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Sfruttamento del lavoro: la Cassazione conferma condanne

Due soggetti sono stati condannati per lo sfruttamento del lavoro di cittadini stranieri, approfittando del loro stato di bisogno. La Corte di Cassazione ha dichiarato i ricorsi inammissibili, confermando le condanne. La sentenza chiarisce che lo ‘stato di bisogno’ non richiede indigenza assoluta, ma una condizione di grave difficoltà che limita la libertà di scelta del lavoratore, rendendo la condotta penalmente rilevante.

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Pubblicato il 17 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Sfruttamento del lavoro: La Cassazione definisce lo “stato di bisogno” e conferma le condanne

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 660 del 2024, ha affrontato un caso emblematico di sfruttamento del lavoro, confermando le condanne a carico di un imprenditore e del suo stretto collaboratore. La decisione è di particolare rilievo perché chiarisce i contorni del reato previsto dall’art. 603-bis del codice penale, soffermandosi in particolare sulla nozione di “stato di bisogno” e sul ruolo del concorrente nel reato.

I Fatti: Un sistema di subappalti e manodopera vulnerabile

Il caso riguarda una società operante in subappalto nel settore della rilegatoria. Il titolare, coadiuvato da un collaboratore che agiva come vero e proprio “caporale”, aveva messo in piedi un sistema di sfruttamento ai danni di una pluralità di cittadini stranieri, per lo più di origine pakistana e richiedenti asilo.

Le condizioni lavorative erano estremamente gravose:
* Retribuzione irrisoria: 4,00 euro l’ora, a fronte dei 7,50 euro previsti dal contratto collettivo.
* Precarietà assoluta: Lavoro discontinuo, senza garanzia di continuità.
* Orari disumani: Turni che potevano arrivare fino a 27 ore consecutive, senza riposi adeguati e senza coperture assicurative.
* Mancanza di tutele: Periodi di prova non retribuiti e violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro.

Gli imputati approfittavano della condizione di particolare vulnerabilità dei lavoratori, soggetti in stato di bisogno, bisognosi di ottenere un permesso di soggiorno e di procurarsi mezzi di sussistenza.

L’iter giudiziario e le censure degli imputati

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano condannato i due imputati, riconoscendo la loro piena responsabilità. In Cassazione, le difese hanno tentato di smontare l’impianto accusatorio. L’imprenditore ha sostenuto che la gestione dei lavoratori fosse in capo alla ditta appaltante e che i lavoratori avessero accettato spontaneamente le condizioni. Il collaboratore, dal canto suo, ha cercato di minimizzare il proprio ruolo, descrivendosi come un mero dipendente che eseguiva ordini, non un complice consapevole dello sfruttamento.

Le motivazioni della Cassazione sullo sfruttamento del lavoro

La Suprema Corte ha dichiarato entrambi i ricorsi inammissibili, ritenendoli infondati e, in parte, una mera riproposizione di argomenti già respinti nei gradi di merito. I giudici hanno colto l’occasione per ribadire alcuni principi fondamentali in materia.

Il principio di diritto sullo stato di bisogno

Il punto centrale della sentenza è la definizione dello stato di bisogno. La Corte ha chiarito che, ai fini della configurabilità del reato di sfruttamento del lavoro, non è necessario uno stato di necessità tale da annientare completamente la libertà di scelta della vittima. È sufficiente, invece, una “situazione di oggettiva difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose”.

Nel caso specifico, la condizione di richiedenti asilo, la recente immigrazione, la non conoscenza della lingua e la precarietà economica erano tutti elementi che integravano pienamente tale stato di bisogno.

La posizione del collaboratore nello sfruttamento del lavoro

La Cassazione ha respinto con forza la tesi difensiva del collaboratore. Anche se formalmente un dipendente, egli agiva come un vero e proprio “braccio destro” del datore di lavoro. Era lui a reclutare i lavoratori, a impartire ordini, a gestire i turni e, soprattutto, a tenere la contabilità illecita da cui emergeva lo sfruttamento. La sua partecipazione attiva e consapevole in tutte le fasi del reato è stata ritenuta sufficiente per affermare la sua responsabilità a titolo di concorso.

Le altre contestazioni: omissioni contributive e false dichiarazioni

All’imprenditore erano contestati anche reati di natura previdenziale. La difesa aveva sostenuto che, essendo la retribuzione pagata “in nero”, non potesse configurarsi il reato di omesso versamento delle ritenute. La Corte ha rigettato anche questa tesi, affermando che la prova dell’effettivo esborso di denaro, anche se illecito, fa sorgere l’obbligo di versare i contributi. La prova era stata fornita proprio dalla documentazione sequestrata nel computer del collaboratore.

le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su una rigorosa applicazione dei principi giuridici ai fatti accertati nei gradi di merito. I giudici hanno sottolineato come i ricorsi presentati non contestassero vizi di legittimità, ma tentassero di ottenere una nuova e inammissibile valutazione dei fatti. La decisione si basa sulla coerenza logica delle sentenze precedenti, che avevano correttamente identificato tutti gli elementi del reato di sfruttamento: l’approfittamento dello stato di bisogno, l’imposizione di condizioni lavorative degradanti e il ruolo attivo e consapevole di entrambi gli imputati nel sistema illecito. La Corte ha ribadito che la lotta allo sfruttamento del lavoro passa anche attraverso una corretta interpretazione delle norme, che devono tutelare i soggetti più deboli senza richiedere prove di una coercizione assoluta.

le conclusioni

Questa sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale cruciale per la tutela dei diritti dei lavoratori. Stabilendo una nozione ampia ma precisa di “stato di bisogno”, la Cassazione invia un messaggio chiaro: lo sfruttamento del lavoro è un reato che si concretizza ogni volta che si abusa della vulnerabilità di una persona per trarne un profitto ingiusto. La decisione rafforza gli strumenti di contrasto a queste pratiche odiose, affermando la responsabilità non solo dell’imprenditore ma anche di chi, pur in posizione formalmente subordinata, coopera attivamente alla perpetuazione dell’illecito.

Cosa si intende per ‘stato di bisogno’ nel reato di sfruttamento del lavoro?
Non è necessario uno stato di necessità assoluta che annulla ogni libertà di scelta. È sufficiente una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, che limita la volontà della vittima e la induce ad accettare condizioni lavorative particolarmente svantaggiose.

Un collaboratore che esegue gli ordini può essere condannato per sfruttamento del lavoro in concorso con il datore di lavoro?
Sì. La sentenza conferma che chi coopera attivamente in tutte le fasi del reato, come reclutare, gestire i lavoratori e tenere la contabilità illecita, è responsabile in concorso, anche se formalmente è un dipendente. Il suo ruolo attivo è determinante.

L’omesso versamento dei contributi è reato anche se la retribuzione è pagata ‘in nero’?
Sì. La Corte ha stabilito che il reato si configura anche in assenza di un esborso formale. La prova del pagamento effettivo della retribuzione, anche se in nero e inferiore ai minimi, è sufficiente a far sorgere l’obbligo di versare le ritenute previdenziali.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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