Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 17474 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 17474 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 08/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME NOME nato a Ragusa il 19/04/1994
NOME COGNOME nato a Bologna il 22/09/1995
COGNOME NOMECOGNOME nato a Olbia il 13/11/1996
COGNOME NOMECOGNOME nato a Treviso 1’11/10/1993
NOME COGNOME nato in Cina il 12/05/1991
COGNOME COGNOME nato a Cremona 1’8/12/1992
avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Bologna il 30/01/2024, visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta le note conclusionali del Pubblico Ministero, in persona del Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma di quella pronunciata dal Tribunale della stessa città il 14 dicembre 2021 nei confronti di NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME ha ridotto la pena inflitta a NOME COGNOME alla misura di mesi cinque di reclusione e ha riconosciuto a NOME COGNOME il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Ha confermato le ulteriori statuizioni della sentenza di primo grado con cui è stata disposta la condanna di:
NOME COGNOME per i reati di interruzione di pubblico servizio – esclusa l’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 340 cod. pen. – e violenza privata di cui al capo B);
NOME COGNOME alla pena di mesi sei di reclusione per il reato di resistenza aggravata ai sensi dell’art. 339 cod. pen., di cui al capo 3);
NOME COGNOME alla pena di mesi otto di reclusione per i reati di interruzione di pubblico servizio – esclusa l’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 340 cod. pen.- e violenza privata di cui al capo B) e resistenza aggravata di cui al capo 3);
NOME COGNOME alla pena di mesi nove di reclusione per i reati di interruzione di pubblico servizio – esclusa l’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 340 cod. pen.- di cui al capo B), e resistenza aggravata di cui ai capi D) e 3);
NOME COGNOME alla pena di mesi sei di reclusione per il reato di resistenza aggravata di cui al capo D);
NOME COGNOME alla pena di mesi sette di reclusione per i reati di danneggiamento di cui al capi E) – ritenuta l’ipotesi di cui all’art. 635, secondo comma, n. 3), cod. pen. – e di resistenza aggravata di cui al capo 3).
La vicenda processuale ha ad oggetto condotte tenute nell’ambito delle manifestazioni organizzate presso la mensa dell’Università degli Studi di Bologna dal Collettivo Universitario Autonomo, per protestare contro l’innalzamento del costo individuale del relativo servizio.
Hanno proposto ricorso gli imputati, con atto unico, deducendo i motivi di seguito sintetizzati.
2.1. Inosservanza o erronea applicazione di legge in rapporto all’art. 358 cod. pen. ed illogicità della motivazione relativamente alla configurabilità del reato di interruzione di pubblico servizio contestato al capo B) dell’imputazione.
L’attività di ristorazione svolta da RAGIONE_SOCIALE non può essere qualificata quale servizio pubblico per il solo fatto che la società ha stipulato il contratto di appalto per l’espletamento di tale servizio con l’Università degli Studi di Bologna. Trattandosi di attività non disciplinata da norme di diritto pubblico e svolta in forma imprenditoriale, pur se di particolare interesse per la Pubblica Amministrazione in quanto strettamente connessa con finalità di interesse collettivo, resta pur sempre un’attività di natura privatistica.
La Corte di appello ha erroneamente dato rilievo alla istituzione della mensa universitaria con legge regionale. Il Giudice amministrativo (v. Tar Friuli Venezia Giulia, sent. n. 366 del 28/11/2017) ha posto in evidenza come il servizio mensa – nella specie, scolastica – sia un servizio a pagamento, a domanda individuale, non obbligatorio nella sua istituzione e fruizione. Analoghe connotazioni devono riconoscersi alla mensa universitaria, trattandosi di un servizio facoltativo, a cui ciascun utente accede grazie alla esibizione del tesserino, e con erogazione di un corrispettivo, ancorché modesto; un servizio utile, dunque, ma non di pubblica necessità.
2.2. GLYPH Inosservanza o erronea applicazione di legge in rapporto agli artt. 110 e 610 cod. pen. ed illogicità della motivazione relativamente agli elementi costitutivi del reato di violenza privata contestato al capo B) dell’imputazione.
I ricorrenti COGNOME COGNOME e COGNOME sono stati ritenuti responsabili sebbene non siano state individuate condotte, agli stessi riferibili, idonee a comprimere il diritto degli altri studenti presenti alla manifestazione di determinarsi liberamente nel contesto.
Non è stato escusso alcuno degli utenti cui fu impedito l’accesso alla mensa, mentre le testimonianze de relato degli agenti di polizia giudiziaria COGNOME e COGNOME sono inesaustive al fine di ritenere che il c.d. “picchettaggio ostruzionistico” abbia indotto negli stessi una condizione di effettivo timore.
Il concorso nel reato, nella forma del mero rafforzamento dell’altrui proposito criminoso – ritenuto nelle conformi sentenze di merito – non esimeva i Giudici di merito dall’acquisire prova del contributo causale alla realizzazione collettiva prestato da ciascuno di essi, ai quali sarebbe al più ascrivibile una connivenza non punibile.
2.3. Illogicità della motivazione in relazione al contributo causale arrecato da COGNOME al reato di danneggiamento contestato al capo E) dell’imputazione. Travisamento della prova.
La responsabilità del ricorrente è stata dedotta dalle acquisite videoriprese e dalla testimonianza dell’agente di polizia giudiziaria COGNOME che ha dichiarato di averlo visto prendere un componente del telaio della porta antisfondamento; non vi è prova, tuttavia, che egli lo avesse anche staccato,
non essendovi correlazione alcuna tra tale condotta e la circostanza che, poco prima, egli fosse stato visto sferrare calci e pugni contro di essa. In ogni caso, non ha alcun riscontro nelle risultanze processuali il dato, riportato in sentenza, che la porta del Rettorato fosse integra prima dei fatti di causa.
2.4. GLYPH Inosservanza o erronea applicazione di legge in rapporto all’art. 393-bis cod. pen. ed illogicità della motivazione sulla non configurabilità della causa di non punibilità della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale.
Relativamente ai reati di resistenza ascritti ai capi D) e 3) dell’imputazione, la difesa lamenta l’arbitrarietà dell’azione dei pubblici agenti, in quanto, nelle quattro giornate di protesta, furono registrate cariche di alleggerimento all’indirizzo dei manifestanti, ancorché inermi.
Avrebbe dovuto essere valutata la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della esimente quantomeno in forma putativa, avuto riguardo alla ragionevole percezione da parte degli astanti delle dette cariche come espressioni di prepotenza e sopruso.
2.5. Inosservanza o erronea applicazione di legge in rapporto all’art. 339, comma 2, cod. pen., relativamente alla configurabilità dell’aggravante del numero degli agenti, in relazione al reato di resistenza di cui al capo D).
L’aggravante contestata postula non la mera presenza dei soggetti, in numero superiore a dieci, ma anche la partecipazione di costoro alla realizzazione collettiva, laddove i Giudici di merito hanno ritenuto integrata la circostanza sulla base delle videoriprese, dalle quali non è dato comprendere il contributo prestato da ciascuno alla fase ideativa o esecutiva del reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Va disposto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, limitatamente al capo B), nonché nei confronti di NOME COGNOME, limitatamente al capo E), perché i reati sono estinti per prescrizione.
Sono infondati gli ulteriori motivi di ricorso articolati nell’interesse d Sanna, Mussomeli e del Vallari, per i quali va rideterminata la pena finale, ed infondati sono altresì i ricorsi proposti da NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 358 cod. pen. in rapporto al reato di interruzione di pubblico servizio di cui all’art. 340 cod. pen., contestato sub capo B) ai ricorrenti Campailla, Sanna e Mussomeli.
Si deduce che non sia configurabile quale servizio pubblico l’attività di ristorazione svolta dall’impresa privata RAGIONE_SOCIALE, appaltatrice del servizio di mensa universitaria.
Il motivo è infondato.
Va premesso che, con la legge 26 aprile 1990, n. 86, nel ridefinire la qualifica soggettiva dell’incaricato di pubblico servizio, il legislatore ha privilegiato i criterio oggettivo-funzionale, inserendo nel corpo dell’art. 358 cod. pen. la locuzione «a qualunque titolo» ed eliminando ogni riferimento, contenuto invece nel testo previgente della disposizione, al rapporto d’impiego con lo Stato o altro ente pubblico (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835).
Il capoverso dell’art. 358 cod. pen. esplicita la nozione di servizio pubblico, ritenendo lo stesso formalmente omologo alla pubblica funzione di cui al precedente art. 357, ma caratterizzato dalla mancanza di poteri deliberativi, autoritativi o certificativi tipici di quest’ultima. Il parametro di delimitazio esterna del pubblico servizio è dunque identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica – dovendo l’attività essere “disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi” che vincola l’operatività dell’agente o ne disciplina la discrezionalità (secondo il c.d. criterio di disciplina) in coerenza con il principio di legalità, senza lasciar spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell’autonomia privata (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835). Dunque, oltre che per il requisito positivo, costituito dal regime giuridico, la nozione dell’incaricato di pubblico servizio si connota per il requisito negativo della assenza dei poteri della pubblica funzione e, infine, è delimitata verso il basso, essendo escluso che vi rientrino lo svolgimento di semplici mansioni di ordine e la prestazione d’opera meramente materiale.
Ne consegue che, agli effetti della legge penale, l’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio da parte dell’agente prescinde dalla circostanza che, ad erogarlo sia un soggetto pubblico o privato.
Coerentemente con tali basi ricostruttive, i Giudici di merito hanno spiegato le ragioni per cui la refezione universitaria vada, nel caso in esame, qualificata come servizio pubblico, ancorché avente natura complementare, valorizzandone la correlazione con la didattica degli atenei ed il diritto allo studio.
Specificamente, il servizio ristorativo di mensa in questione trova la sua fonte di previsione nella legge regionale Emilia Romagna 27 luglio 2007, n. 15, norma primaria regolante il sistema regionale integrato di interventi e servizi relativi al diritto allo studio universitario e all’alta formazione. A tale intervento normativo si deve l’istituzione della Azienda Regionale per il diritto agli studi superiori RAGIONE_SOCIALE, a cui è stata affidata istituzionalmente la gestione dei servizi ed
interventi stabiliti dalla medesima legge regionale. Tra questi, il servizio di refezione rientra tra le finalità istituzionali perseguite dalla società, che lo ha affidato con procedura ad evidenza pubblica alla società RAGIONE_SOCIALE
Da quanto precede discende che la struttura privatistica della società aggiudicataria – esercente attività di impresa per fili di lucro – non è ostativa alla qualificazione del servizio in termini pubblicistici, secondo il criterio oggettivo funzionale sopra richiamato, in quanto tale servizio è disciplinato da una regolamentazione pubblicistica in modo che sia espletato in modo conforme alle dette finalità istituzionali.
L’art. 16 della legge regionale cit. contempla specificamente il servizio di ristorazione, e ne definisce le direttrici, stabilendo che debba essere organizzato in modo da garantire la diffusione dell’offerta ed un’ampia gamma di tipologie ristorative e che debba essere improntato a criteri di economicità, mediante la partecipazione degli utenti al costo del servizio.
Secondo la medesima norma, grava sul concessionario l’obbligo di garantire, sotto la vigilanza dell’Università, la possibilità di fruizione all’intera colletti degli studenti ed utenti, con lo svolgimento dei relativi compiti di manutenzione, funzionalità, offerta di prestazioni principali ed efficienza nelle prestazioni accessorie, dovendo essere esercitato “nella prospettiva di una corretta attuazione del rapporto concessorio, il potere – dovere di esazione del prezzo dei pasti”.
Il regime dei prezzi è “amministrato”, in quanto gli stessi sono predeterminati in misura estremamente contenuta e, per gli utenti rientranti nelle categorie protette, in quanto in posizione di svantaggio, il servizio è gratuito.
Sebbene abbia la veste di una società per azioni di diritto privato, la società appaltatrice in discorso opera sotto il controllo e la vigilanza degli enti pubblici preposti ed in tal senso si è affermato nella sentenza impugnata che le prestazioni erogate in favore dell’utenza erano solo mediatamente rese dalla società privata appaltatrice, essendo in realtà riferibili alla società partecipata dalla Regione.
Dunque, nella specie il servizio è preordinato a dare migliore attuazione, al livello locale, al diritto agli studi (e ad accedere, in particolare ai più altri gra dell’istruzione), che trova il proprio sostrato costituzionale negli artt. 3, 34 117, ultimo comma, Cost.
Di diverso avviso rispetto alla pronuncia del Tribunale amministrativo regionale richiamata in ricorso, deve poi considerarsi che il Consiglio di Stato, con sentenza n. 7640 del 2 dicembre 2020, ha riconosciuto essere il servizio di mensa scolastica – in buona sostanza analogo a quello di mensa universitaria –
sulla base alle disposizioni vigenti, come strumentale all’attività scolastica e strettamente correlato al diritto all’istruzione.
Tanto premesso, avuto riguardo alla data del commesso reato, risalente al 19 ottobre 2016, e tenuto conto della entità della pena edittale, è decorso, alla data del 19 aprile 2024, ossia dopo la pronuncia della sentenza di appello, il termine massimo di prescrizione pari a sette anni e sei mesi, e non vi sono ragioni ostative al rilievo della causa estintiva.
Si ricorderà, come chiarito dalle Sezioni Unite, che l’art. 129 cod. proc. pen. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone, comunque, la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266818 01), e dunque una impugnazione non inammissibile in presenza della quale si forma il giudicato sulla pregressa pronuncia di condanna.
Ora, alla luce di quanto precede, non può dirsi che il ricorso, vertente sulla attribuzione della qualifica soggettiva di servizio pubblico al servizio di refezione della mensa universitaria sia manifestamente infondato, così da essere qualificato inammissibile, se non altro perché non si registrano precedenti specifici a favore della opzione interpretativa che il Collegio preferisce.
Questa Corte si è pronunciata, ma limitatamente al servizio di refezione scolastica, affermando che «sia che sia erogato in gestione diretta dall’Ente pubblico territorialmente competente o in gestione autonoma dalla scuola pubblica nell’esercizio della propria autonomia scolastica, costituisce sicuramente un servizio pubblico complementare, correlato alla presenza obbligatoria nei plessi scolastici per gli alunni impegnati nella didattica a tempo pieno» (Sez. 6, n. 16794 del 25/03/2021, Perfetto, Rv. 281090 – 01, in motivazione).
Non risultano sul punto necessari ulteriori approfondimenti in ordine ai rapporti tra azienda regionale partecipata e società appaltatrice. Come statuito da Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, COGNOME, Rv. 244273-244274-244275, nel definire i rapporti tra la declaratoria della causa di non punibilità della prescrizione, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., e la pronuncia assolutoria di cui all’art. 530, comma 2, cod. proc. pen. – qui invocata dal ricorrente – all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità. Non ricorrono, invero, le ipotesi derogatorie rispetto all’obbligo di immediate declaratoria della causa estintiva, enucleate nella medesima pronuncia nomofilattica, legate alla necessità di valutare, per la presenza della
parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, ovvero all infondatezza nel merito della impugnazione da parte del pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione in primo grado, ai sensi dell’art. 530, comma 2,cod. proc. pen.
Infine, fermi i limiti di applicabilità ratione temporis dell’art. 578-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 6 d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, in relazione alle misure ablative a matrice sanzionatoria, nemmeno sono adottate statuizioni di confisca.
Il secondo motivo è, almeno in parte, fondato e anche in relazione ad esso va dichiarata la prescrizione.
I Giudici di merito hanno richiamato l’indirizzo giurisprudenziale per cui, nel delitto di violenza privata, il requisito della violenza si identifica in qualsia mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione (Sez. 5, n. 3991 del 14/12/2022, dep. 31/01/2023, C., Rv. 283961 – 01; Sez. 5, n. 48369 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271267 – 01, per la quale integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che, nell’ambito di manifestazioni di protesta per l’esecuzione di un’opera pubblica, impedisce agli operai incaricati di svolgere i lavori previsti, frapponendosi all’accesso ai macchinari con comportamenti tali da bloccarne l’utilizzo da parte loro).
Nel caso qui in scrutinio, gli attivisti avrebbero impedito agli studenti di accedere alla mensa, sbarrandone i varchi di accesso.
Scrive la Corte territoriale che i contrasti fisici tra gli attivisti ed alcuni d utenti “ancorché individuali, avevano avuto l’effetto di rafforzare e attuare in modo più efficace il proposito condiviso di inibire l’accesso alla mensa, e al contempo, essi venivano realizzati da singoli autori, forti di poter contare sulla presenza di un ben più nutrito cordone di manifestanti pronto ad impedire l’accesso alla mensa a quanti non fossero stati dissuasi dall’impedimento per così dire preventivo attuato da taluni degli attivisti”. La sentenza prosegue descrivendo “condotte coralmente realizzate che si sono reciprocamente avvantaggiate sia da un punto di vista materiale che morale dell’ausilio apportato dagli altri compartecipi, i quali avevano mostrato incontrovertibilmente di aderire ad un unitario proposito criminoso”. Dunque, vi sarebbe stata da parte dei ricorrenti una interferenza sul processo formativo della volontà di coloro che alla protesta non aderirono, in cui i “litigi” rilevati dai testi sarebbero, a detta del difesa, dimostrativi della portata prevaricatrice del sit-in: ciò che, come rilevato dalla stessa Corte, integrerebbe una “causalità psichica c.d. da rafforzamento”.
La stessa Corte ha tuttavia rilevato che tale impostazione non permette di superare l’assenza di prova dell’effettiva incidenza del contributo causale di ciascuno.
A proposito del c.d. picchettaggio ostruzionistico, non può ignorarsi che, per un più risalente e tuttavia maggiormente persuasivo indirizzo giurisprudenziale, commettono il delitto di violenza privata gli scioperanti che, attuando il cosiddetto picchettaggio, manifestino la loro intenzione di impedire a chiunque l’accesso – nella specie, all’interno di uno stabilimento di proditione avvalendosi della barriera formata dai loro corpi e colpendo con calci e spinte coloro che si avvicinino per superare l’ostacolo (Sez. 5, n. 1979 del 30/12/1982, dep. 1983, COGNOME, Rv. 157792 – 01), essendo dunque necessario che l’azione costrittiva sia attuata in maniera ben più incisiva del mero impedire l’accesso, in esito ad un “litigio”, ovvero ad un confronto, pur acceso, con eventuali utenti dissenzienti rispetto alla manifestazione di protesta.
Sul punto la sentenza impugnata evidenza una carenza argomentativa.
Non sono state,invero y meglio riscontrate le deduzioni difensive sulla assenza di elementi per individuare condotte a base violenta, e non genericamente ostruzionistiche, riferibili non agli attivisti come corpo indifferenziato, ma agli odierni ricorrenti in danno di utenti della mensa, ovvero ad altri attivisti ma nella piena consapevolezza da parte dei ricorrenti.
La teste COGNOME ha confermato in termini abbastanza vaghi di avere visto studenti che, nel frangente, erano respinti anche fisicamente, senza indicare da quali dei ricorrenti, né ricostruire le dinamiche ostruzionistiche.
Anche sul punto si ravvisa, dunque, un deficit motivazionale.
In presenza di una causa di estinzione del reato, non sono tuttavia rilevabili in questa sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata posto che, come chiarito da Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, COGNOME Rv. 244275 – 01, il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere
immediatamente alla declaratoria della causa estintiva.
La declaratoria di estinzione del reato per prescrizione – essendo decorso il termine massimo, di sette anni e sei mesi, in data 19 aprile 2024, tenuto conto degli atti interruttivi – è destinata a prevalere anche in tal caso.
Il terzo motivo, afferente alla responsabilità del COGNOME in relazione al reato di danneggiamento commesso il 25 ottobre 2016, è in parte fondato.
Il fatto che la porta antisfondamento cui l’addebito si riferisce non presentasse danni prima del sopraggiungere dei manifestanti è, all’evidenza, un presupposto logico dell’argomentare e, peraltro, non emerge alcun travisamento di dati fattuali, atteso che la porta è risultata danneggiata in quel frangente (come
risulta dalla denuncia sporta dai vertici dell’Ateneo).
Quanto alla condotta del ricorrente, il teste COGNOME ha riferito – ma in termini dubitativi – che COGNOME aveva dato un pugno alla porta e che nella specie egli ne
“prendeva” l’infisso; ha poi precisato che, in una fase precedente, altri correi avevano sferrato calci e gomitate contro la porta, della quale erano stati infranti tre pannelli di vetro.
La responsabilità del ricorrente è stata affermata in termini del tutto generici sul duplice presupposto che la condotta di COGNOME si sia inserita in un’azione collettiva e che non possa rilevare che egli abbia materialmente divelto il montante di essa.
Anche in tal caso, si tratta, all’evidenza, di una motivazione carente – ancorché non illogica – posto che non sono riscontrate in modo adeguato le critiche difensive sulla necessità di precisare l’entità del contributo arrecato dal ricorrente all’azione vandalica.
Come rilevato al paragrafo che precede, non potrebbe tuttavia disporsi l’annullamento, in forza dei principi affermati da Sez. U COGNOME, mentre deve prevalere la causa estintiva del reato, che nella specie è maturata in data 25 aprile 2024, tenuto conto del termine prescrizionale di sette anni e sei mesi e degli atti interruttivi.
E’ inammissibile, perché manifestamente infondato, il quarto motivo di ricorso, relativo alla scriminante della reazione arbitraria agli atti del pubblico ufficiale, la cui applicazione è invocata dalla difesa quantomeno in forma putativa.
La Corte di appello ha chiarito, con motivazione congrua e coerente, che:
erano in corso trattative non generiche del collettivo con i manifestanti, inidonee ad indurre in errore circa l’arbitrarietà della presenza di un presidio in assetto antisommossa;
che, secondo la corretta scansione ricostruita alla stregua delle risultanze istruttorie, le cariche di alleggerimento della polizia si verificavano, ma in conseguenza ai tentativi di sfondamento da parte degli attivisti del CUA, ovvero, nel caso delle seconde cariche di alleggerimento, in conseguenza del lancio generalizzato di oggetti contendenti in direzione delle forze dell’ordine.
Dunque le condotte di resistenza degli imputati, di tenore oppositivo e non reattivo, avevano preceduto cronologicamente la reazione delle forze di polizia, costituendo l’antecedente causale delle cariche di alleggerimento intentate per respingere i manifestanti, i quali erano intenzionati a superare la barriera costituita dal contingente schierato a protezione dell’accesso alla mensa.
Ciò si era verificato nelle giornate del 25 e del 26 ottobre 2016, mentre, negli altri casi, la carica di alleggerimento era stata determinata dal lancio di oggetti contundenti all’indirizzo delle Forze dell’ordine.
Dunque, non sussistono i presupposti per ritenere che le condotte attuate dagli imputati possano essere conseguenza delle cariche della polizia, quand’anche si fosse trattato – e non vi è prova al riguardo – di cariche arbitrarie.
Ogni altra censura svolta al riguardo sollecita una alternativa e non consentita lettura dei fatti, travalicando i limiti ontologici del sindacato della Corte d cassazione, il cui compito non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, attraverso una diversa lettura, benché anch’essa logica, dei dati processuali od una diversa ricostruzione storica dei fatti o, ancora, un diverso giudizio di rilevanza o di attendibilità delle fonti di prova, bensì quello di stabilire se quei giudici abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944 nonché in precedenza Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428).
6. Il quinto motivo è infondato.
La sentenza impugnata ha coerentemente spiegato, con ampi riferimenti alla nozione di concorso nel reato, la ricorrenza dei presupposti dell’aggravante del numero superiore a dieci persone.
Per giurisprudenza consolidata, integra, difatti, il concorso morale nel reato di resistenza a pubblico ufficiale la condotta di colui che, assistendo ad una resistenza attiva posta in essere con violenza nei confronti di un pubblico ufficiale da altro soggetto con il quale partecipi ad una comune manifestazione collettiva, rafforzi l’altrui azione offensiva o ne aggravi gli effetti mettendo in discussione il corretto operato delle forze dell’ordine. La prova della partecipazione, anche nella forma del mero rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, presuppone in tale evenienza l’accertamento della presenza del singolo imputato nel contesto spazio-temporale durante il quale i reati sono stati realizzati (Cass., sez. 6, n. 54424 del 27/04/2018, Rv. 274680 – 04).
La Corte di merito ha messo in evidenza che, fermo restando che la c.d. causalità psichica “da rafforzamento” non permette di superare l’eventuale assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato, dovuta, ad esempio, alla difficoltà di ricostruzione del fatto, non può nondimeno ignorarsi la portata dell’apporto morale sotto forma di approvazione e rafforzamento dell’altrui proposito (cfr. anche Sez. 6, n. 13160 del 05/03/2020, COGNOME, Rv. 279030; Sez. 6, n. 18485 dei 27/04/2012, Carta, Rv. 252690; Sez. 6, n. 40504 del 26/05/2009, COGNOME, Rv. 245011).
Nel caso di specie, gli imputati agirono certamente di concerto con un gran numero di persone, superiore alla decina (circa settanta, come
si evince dalla visione dei filmati relativi). I manifestanti fronteggiarono in maniera ostile le
forze dell’ordine, con atteggiamento di sostegno dell’azione posta in essere dagli odierni ricorrenti, i quali ultimi erano parte del gruppo di soggetti che con calci e
pugni aggredirono le forze dell’ordine, ovvero si diedero al lancio di una transenna e di oggetti contundenti ai danni delle stesse per forzare il contingente
postosi a presidio dell’accesso alla mensa, con condotta, descritta per ciascuno, alle pag. 30 e ss. della sentenza, la cui materialità non è stata nemmeno posta
in discussione negli atti di appello.
7. Si impone, all’esito, la rideterminazione della pena nei confronti dei ricorrenti nei cui confronti vi è stato parziale annullamento, scorporando le
frazioni in aumento sulla pena base, applicate a titolo di continuazione per i reati che sono stati dichiarati estinti per prescrizione.
La pena finale risulta conclusivamente rideterminata in mesi sei di reclusione, quanto a Sanna e a Vallari, e in mesi sette di reclusione, quanto a Mussomeli.
All’integrale rigetto dei ricorsi nei confronti di COGNOME e COGNOME consegue la condanna al pagamento delle spese processuali, a norma dell’art. 616 cod. proc pen.
PQM
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME limitatamente al capo B, nonché nei confronti di COGNOME NOME limitatamente al capo E, perché i reati sono estinti per prescrizione. Rigetta nel resto i ricorsi del COGNOME, del Mussomeli e del Vallari, per i quali ridetermina la pena finale in mesi sei di reclusione per il Sanna e per il Vallari, e in mesi sette di reclusione per il Mussomeli. Rigetta i ricorsi di COGNOME e NOME COGNOME Alberi che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così decis I’ 8 gennaio 2025
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