito hanno evidenziato, in maniera puntuale, che i vertici aziendali della società non hanno fornito la prova liberatoria di aver adottato ed efficacemente attuato i suddetti modelli (individuando le attività di possibile commissione degli illeciti penali, programmando la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire, individuando modalità di gestione delle risorse finanziarie, prevedendo obblighi di informazione dell’organismo di vigilanza), sicché non può esservi dubbio sul fatto che il primo presupposto della responsabilità dell’ente risulti integrato.
Accertate le carenze di prevenzione sul piano oggettivo, la Corte di appello ha correttamente esaminato il profilo della colpa di organizzazione dell’ente, alla stregua del principio giurisprudenziale secondo cui ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza od inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione della ‘colpa di organizzazione’, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo e che è distint a dalla colpa dei soggetti autori del reato (Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, Rv. 283247 -01).
Sul punto, la sentenza impugnata ha dato adeguato conto delle ragioni per le quali, condividendo la motivazione del tribunale, ha ritenuto sussistente la colpa di organizzazione in capo a RAGIONE_SOCIALE, sottolineando come essa derivi dal fatto che non solo la gestione della società era in concreto rimessa ad una sola persona, ossia Scarpino Marina, ma sull’operato di quest’ultima e, più in generale, di chi agiva in nome e per conto dell’ente era stata omessa qualsiasi forma di controllo.
In altri termini, l’a zione dei vertici aziendali è stato ritenuta del tutto priva di controlli atti a valutare l’esistenza di problematiche interne, con la conseguen te sussistenza, in capo a ll’ente , di uno specifico profilo di colpa, distinto da quello ascrivibile alle persone fisiche, e consistente nel «non avere predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevol e imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo» (Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, COGNOME, Rv. 247666 -01).
Infine, con motivazione congrua ed esente da vizi logici, la corte territoriale ha aderito all’argomentazione con cui il giudice di primo grado è giunto ad affermare la sussistenza del nesso eziologico tra le riscontrate carenze organizzative e il reato commesso dagli apicali, che costituisce l’ultimo
presupposto necessario della responsabilità da reato degli enti (sul punto, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, COGNOME, Rv. 281997).
In particolare, la sentenza del Tribunale ha evidenziato che l’assenza di qualsiasi controllo da parte di organismi interni o esterni, nonché la mancanza di controlli aziendali o di politiche di co-gestione dei rischi, sono elementi che non solo non hanno impedito la fraudolenta causazione di profitti, ma ne hanno addirittura aumentato il rischio di verificazione, sicché è possibile ritenere che, con responsabilità propria e distinta da quella delle persone fisiche, l’ente ha concretamente dato causa al verificarsi degli eventi delittuosi; invero, laddove la società si fosse dotata di un piano organizzativo di controllo idoneo a prevenire il c.d. crimine d’impresa, i soggetti apicali non sarebbero stati nelle condizioni di commettere i reati in contestazione, indipendentemente dalla natura -eccezionale o meno -dell’evento che l’ente si è trovato a dover fronteggiare.
All’evidenza infondato, oltre che reiterativo, risulta anche il secondo motivo di ricorso, concernente il preteso assorbimento del reato di cui al capo 5.1 in quello di cui al capo 2 dell’imputazione, e, conseguentemente, l’assorbimento dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25 -undecies , comma 2, lett. b), n. 3 in quello di cui al comma 2, lett. f) della medesima norma. In particolare, il difensore di PTIR, reiterando la censura proposta in grado di appello, ha sottolineato come la punizione in via autonoma del reato di cui al capo 5.1, specie dopo la sua riqualificazione nella fattispecie contravvenzionale di discarica abusiva prevista dall’art. 256 , comma 3, d. lgs. 152/2006, costituisca un’indebita duplicazione della punizione di una condotta il cui disvalore è già pienamente contenuto nel delitto contestato al capo 2, ossia nella fattispecie di gestione abusiva di rifiuti di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen.
La Corte di appello ha sul punto rilevato la diversità strutturale tra le due fattispecie, quella di discarica abusiva -così come riqualificato il reato sub 5.1 -e quella di cui all’art. 452 -quaterdecies cod. pen., richiamando la giurisprudenza di legittimità secondo cui la discarica è da intendersi come luogo in cui si verifica «l’accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta (anche se non abituale), in una determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo con carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato, con conseguente degrado, anche solo tendenziale, dello stato dei luoghi, ed essendo del tutto irrilevante la circostanza che manchino attività di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata» (Sez. 3, n. 17387 del 03/02/2021, Rv. 281070 -01; Sez. 3, n. 39027 del 20/04/2018, Rv. 273918 -01). Ha, quindi, richiamato gli elementi indicati dal tribunale (pag. 8 della sentenza di primo grado) -il deposito permanente di relitti accatastati uno sull’altro nei siti di Massa, Marina e Giugliano, accertato sia dalle immagini allegate
agli atti sia dalla descrizione dei luoghi contenuta nei verbali di sopralluogo; i frequenti e ripetuti viaggi di camion che scaricavano nei tre siti senza formulari; la significativa estensione delle aree prive di impermeabilizzazione del suolo e di alcuna autorizzazione a ricevere rifiuti speciali; il conseguente degrado delle aree, peraltro risultate sottoposte a vincoli urbanistici ed ambientali -che hanno consentito di concludere correttamente nel senso che la condotta tipizzata nell’art. 256, comma 3, d. lgs. 152/2006 («Attività di gestione di rifiuti non autorizzata») non possa essere ricompresa nella fattispecie delittuosa prevista dall’art. 452 -quaterdecies cod. pen. («Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti»), con conseguente impossibilità di ritenere il capo 5.1 assorbito nel capo 2.
Il terzo motivo di ricorso si incentra sulla questione della qualificazione quale ‘profitto del reato’, in quanto tale assoggettabile a confisca a norma degli artt. 9 e 19 d. lgs. 231/2001, del minor debito venutosi a creare nel patrimonio di PTIR per effetto della condotta ad essa contestata. In proposito, entrambe le pronunce di merito hanno sottolineato come, per effetto della scelta -operata da PTIR in persona dell’imputata COGNOME Marina di rifiutare le offerte delle ditte regolarmente autorizzate e di affidare invece l’attività di gestione dei rifiuti alla ditta RAGIONE_SOCIALE di Capuano Pasquale, priva di autorizzazioni, l’ente abbia conseguito un concreto e significativo vantaggio costituito dalla riduzione dei costi aziendali (i prezzi praticati dalle ditte concorrenti sono risultati sensibilmente più elevati sia a causa del rispetto della normativa ambientale internazionale vigente nello specifico settore marittimo, sia per le spese conseguenti al regolare trasporto dei relitti via mare previo noleggio di pontoni e rimorchiatori).
Tanto premesso, la qualificazione operata dal giudice di prime cure, e confermata dalla Corte di appello, del risparmio di spesa conseguito da PTIR in termini di ‘profitto’, assoggettabile dunque alla confisca di cui agli artt. 9 e 19 del d. lgs. n. 231/2001, deve ritenersi corretta, sulla base della consolidata giurisprudenza di legittimità in materia, in base alla quale «in tema di responsabilità amministrativa degli enti, i criteri di imputazione riferiti all’interesse e al vantaggio sono giuridicamente distinti, in quanto il primo è soggettivo, da valutare ‘ex ante’ e consistente nella proiezione finalistica volta a fare conseguire all’ente un potenziale profitto, indipendentemente dalla sua realizzazione, mentre il secondo è oggettivo, accertabile ‘ex post’ e consistente nel concreto vantaggio derivato all’ente dal reato» (Sez. 4, n. 22586 del 17/04/2024, Rv. 286586 -01, dove, in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto che costituisse un vantaggio per l’ente l’omessa formazione e informazione d ei dipendenti, traducendosi in un risparmio di spesa, sia in termini di mancata sopportazione dei relativi costi, sia per effetto della circostanza che i dipendenti, ove impegnati nella frequenza dei corsi, sono distolti dall’attività lavorativa; in senso conforme anche
Sez. 4, n. 38363 del 23/05/2018, Rv. 274320 -02; Sez. 4, n. 31210 del 19/05/2016, non mass.; Sez. 4, n. 2544 del 17/12/2015, dep. 2016, Rv. 268065 -01).
Da questo punto di vista, a nulla rileva la circostanza, posta a fondamento della censura difensiva, per cui, data la grave situazione debitoria in cui PTIR già versava all’epoca dell’esecuzione del sequestro preventivo, l’affidamento delle attività ad imprese non autorizzate non avrebbe comportato alcun effettivo accrescimento in termini positivi del suo patrimonio, ma tutt’al più la contrazione del debito. Sul punto il giudice di primo grado, in particolare, ha sottolineato che il concetto di ‘risparmio di spesa’ non è legato unicamente al denaro, in quanto PTIR, ricorrendo ad una filiera illecita di gestione dei rifiuti, ha conseguito un notevole risparmio anche in termini di tempo, posto che COGNOME NOME, grazie alla totale inosservanza delle norme volte a regolamentare il trattamento dei rifiuti, ha potuto operare in modo velocissimo, effettuando molteplici trasporti in poco tempo e stoccando le barche con estrema rapidità.
Tale conclusione è confermata dalla copiosa giurisprudenza esistente in materia e puntualmente richiamata nella pronuncia del Tribunale, in base alla quale il profitto «può consistere non soltanto in un ricavo patrimoniale, ma anche nel vantaggio conseguente dalla mera riduzione dei costi aziendali o nel rafforzamento di una posizione all’interno dell’azienda» (Sez. 3, n. 16056 del 28/02/2019, COGNOME, Rv. 275399 -01; in senso conforme: Sez. 3, n. 45598 del 6/10/2005, COGNOME, Rv. 232639 -01; Sez. 4, n. 28158 del 2/7/2007, P.M. in proc. Costa, Rv. 236907 -01; Sez. 3, n. 41310 dell’8/11/2006, COGNOME non mass.; Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, dep. 2006, COGNOME, Rv. 233293 -01).
Peraltro, come riconosciuto in particolare da Sez. 6, n. 3635 del 20/12/2013, dep. 2014, Riva Fi.re s.p.a., Rv. 257788 -01, il c.d. ‘risparmio di spesa’, in cui può consistere il vantaggio economico positivo di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, va inteso in senso relativo, ovvero come introito dal quale non siano stati detratti i costi che si sarebbero dovuti sostenere, e non in senso assoluto, cioè quale diminuzione o mancato aumento delle passività cui non corrispondano beni materialmente entrati nella sfera di titolarità del responsabile.
In altri termini, è proprio il minore esborso che l’ente ha dovuto sopportare grazie agli illeciti commessi da Capuano e dagli altri correi a costituire il ‘guadagno’ da esso effettivamente conseguito, che, peraltro, sul piano strettamente economico, ha consentito la riduzione dell’esposizione debitoria, sicché deve ritenersi immune da censure la ricostruzione, in fatto e in diritto, operata dai giudici di merito, rispetto alla quale la doglianza difensiva non introduce effettivi elementi di critica o di n ovità rispetto all’atto di appello .
Del tutto generico deve ritenersi anche il riferimento alle circostanze di fatto sulle quali la società ricorrente basa il proprio assunto difensivo (conti correnti -non meglio identificati, se non per la menzione della Banca sulla quale erano aperti -di cui PTIR era titolare all’epoca dell’esecuzione del decreto di sequestro preventivo; un ‘diverso conto’, anch’esso non meglio precisato, sul quale RAGIONE_SOCIALE eseguì il versamento che avrebbe reso possibile l’esecuzione del sequestro ).
8.2. Il ricorso della società in qualità di responsabile civile per il reato di truffa sub 10) commesso dalla dipendete COGNOME.
I due motivi di ricorso costituiscono reiterazione di censure proposte in appello e definite in termini corretti dalla corte territoriale.
Per ragioni sistematiche è opportuno esaminare il secondo motivo, relativo alla legittimità della costituzione della parte civile COGNOME in relazione al capo 10, sostenendo la difesa che la stessa sarebbe stata esclusa nel corso del dibattimento di primo grado.
La Corte di appello ha rilevato a riguardo (pag. 84) che la pronuncia di primo grado sia in parte motivo sia in dispositivo afferma in termini coerenti il diritto del COGNOME, costituitosi parte civile, al risarcimento del danno conseguente alla truffa commessa in suo danno dalla COGNOME, oltre che dal COGNOME; ha al contempo affermato la responsabilità civile della società RAGIONE_SOCIALE in relazione a tale danno, in ragione del rapporto con l’imputata, riconducibile a d una prestazione di servizi.
Confermando tale statuizione, il giudice di appello ha ribadito anche che COGNOME, al pari di tutti gli altri armatori, doveva ritenersi persona offesa, e, quindi, legittimato a costituirsi parte civile.
In effetti, la lettura del capo di imputazione sub 10 indica chiaramente gli armatori che avevano conferito mandato alla Ptir quali vittime di artifizi e raggiri, consistiti, per tutti -nella dolosa omissione della informazione di aver affidato le operazioni a società non iscritte nell’albo dei rifiuti e nella falsa rappresentazione di aver ricevuto l ‘autorizzazione della Capitaneria di Porto per tutta l’attività oggetto di incarico; per alcuni armat ori, in particolare, nell’invio di falsi certificati di smaltimento. L’elenco nominativo che segue (nel quale non è incluso il Negro ) non circoscrive, dunque – come sostenuto in ricorso -il numero delle persone offese ma rispetto ad alcune di esse specifica un ulteriore elemento della condotta delittuosa ( …’inviavano altresì agli armatori di seguito descritti’… ). Lo stesso dicasi per l’ultima parte del capo di imputazione, riferito ad alcuni armatori in particolare , vittime della medesima condotta decettiva (‘in tal modo inducevano in errore i seguenti armatori’).
Anche il primo motivo non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata che, con accertamento in fatto privo di salti logici e, in realtà, non oggetto sul punto di specifica contestazione, ha evidenziato il
pregiudizio economico derivante al COGNOME dalla truffa commessa in suo danno: a seguito dell’istruttoria espletata è stato accertato che, a distanza di cinque anni dai fatti e dal conferimento del mandato, la società RAGIONE_SOCIALE non aveva adempiuto all’obbligazione pattuita nei termini e nei tempi concordati, permanendo in capo all’armatore , in quanto produttore iniziale del rifiuto, i costi relativi allo smaltimento del relitto della barca; nessuna prova in senso contrario è stata fornita in appello.
La circostanza secondo cui il COGNOME, in seguito, avrebbe conferito altro mandato e che l’obbligazione sarebbe stata eseguita correttamente non solo presuppone un accertamento fattuale non consentito in sede di legittimità ma non esclude il pregiudizio accertato in sede di merito, anzi, lo presuppone, trattandosi di un fatto sopravvenuto all’inadempimento che, se ritenuto satisfattivo dal creditore, potrebbe semmai escludere l’esecuzione civilistica della condanna risarcitoria.
In definitiva, alla stregua delle argomentazioni che precedono, tutti i ricorsi -ad eccezione di quello di RAGIONE_SOCIALE devono essere dichiarati inammissibili, con condanna dei relativi ricorrenti , a norma dell’articolo 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di € 3.000,00 a titolo di sanzione pecuniaria .
COGNOME Pasquale, COGNOME COGNOME Marina e COGNOME Roberto sono altresì condannati alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della parte civile Regione Liguria, nella misura liquidata in dispositivo.
Nulla si provvede per le spese della parte civile COGNOME NOMECOGNOME in mancanza di richiesta di liquidazione.
P.T.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOMERAGIONE_SOCIALE NOME , relativamente alle statuizioni civili che elimina.
Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME Roberto, COGNOME NOME COGNOME, COGNOME NOME, nonchè della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, nella duplice qualità e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna, inoltre, i ricorrenti COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio della parte civile Regione Liguria che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
Nulla per la parte civile COGNOME NOME.
Così deciso in Roma il 26/03/2025