Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 33871 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 33871 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 31/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME, nata ad Agropoli il DATA_NASCITA avverso l’ordinanza del 22/01/2024 della Tribunale di Salerno visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del pubblico ministero, in persona del AVV_NOTAIO, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del d.l. n. 137 del 2020, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 22 gennaio 2024, il Tribunale di Salerno ha rigettato l’appello cautelare avverso l’ordinanza del Gip del Tribunale di Salerno del 8 maggio 2023, con la quale era stata rigettata l’istanza della terza interessata NOME, diretta alla restituzione della somma di euro 53.500,00, oggetto di sequestro con provvedimento del 23 febbraio 2021, con il quale lo stesso Gip del Tribunale di Salerno aveva disposto il sequestro preventivo, in forma diretta e per equivalente, per la somma di euro 1.073.327,09 e, in caso di esito
negativo, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente dei beni nella disponibilità di NOME COGNOME, in relazione al reato di cui all’art. 4, del d.lgs. n. del 2000. Tal reato è contestato all’indagato, per avere, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in relazione al periodo di imposta 2018, nella dichiarazione annuale relativa a tali imposte, indicati elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo. In esecuzione del provvedimento, venivano sequestrati i saldi dei conti correnti intestati alla società RAGIONE_SOCIALE e a NOME COGNOME, oltre alle somme giacenti su carte prepagate, libretti di deposito e buoni postali fruttiferi, sette veicoli tutti in all’indagato, nonché le quote delle società RAGIONE_SOCIALE e della società RAGIONE_SOCIALE In particolare, il provvedimento veniva eseguito insieme al decreto di perquisizione e sequestro adottato dal pubblico ministero, presso l’abitazione occupata da NOME COGNOME e dalla figlia, NOME NOME, ove venivano rinvenuti numerosi assegni all’interno della cassaforte a muro posta al piano garage, insieme alla somma di euro 53.500,00, suddivisa in diversi blocchi, e due orologi.
2. Avverso l’ordinanza ha presentato ricorso per cassazione il difensore di fiducia di NOME, lamentando l’apparenza della motivazione del provvedimento. Secondo la difesa, il rigetto della richiesta restitutoria è fondato sul rilievo della non estraneità della ricorrente rispetto al fatto, anche se l’uni indagato, e successivamente imputato nel procedimento in esame, è NOME COGNOME, essendo rimasta indimostrata e neppure ipotizzata dall’accusa, la responsabilità penale di NOME. Tale giustificazione sarebbe diversa da quella precedentemente fornita dal Tribunale del riesame di Salerno, nell’ambito dello stesso procedimento, secondo cui la somma sequestrata, custodita nella cassaforte presso l’abitazione serviva a pagare i conti in rosso della RAGIONE_SOCIALE, facente capo a NOME COGNOME, e che risultava smentita dalle deduzioni difensive secondo cui: 1) la cassaforte era ad uso promiscuo; , 2) le chiavi erano possedute da NOME; 3) la somma sequestrata corrispondeva alla differenza tra le entrate e le uscite di impresa facente capo a NOME; 4) la stessa somma era macroscopicamente inferiore a quella occorrente per saldare i conti della RAGIONE_SOCIALE. L’ordinanza impugnata avrebbe mutato impianto argomentativo, constatando la mancata estraneità di NOME alla RAGIONE_SOCIALE, in quanto amministratrice unica della società RAGIONE_SOCIALE, che detiene una partecipazione del 50% nella RAGIONE_SOCIALE, la quale partecipa a sua volta al 60% alla RAGIONE_SOCIALE; premessa contrastata dall’appello cautelare, che evidenziava come, in realtà, le quote della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE fossero riferibili ad altri soggetti, e che comunque, essendo il sequestro operato per equivalente, non si
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sarebbe dovuto tenere conto della compagine societaria al momento della violazione, ma solo del modo in cui si sarebbe creata la provvista contante al momento del sequestro. Si assisterebbe così, ad un ulteriore mutamento dell’impianto argomentativo con cui il giudice del provvedimento impugnato rigetta la richiesta di restituzione reputando che il sequestro vada mantenuto per «l’assenza di dimostrazione difensiva dell’inesistenza di collegamento concorsuale della istante con l’odierno indagato». Lamenta perciò il difensore l’apparenza di tale argomentazione, rilevando che: 1) imputato nel procedimento penale è solamente NOME; 2) non può dedursi la partecipazione di NOME dal possesso di una partecipazione minima nella RAGIONE_SOCIALE; 3) si inferisce impropriamente la partecipazione nel reato dalla promiscuità dei beni e viceversa, secondo uno schema circolare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
In proposito, merita richiamare il principio giurisprudenziale secondo cui, in tema di sequestro preventivo, il terzo che affermi di avere diritto alla restituzione della cosa sequestrata, non può contestare l’esistenza dei presupposti della misura cautelare, potendo unicamente dedurre la propria effettiva titolarità o disponibilità del bene sequestrato e l’inesistenza di relazioni di collegamento concorsuale con l’indagato (ex multis, Sez. 3, n. 23713 del 23/04/2024, Rv. 286439; Sez. 3, n. 36347, del 11/07/2019, Rv. 276700). Il terzo, in altre parole, non potrebbe, invece, ottenere soddisfazione della propria pretesa restituitoria contestando i presupposti del sequestro disposto nei confronti dell’indagato, in quanto i beni tornerebbero a quest’ultimo.
1.1. Venendo al caso in esame, si riscontra che le questioni proposte con il ricorso, risultano già correttamente affrontate dal giudice dell’appello cautelare. Al riguardo, questi ha ribadito che il mutamento della compagine societaria non era sufficiente a provare l’assenza di un collegamento tra la somma, oggetto di ablazione, ed il reato: infatti si riteneva centrale la constatazione che la RAGIONE_SOCIALE, facente capo alla ricorrente, in veste di socio unico e amministratore, aveva sede presso l’immobile ove era collocata la cassaforte, ove aveva sede secondaria la RAGIONE_SOCIALE, facente capo a NOME COGNOME, e che nella menzionata cassaforte non era presente solo la somma in questione, ma anche cambiali e assegni relativi alla seconda società. Da ciò si era correttamente dedotto l’uso promiscuo di tale cassaforte, e altrettanto correttamente si era negata la tesi che la somma di danaro ivi contenuta potesse attribuirsi con certezza alla ricorrente.
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Inoltre, il giudice dell’appello cautelare ha evidenziato l’irrilevanza de mutamento delle compagini societarie delle società partecipate della RAGIONE_SOCIALE invece valorizzato dalla difesa – in quanto questo sarebbe intervenuto il 3 dicembre 2019, ovvero in epoca successiva al reato, commesso nell’anno di imposta 2018: in epoca in cui la RAGIONE_SOCIALE era partecipata dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla RAGIONE_SOCIALE, entrambe riferibili a NOME (in particolare la RAGIONE_SOCIALE aveva due soci: la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE, la prima partecipata da NOME e la seconda da NOME.). Così si confermava, correttamente, la presenza di una commistione societaria, che, unita alla promiscuità della sede e dell’uso della cassaforte, rendeva logicamente ancor meno credibile la titolarità esclusiva della somma in capo alla ricorrente.
1.2. La consistenza di tali argomenti non risulta scalfita dai rilievi difensiv In primo luogo, non è dato ravvisare alcun mutamento di argomentazione, quale quello prospettato dalla difesa, nelle risposte fornite nella precedente fase di riesame, in quanto tutte si sono correttamente basate sulla ritenuta promiscuità di beni, luoghi in cui essi venivano gestiti, e partecipazioni societarie, tra NOME COGNOME e NOME. Né tale rilievo è il frutto di un ragionamento circolare, riferibile alla tesi di una partecipazione concorsuale. Semplicemente, una volta riscontrata la promiscuità di beni, e l’assenza di una prova contraria in tal senso, si è correttamente preso atto che i danari, la sede d’impresa, e le partecipazioni della ricorrente erano visibilmente prossime a quelle del NOME COGNOME, permettendo di ritenere altamente probabile – secondo lo standard indiziario proprio della fase cautelare – un collegamento con il reato di questi. Nessuna circolarità argomentativa, dunque, poiché l’eventuale partecipazione della ricorrente, alla quale fa riferimento il giudice dell’appello cautelare, si lasc logicamente spiegare come la conseguenza lineare di una situazione di promiscuità. Poco importa, inoltre, che NOME COGNOME risulti attualmente unico imputato nel procedimento penale per il reato, poiché ciò non esclude tout court, l’esistenza di un eventuale collegamento concorsuale, che ancora potrebbe essere apprezzato. Si tratta, in ogni caso, di rilievi certamente non apparenti, la cui critica è preclusa in questa sede dall’art. 325, comma 1, cod. proc. pen. Infatti, il ricorso per cassazione è ammesso, ai sensi di tale disposizione, soltanto per violazione di legge e che in tale nozione vengono compresi sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione che siano così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico Corte di Cassazione – copia non ufficiale
seguito dal giudice (ex plurimis, Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269656; Sez. U. n. 25932 del 29/05/2008, Rv. 239692).
Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00.
P.Q.M.
24.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna/ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 31/05/2024