Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 37222 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 37222 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nato a Genova il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 23/05/2025 del Tribunale di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso; lette le conclusioni scritte del difensore del ricorrente, AVV_NOTAIO, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con atto del proprio difensore, NOME COGNOME, indagato per í delitti di cui agli artt. 73, d.P.R. n. 309 del 1990, e 648, cod. pen., impugna l’ordinanza del Tribunale di Milano in epigrafe indicata, che ha respinto la sua istanza di riesame avverso il decreto del Pubblico ministero che ha convalidato il sequestro probatorio di due smartphone, operato dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa.
Il ricorso propone essenzialmente due censure.
2.1. La prima consiste nella inutilizzabilità dei messaggi e delle fotografie rinvenute dalla polizia giudiziaria nei telefoni dell’indagato, in quanto da essa acquisiti, o comunque visionati, senza la necessaria autorizzazione del Pubblico ministero, trattandosi di corrispondenza e non di documenti (si richiama, a sostegno, quanto statuito dalla Corte cost. con sentenza n. 170 del 2023 e da alcune pronunce di questa Corte ad essa successive).
Il Tribunale ha respinto la relativa eccezione, rilevando che la polizia giudiziaria, nelle proprie annotazioni e comunicazioni, si sarebbe limitata a dar atto di quanto percepito, alla costante presenza dell’indagato e dopo che questi aveva interloquito con il proprio difensore.
Replica il ricorso: che la polizia giudiziaria in nessuno caso può accedere al contenuto di tali dispositivi, senza l’autorizzazione del Pubblico ministero; che non vi erano ragioni d’urgenza, per lo meno verificabili, essendo la polizia intervenuta su segnalazione anonima; che la presenza dell’indagato non può di per sé valere come consenso all’accesso ai telefoni, del quale, in effetti, neppure gli operanti danno atto; che i dati rinvenuti all’interno dei telefoni sono indicati in modo solamente generico negli atti di polizia giudiziaria, venendo definiti dallo stesso Tribunale come «non meglio precisati elementi investigativi» e, in quanto tali, non sufficienti a consentire all’indagato di articolare adeguate difese; che, in ogni caso, la polizia giudiziaria non può riferire su elementi conosciuti in violazione di legge.
2.2. La seconda doglianza riguarda l’assenza del cd. “fumus commissi delicti”. Esclusi i contenuti rinvenuti all’interno dei telefoni, poiché inutilizzabili per ragioni anzidette, gli ulteriori elementi valorizzati dal Tribunale sotto il profilo esame non sarebbero sufficienti.
I cani “anti-droga”, infatti, sono addestrati a fiutare la presenza non solo di stupefacenti ma anche di altre cose, come la banconote, in effetti rinvenute; la somma di denaro custodita nella cassaforte dell’indagato è stata dissequestrata e restituita dallo stesso Tribunale, con il medesimo provvedimento oggetto di ricorso, ed altro giudice non ne ha convalidato il sequestro preventivo d’urgenza disposto dal Pubblico ministero con separato e successivo decreto; nel relativo provvedimento, inoltre, quel giudice ha ritenuto prive di sufficiente valenza indiziante le fotografie ritraenti quantitativi di stupefacenti, rinvenute nel telefon del COGNOME.
Ha depositato la propria requisitoria scritta il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, chiedendo di rigettare il ricorso, in quanto: gli operatori di polizia non avrebbero acquisito il contenuto dei telefoni, ma si sarebbero limitati a conoscerlo ed a riferirne all’autorità giudiziaria; quest’ultima ha ritualmente convalidato i sequestro, legittimamente compiuto in condizioni di urgenza; la difesa non spiega
perché, quand’anche si volesse ritenere inutilizzabile tale materiale, verrebbe meno il “fumus” dei reati; infine, sotto quest’ultimo profilo, la difesa lamenta al più vizi di motivazione, essendo il ricorso per cassazione consentito, invece, in questa materia, solo per violazione di legge.
Ha depositato memoria di replica la difesa ricorrente, rilevando: che la polizia giudiziaria non si è limitata a prendere atto del contenuto dei telefoni, ma ha fatto accesso agli stessi, senza il consenso dell’indagato; che l’art. 254, comma 2, cod. proc. pen., prevede che, nel caso in cui proceda al sequestro di corrispondenza, la polizia giudiziaria non possa prenderne conoscenza, ma debba limitarsi a trasmetterli all’autorità giudiziaria; e che, infine, non è vero che il ricors non si sia impegnato nella c.d. “prova di resistenza”, avendo, invece, specificamente indicato perché gli elementi diversi da quelli ricavati dagli smartphone non siano sufficienti, non essendo stati ritenuti tali nemmeno dai giudici intervenuti a vario titolo nella vicenda.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Si legge espressamente nell’ordinanza (pag. 6) che il sequestro probatorio compiuto dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa è stato convalidato dal Pubblico ministero, a norma dell’art. 355, cod. proc. pen., ed il ricorso nulla replica sul punto. Di conseguenza, il contenuto di quei dispositivi è stato ritualmente acquisito al procedimento.
Non propriamente pertinenti sono i richiami difensivi di alcuni precedenti costituzionali e di legittimità, che sono intervenuti, piuttosto, sulla questione se i messaggi telefonici avessero natura di semplici “documenti” e, in quanto tali, fossero liberamente acquisibili dalla polizia giudiziaria, senza alcun controllo dell’autorità giudiziaria inquirente, ed hanno censurato la tesi affermativa, in passato affermatasi anche nella giurisprudenza di questa Corte.
A margine, peraltro, deve osservarsi che, se la natura di “corrispondenza” va indubbiamente riconosciuta alla messaggistica telefonica, altrettanto non può dirsi per le immagini fotografiche che – stando all’ordinanza – sarebbero state rinvenute nella “galleria” del telefono e che non hanno formato oggetto di comunicazione: e, sulla decisività di esse, ai fini del giudizio di gravità indiziaria, il ric praticamente non dice nulla.
Il secondo motivo, in tema di “fumus commissi delicti”, così com’è stato articolato, non è consentito, poiché deduce essenzialmente un vizio della
motivazione, in una materia – quella delle misure cautelari reali – in cui si può adire il giudice di legittimità solo qualora si lamenti una violazione di legge (art. 325, comma 1, cod. proc. pen.).
Su tale profilo, i dati di fatto valorizzati dall’ordinanza sono, in sintesi: a) la presenza nel telefono dell’indagato di numerose foto di stupefacenti e di plurimi messaggi relativi a consegne di denaro non giustificate; b) il rinvenimento nella sua cassaforte di oltre 35.000 euro in contanti, anche questi non giustificati; c) la presenza, ancorché non attuale, di sostanza stupefacente nella sua abitazione, desunta dal comportamento dei cani anti-droga; d) la presenza di precedenti specifici a suo carico.
Si tratta di elementi certi nell’an e logicamente congruenti con l’ipotesi d’accusa, e dunque di una motivazione non manifestamente illogica, ma anzi decisamente plausibile e, comunque, effettiva e non semplicemente apparente, soltanto in quest’ultimo caso potendosi ravvisare una violazione di legge: la motivazione apparente, infatti, è solamente quella affetta da vizi così radicali, da rendere l’apparato argomentativo, anche quando non del tutto mancante, comunque privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (per tutte, Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, COGNOME, Rv. 239692).
Né può ravvisarsi la rappresentata contraddizione interna con la determinazione dello stesso Tribunale di revocare il sequestro delle somme di denaro rinvenute, la quale è stata adottata non per il difetto di un sufficiente quadro indiziario, bensì per la mancanza di esigenze probatorie; così come, per altro verso, non può essere di per sé condizionante il differente giudizio di un diverso giudice all’interno di un distinto incidente cautelare.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2025.