Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 19695 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 19695 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI
ROMA nel procedimento a carico di: NOMECOGNOME nata a Roma il 08/09/1984 NOME COGNOME nato a Catania il 24/08/1978 COGNOME NOMECOGNOME nato in Albania il 27/04/1984 NOME COGNOME nato a Catania il 18/08/1958 NOMECOGNOME nato a Roma 05/01/1989 NOMECOGNOME nato a Catania il 20/02/1958 NOME COGNOME nato a Roma il 16/01/1960 NOMECOGNOME nato a Roma il 18/07/1977 NOME COGNOME nato a Catania il 13/02/1952 NOMECOGNOME nata a Roma 06/09/1979 NOMECOGNOME nato a Roma il 09/07/1955 COGNOME NOMECOGNOME nato a Villabate il 01/01/1936 NOMECOGNOME nato a Catania il 16/03/1976 COGNOME nato Sezze il 12/10/1956 COGNOME NOMECOGNOME nato a Roma il 02/10/1974 COGNOME NOMECOGNOME nato a Roma il 31/05/1954 COGNOME NOMECOGNOME nato a Roma il 29/07/1966
nonché sui ricorsi proposti da:
NOMECOGNOME nata a Roma il 08/09/1984 NOME COGNOME nato a Catania il 24/08/1978
NOME nato in Albania il 27/04/1984 NOME COGNOME nato a Catania il 18/08/1958 NOMECOGNOME nato a Roma 05/01/1989 NOMECOGNOME nato a Catania il 20/02/1958 NOME COGNOME nato a Roma il 16/01/1960 NOMECOGNOME nato a Roma il 18/07/1977
avverso la sentenza del 07/07/2023 della Corte d’appello di Roma.
Esaminati gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME la quale ha concluso: per raccoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma; quanto al ricorso di COGNOME NOME per l’annullamento con rinvio con riferimento al trattamento sanzionatorio (motivi II e III di ricorso); quanto al ricorso di COGNOME NOME per l’annullamento senza rinvio per il II motivo di ricorso e per l’accoglimento del III motivo di ricorso con riferimento alla recidiva; quanto al ricorso di COGNOME per l’accoglimento del III e del IX motivo di ricorso, con annullamento con rinvio; quanto al ricorso di COGNOME COGNOME per l’inammissibilità del ricorso; quanto al ricorso di COGNOME per l’annullamento senza rinvio (motivo IV – V – VI di ricorso); quanto al ricorso di COGNOME per l’annullamento con rinvio; quanto al ricorso di COGNOME per l’annullamento senza rinvio (motivo IV di ricorso); quanto al ricorso di COGNOME per l’accoglimento del I motivo, con annullamento senza rinvio;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa del Comune di Pomezia, il quale, dopo la discussione, ha chiesto l’accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma con riferimento alle statuizioni civili e ha depositato conclusioni scritte e nota spese;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di Del Fiume Marco, il quale, dopo la discussione, ha chiesto il rigetto del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma;
udita l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME la quale, dopo la discussione, ha chiesto il rigetto del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME il quale, dopo la discussione, ha chiesto il rigetto del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME COGNOME il quale, dopo la discussione, ha chiesto il rigetto del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma;
udita l’Avv. NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME la quale, dopo la discussione, ha insistito per l’inammissibilità del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma perché tardivo e ha chiesto l’accoglimento del ricorso dell’imputato con l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME NOME e di COGNOME NOME, il quale ha chiesto che il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma sia dichiarato inammissibile perché tardivo, o, in via subordinata, sia rigettato perché infondato, nonché l’accoglimento dei ricorsi presentati dagli imputati;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME il quale, dopo la discussione, ha chiesto che il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma sia dichiarato inammissibile;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME Salvatore e di COGNOME NOMECOGNOME il quale ha insistito per l’inammissibilità del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma e, dopo la discussione, quanto a COGNOME Salvatore, ha concluso per l’annullamento senza rinvio con determinazione della pena e, quanto a COGNOME NOMECOGNOME per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME NOME e di COGNOME NOMECOGNOME il quale ha dedotto l’inammissibilità per tardività del ricorso de Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma e, dopo la discussione, si è riportato ai motivi dei ricorsi degli imputati e alle conclusio del codifensore e del Procuratore Generale;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME il quale dopo la discussione, ha chiesto il rigetto del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME il quale, dopo la discussione, ha insistito per l’inammissibilità del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma e ha chiesto l’accoglimento del ricorso dell’imputato;
udita l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME COGNOME la quale, dopo la discussione, ha chiesto l’accoglimento del ricorso dell’imputato e la sua assoluzione;
udita l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME COGNOME la quale, dopo la discussione, ha concluso per l’accoglimento del ricorso dell’imputato e per il conseguente annullamento della sentenza impugnata;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME il quale, dopo la discussione, ha insistito per l’accoglimento del ricorso dell’imputato e ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME COGNOME il quale, dopo la discussione, ha chiesto che il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 07/07/2023, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del 10-11/11/2021 del Tribunale di Velletri:
quanto all’imputata NOME COGNOME:
a.1.) la assolveva dai reati di:
a.1.1.) associazione di tipo mafioso, nella veste di partecipe, di cui al capo 1 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
a.1.2.) estorsione in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
a.2) confermava la sua condanna per i reati di:
a.2.1) tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni dei fratelli COGNOME di cui al capo 5 dell’imputazione;
a.2.2) danneggiamento seguito da incendio in concorso (sempre con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni sempre dei fratelli COGNOME di cui al capo 6 dell’imputazione;
a.3) rideterminava in quattro anni e tre mesi di reclusione ed C 600,00 di multa la pena per tali due reati, unificati dal vincolo della continuazione;
quanto all’imputato NOME COGNOME:
b.1) lo assolveva dai reati di:
b.1.1.) associazione di tipo mafioso, nella veste di partecipe, di cui al capo 1 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
b.1.2.) estorsione in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
b.1.3.) tentata estorsione aggravata in concorso (con NOME COGNOME oltre che con NOME COGNOME e NOME COGNOME, giudicati separatamente) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 9 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
b.1.4) detenzione illecita di sostanze stupefacenti di cui al capo 22 dell’imputazione;
b.2) dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di favoreggiamento in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) di cui al capo 24 dell’imputazione (esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen.) per essere il reato estinto per prescrizione;
b.3) confermava la sua condanna per i reati di:
b.3.1) detenzione e porto in luogo pubblico illegali di una pistola calibro 7,65 di cui al capo 11 dell’imputazione (artt. 10, 12 e 14 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, che hanno sostituito gli artt. 2, 4 e 7 della legge 2 ottobre 1967, n. 895)
b.3.2) traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 2 dell’imputazione;
b.4) rideterminava in undici anni di reclusione ed C 47.000,00 di multa la pena per tali due reati, unificati dal vincolo della continuazione;
quanto all’imputato NOME COGNOME:
c.1) lo assolveva dal reato di associazione per delinquere di tipo mafioso di cui al capo 1) dell’imputazione perché il fatto non sussiste;
c.2) confermava la sua condanna per i reati di:
c.2.1) tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni dei fratelli COGNOME di cui al capo 5 dell’imputazione;
c.2.2) danneggiamento seguito da incendio in concorso (sempre con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni sempre dei fratelli COGNOME di cui al capo 6 dell’imputazione;
c.2.3) detenzione per la vendita a terzi di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) di cui al capo 17 dell’imputazione;
c.2.4) detenzione a fini di spaccio di 20 grammi di sostanza stupefacente del tipo cocaina di cui al capo 19 dell’imputazione;
c.3) rideterminava in otto anni e dieci mesi di reclusione ed C 5.200,00 di multa la pena per tali quattro reati, unificati dal vincolo della continuazione;
quanto all’imputato NOME COGNOME:
d.1) lo assolveva dai reati di:
d.1.1.) associazione di tipo mafioso, nella veste di organizzatore, di cui al capo 1 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
d.1.2.) estorsione in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 1-bis dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
d.1.3.) estorsione in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
d.1.4) tentata estorsione in concorso ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 4 dell’imputazione per non avere commesso il fatto;
d.2) confermava la sua condanna per i reati di:
d.2.1) tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni dei fratelli COGNOME di cui al capo 5 dell’imputazione;
d.2.2) danneggiamento seguito da incendio in concorso (sempre con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni sempre dei fratelli COGNOME di cui al capo 6 dell’imputazione;
d.2.3) detenzione per la vendita a terzi in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente di cui al capo 17 dell’imputazione;
d.2.4) detenzione illecita di sostanza stupefacente in acquisto da NOME COGNOME di cui al capo 22 dell’imputazione;
d.3) rideterminava in sette anni e quattro mesi di reclusione ed C 3.000,00 di multa la pena per tali quattro reati, unificati dal vincolo della continuazione;
quanto all’imputato NOME COGNOME:
e.1) confermava la sua condanna per il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti di cui al capo 22 dell’imputazione limitatamente alla detenzione di stupefacente in concorso con NOME COGNOME, qualificata come delitto di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309;
e.2) rideterminava in un anno e sei mesi di reclusione ed C 1.500,00 di multa la pena per tale reato;
quanto all’imputato NOME COGNOME:
f.1) lo assolveva dai reati di:
f.1.1.) associazione di tipo mafioso, nella veste di capo, promotore e organizzatore, di cui al capo 1 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
f.1.2.) estorsione in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 1-bis dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
f.1.3) estorsione aggravata in concorso (con NOME COGNOME e NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME COGNOME di cui al capo 3 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
f.1.4) alle residue contestazioni di cui ai capi 5, 6, 19 e 22 per non avere commesso il fatto;
f.2) dichiarava non doversi procedere in ordine ai reati:
f.2.1.) fabbricazione o commercio abusivi di materie esplodenti, così qualificato il fatto di cui al capo 13 dell’imputazione, per essere il reato estinto prescrizione;
f.2.2.) di favoreggiamento in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) di cui al capo 24 dell’imputazione (esclusa la circostanza
aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.) per essere il reato estinto pe prescrizione;
f.3) confermava la sua condanna per i reati di:
f.3.1) estorsione, in parte consumata e in parte tentata, ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 2 dell’imputazione;
f.3.2) tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 4 dell’imputazione;
f.3.3) detenzione e porto illegali in concorso (con NOME COGNOME, giudicato separatamente) di un’arma da guerra e del relativo munizionamento di cui al capo 12 dell’imputazione;
f.3.4) detenzione illegale di due pistole, armi comuni da sparo, di cui al capo 15 dell’imputazione;
f.3.5) detenzione per la vendita a terzi in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente di cui al capo 17 dell’imputazione;
f.3.6) acquisto, per la successiva rivendita, in concorso di 15 chilogrammi di hashish di cui al capo 18 dell’imputazione;
f.3.7) detenzione illecita di sostanze stupefacenti di cui al capo 22 dell’imputazione, limitatamente alla detenzione di sostanza stupefacente del tipo marijuana in concorso con il figlio NOME COGNOME;
f.4) rideterminava in quattordici anni e sei mesi di reclusione ed C 9.500,00 di multa la pena per tali sette reati, unificati dal vincolo della continuazione;
quanto all’imputato NOME COGNOME:
confermava la sua condanna alla pena di sei anni e sei mesi di reclusione ed C 12.000,00 di multa per il reato di traffico e detenzione di 400 chilogrammi di hashish di cui al capo 18 dell’imputazione;
quanto all’imputato NOME COGNOME:
h.1) confermava la sua condanna per il reato di tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 4 dell’imputazione;
h.2) rideterminava in quattro anni di reclusione ed C 1.000,00 di multa la pena per tale reato;
quanto all’imputato NOME COGNOME:
i.1) lo assolveva dai reati di:
i.1.1) associazione per delinquere di tipo mafioso di cui al capo 1) dell’imputazione perché il fatto non sussiste;
i.1.2) tentata estorsione in concorso ai danni dei fratelli COGNOME di cui al capo 5 dell’imputazione per non avere commesso il fatto;
i.1.3) danneggiamento seguito da incendio in concorso ai danni sempre dei fratelli COGNOME di cui al capo 6 dell’imputazione per non avere commesso il fatto;
i.2) dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di favoreggiamento in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) di cui al capo 24 dell’imputazione (esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen.) per essere il reato estinto per prescrizione;
I) quanto all’imputata NOME COGNOME:
la assolveva dal reato di detenzione illegale di due pistole, armi comuni da sparo, di cui al capo 15 dell’imputazione per essere già stata giudicata per il medesimo fatto;
m) quanto all’imputato NOME COGNOME:
m.1) lo assolveva dal reato di estorsione in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
n) quanto all’imputato NOME COGNOME:
dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di favoreggiamento in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) di cui al capo 24 dell’imputazione (esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen.) per essere il reato estinto per prescrizione;
o) quanto all’imputato NOME COGNOME:
lo assolveva dai reati:
0.1) tentata estorsione aggravata in concorso (con NOME COGNOME oltre che con NOME COGNOME e NOME COGNOME, giudicati separatamente) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 9 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
o.2) traffico illecito di sostanza stupefacente di cui al capo 23 dell’imputazione per non avere commesso il fatto;
p) quanto all’imputato NOME COGNOME:
lo assolveva dal reato di estorsione aggravata in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME COGNOME di cui al capo 3 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
q) quanto all’imputato NOME COGNOME:
dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di detenzione e porto in luogo pubblico illeciti di esplosivo di cui al capo 13 dell’imputazione, qualificato fatto di cui a tale capo come reato di cui all’art. 678 cod. pen., per essere il rea estinto per prescrizione;
r) quanto all’imputato NOME COGNOME:
lo assolveva dal reato di traffico illecito di sostanza stupefacente del tip marijuana di cui al capo 22 dell’imputazione perché il fatto non sussiste;
quanto all’imputato NOME COGNOME
lo assolveva dal reato di estorsione aggravata in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME COGNOME di cui al capo 3 dell’imputazione, perché il fatto non sussiste;
Avverso la menzionata sentenza del 07/07/2023 della Corte d’appello di Roma, hanno proposto ricorsi per cassazione, con distinti atti, il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma e, per il tramite dei propri rispettivi difensori, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
3. Il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’agnello di
Roma è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., che la Corte d’appello di Roma, nel ribaltare alcune pronunce di condanna del Tribunale di Velletri, sarebbe incorsa nei vizi, da un lato, di mancanza della motivazione, in quanto avrebbe omesso di «dare puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte», dall’altro lato, di contraddittorietà e manifesta illogicità della stessa motivazione, in quanto si porrebbe in insanabile contrasto con le prove acquisite.
3.1. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma contesta anzitutto l’assoluzione degli imputati NOME COGNOME e NOME COGNOME dal reato di estorsione aggravata in concorso ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 1-bis dell’imputazione perché il fatto non sussiste.
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma, con l’affermare che il Tribunale di Velletri aveva «riportato gli stralci dei brogliacci redatti dalla pol giudiziaria» ed era pervenuto all’affermazione di responsabilità dei due imputati «in maniera apodittica» e «con argomenti privi di solidi e incontrovertibili ancoraggi probatori»: a) quanto alla prima affermazione, avrebbe travisato i fatti, atteso che il Tribunale di Velletri aveva utilizzato non i brogliacci ma le trascrizio peritali delle conversazioni intercettate; b) quanto alla seconda affermazione, si sarebbe discostata dalla conclusioni dello stesso Tribunale senza confutarne specificamente le argomentazioni – basate sul contenuto, richiamato dal ricorrente, delle conversazioni intercettate e sugli esiti dei servizi di osservazion controllo e pedinamento -, ma limitandosi a dichiararle genericamente non condivisibili, senza spiegare il perché di tale non condivisione e senza neppure considerare, a sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen., i fatti che erano stati accerta nella sentenza del 16/06/2020 del G.i.p. del Tribunale di Roma, confermata con sentenza del 26/05/2022 della Corte d’appello di Roma divenuta irrevocabile il
15/10/2022, sentenze che erano state prodotte in giudizio e che avevano estesamente trattato anche della vicenda di cui al capo 1-bis dell’imputazione.
3.2. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma contesta in secondo luogo l’assoluzione degli imputati NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME dal reato di estorsione aggravata in concorso ai danni di NOME COGNOME COGNOME di cui al capo 3 dell’imputazione perché il fatto non sussiste.
Il ricorrente lamenta che l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui il Tribunale di Velletri aveva solo «ipotizzato, senza riscontri certi e concre che NOME COGNOME dovesse saldare un debito per spese legali in relazione ad un’azione delittuosa da lui compiuta in passato su richiesta del NOME e in danno di un concorrente politico di quest’ultimo» (pag. 36 della sentenza impugnata) sarebbe contraddetta da chiare emergenze istruttorie, che non sarebbero state neppure esaminate dalla Corte d’appello; in particolare, dal contenuto, richiamato dal ricorrente, di alcune conversazioni intercettate, dal quale sarebbe risultato come NOME COGNOME collegasse le proprie richieste di denaro al NOME alla vicenda dell’azione estorsiva che egli, insieme ad NOME COGNOME aveva compiuto, su richiesta del NOME, ai danni di NOME COGNOME – vicenda che aveva effettivamente dato luogo, come era stato documentalmente provato dal pubblico ministero, a un procedimento penale – e accampasse, specificamente, un obbligo del NOME di “indennizzarlo” almeno delle spese legali che lo stesso COGNOME aveva sostenuto nel processo.
Poiché, pertanto, dal contenuto delle menzionate intercettazioni – che non sarebbero state neppure esaminate dalla Corte d’appello di Roma -, era emerso che NOME COGNOME aveva chiesto al Mauro delle somme di denaro senza che sussistesse alcun obbligo giuridico della persona offesa in tale senso, non si comprenderebbe come la stessa Corte d’appello abbia potuto concludere che, «oiché non è stata accertata in alcun modo la causale della richiesta di denaro avanzata da NOME COGNOME, subito onorata da NOME COGNOME COGNOME non può affermarsi con certezza e al di là di ogni ragionevole dubbio che il credito preteso dal COGNOME risulti privo di alcun fondamento giuridico» (pag. 37 della sentenza impugnata).
Tale affermazione della Corte d’appello di Roma sarebbe anche contraddittoria, atteso che proprio il fatto che non sarebbe emersa alcuna causale della richiesta di denaro, avrebbe dovuto indurre a concludere nel senso dell’arbitrarietà della stessa richiesta.
Inoltre, anche con riguardo alla vicenda di cui al capo 3 dell’imputazione la Corte d’appello aveva omesso di considerare i fatti che erano stati accertati nella già menzionata sentenza del 16/06/2020 del G.i.p. del Tribunale di Roma,
confermata con sentenza del 26/05/2022 della Corte d’appello di Roma divenuta irrevocabile il 15/10/2022, sentenze che avevano accertato il legame tra NOME COGNOME e NOME COGNOME COGNOME e il «”tradimento”» che il COGNOME riteneva di avere subito dal NOME.
Il ricorrente afferma ancora che: « stata sufficiente la provenienza della richiesta per coartare la volontà della persona offesa, che non ha più osato ribellarsi, premunendosi, tuttavia, di far apparire altri come pagatori, segno che il nome dell’imputato era famigerato al punto da dover nascondere ogni rapporto con lui» (pag. 12 del ricorso).
3.3. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma contesta in terzo luogo l’assoluzione degli imputati NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME dal reato di estorsione aggravata in concorso ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 7 dell’imputazione perché il fatto non sussiste.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello di Roma non avrebbe «inteso ricostruire l’intera vicenda», anche alla luce di quanto emergeva dalle acquisite e tuttavia non considerate sentenze: 1) del 16/06/2020 del G.i.p. del Tribunale di Roma, divenuta irrevocabile il 15/10/2022, con la quale era stato separatamente giudicato e condannato il concorrente nel reato NOME COGNOME; 2) del 26/06/2018 del Tribunale di Roma, divenuta irrevocabile il 10/11/2020; 3) del 01/02/2021 del G.u.p. del Tribunale di Roma, acquisita come ancora non definitiva, con la quale NOME COGNOME era stato condannato per associazione per delinquere di stampo mafioso (e che, alle pagg. 109-121 dà conto della vicenda di cui al capo 7 dell’imputazione).
Dopo avere riassunto la vicenda per come sarebbe emersa dalle menzionate sentenze, oltre che dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME (rese alle udienze del 07/04/2021 e del 05/05/2021) e dal contenuto dell’intercettata conversazione che ebbe luogo in carcere tra NOME COGNOME e NOME COGNOME il 04/10/2014 (pagg. 16-17 del ricorso), il ricorrente, nell’asserire che la Corte d’appello di Roma «di tutte queste fonti di prova non tiene alcun conto», contesta la sussistenza delle contraddizioni che la stessa Corte d’appello ha riscontrato nella sentenza di primo grado e deduce in particolare al riguardo che: a) la Corte d’appello, nell’affermare che, «secondo il Tribunale, l’incarico di riscuotere i crediti del COGNOME sarebbe stato conferito da NOME COGNOME al fratello NOME. Il primo, tuttavia, nella sua deposizione dibattimentale, ha affermato di aver consegnato la lista di debitori compilata da COGNOME alla sorella NOME durante uno dei numerosi colloqui avuti con la stessa, perché la trasmettesse al compagno NOME COGNOME. In quale modo questi abbia, poi, eventualmente trasmesso la lista ed il compito del recupero crediti a
NOME COGNOME non viene spiegato», non spiegherebbe a sua volta «perché il fatto che sia NOME COGNOME sia NOME COGNOME si siano occupati dell’esazione del debito da COGNOME – il primo avanzando la richiesta, il secondo addivenendo a trattative per l’adempimento – dovrebbe inficiare la coerenza della ricostruzione del fatto»; b) sarebbe solo apparente l’incongruenza temporale ravvisata dalla Corte d’appello di Roma nella dichiarazione di NOME COGNOME, riportata dal Tribunale di Roma, secondo cui il denaro che i COGNOME dovevano ottenere nell’occasione «sarebbe servito per saldare il debito di COGNOME NOME per la cocaina oggetto di compravendita nel capo 23» (pag. 97 della sentenza di primo grado), atteso che la mancata valutazione del complesso delle prove acquisite aveva impedito alla Corte d’appello di Roma di avere contezza dell’insieme della vicenda e, in particolare, del fatto che la stessa si era dipanata per anni e che la riscossione del debito di NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME, ceduto dal COGNOME per soddisfare NOME COGNOME (o il figlio di questi, come si afferma nel ricorso), costituiva «solo un frammento della complessiva operazione di recupero crediti iniziata nel 2013 su input di COGNOME», la quale si era protratt sino al 2015, il che spiegava perché NOME COGNOME, nelle proprie dichiarazioni dibattimentali, avesse «messo in correlazione il fatto del credito di Sardo nei confronti del fratello NOME, collocato nel 2015-2016, con la vicenda del recupero crediti di COGNOME, iniziata nel 2013-2014 e finita, appunto, nel 2016, della quale la riscossione del debito di COGNOME costituisce solo una parte».
Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Roma, non potrebbe costituire un ostacolo all’affermazione di responsabilità degli imputati l’assenza di elementi dai quali risulti la riscossione di altri crediti indicati nella lista c stata consegnata da NOME COGNOME a NOME COGNOME. Ciò, infatti, non significherebbe, come affermato dalla Corte d’appello di Roma, che «dei numerosi debitori del COGNOME indicati nella lista consegnata a NOME COGNOME , l’unico cui confronti i familiari e sodali di quest’ultimo si sarebbero effettivamente attiv sia stato NOME COGNOME» (pag. 47 della sentenza impugnata), «ma solo che di questa esazione, e non di altre, sono state raccolte prove attraverso le indagini». La Corte d’appello di Roma non aveva peraltro considerato che NOME COGNOME aveva dichiarato che era stata fatta una suddivisione tra i sodali per riscuotere il dovuto dai vari debitori del COGNOME e aveva erroneamente ritenuto che l’episodio, narrato da NOME COGNOME, in cui NOME COGNOME aveva tenuto per sé il denaro fosse relativo all’escussione del debito dello stesso COGNOME, laddove tale episodio era relativo all’escussione di un altro debitore.
Con riguardo all’elemento costitutivo della minaccia, il ricorrente evidenzia che: a) all’incontro tra NOME COGNOME e il COGNOME si era addivenuti, come si legge nella stessa sentenza impugnata, dopo che il COGNOME era stato incaricato
da NOME COGNOME, il giorno prima dello stesso incontro, di rintracciare il COGNOME per ottenere un pagamento; b) all’incontro aveva partecipato non solo NOME COGNOME ma anche NOME COGNOME «anch’egli personaggio legato alla mafia catanese» e condannato, come detto, per il reato in questione; c) il COGNOME «si era rivolto ai COGNOME per risolvere la questione, dunque aveva risposto alla richiesta frapponendo tra sé e COGNOME la forza di un’altra organizzazione criminale». La Corte d’appello di Roma avrebbe «omesso, quindi, di fare una valutazione complessiva degli indizi esistenti», tralasciando anche gli ulteriori elementi costituiti dai fatti che: 1) l’incontro era «avvenuto il 25 settembre 2014 e che poco dopo, il 4.10.2014, NOME e la sorella NOME discutano in carcere proprio dell’esazione di questo credito, e dunque le due cose debbano essere messe in correlazione tra loro»; 2) all’incontro «fosse presente anche personalmente NOME COGNOME come risulta dalla sentenza di condanna a carico di NOME, segno che COGNOME temeva di incontrare da solo COGNOME e NOME».
Né sarebbe dirimente che il COGNOME, nel corso della propria escussione dibattimentale, avesse negato di avere subito minacce, atteso che la persona offesa aveva negato non solo di avere pagato il debito in questione, ma anche di conoscere i COGNOME e di ricordare l’incontro con NOME COGNOME e NOME COGNOME sicché egli aveva «nsomma negato anche l’evidenza, atteggiamento tipico del teste impaurito e reticente»
Il ricorrente conclude che non sussisterebbe incoerenza nella ricostruzione dei fatti che era stata operata dal Tribunale di Velletri e, piuttosto, «la complessità della condotta estorsiva in concorso di più persone è semplicemente la dimostrazione della cooperazione nella riscossione, in generale, dei crediti di Fabietti di più sodali coinvolti inizialmente a diverso titolo da NOME COGNOME».
3.4. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma contesta in quarto luogo l’assoluzione degli imputati NOME COGNOME e NOME COGNOME dal reato di tentata estorsione aggravata in concorso (anche con NOME COGNOME e NOME COGNOME, giudicati separatamente) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 9 dell’imputazione perché il fatto non sussiste.
Il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Roma, pur avendo ripercorso tutti i fatti che erano emersi nel corso dell’istruttoria, sarebbe pervenuta, sul base degli stessi fatti, a delle conclusioni contraddittorie e manifestamente illogiche, omettendo anche di considerare ed esaminare il contenuto della già citata sentenza del 16/06/2020 del G.u.p. del Tribunale di Roma, confermata con sentenza del 26/05/2022 della Corte d’appello di Roma e divenuta irrevocabile il 15/10/2022, con la quale era stato separatamente giudicato e condannato il concorrente nel reato NOME COGNOME.
Dopo avere ripercorso i fatti e dopo avere rammentato la valutazione che ne era stata data dalla Corte d’appello di Roma, esponendo, in particolare, che la stessa Corte «dà per acclarato che NOME era spaventato e anzi addirittura preoccupato per l’incolumità propria e della sua famiglia e che per questo abbia accettato di incontrarsi con NOMECOGNOME pur senza conoscerlo e senza capire chi fosse NOME COGNOME la persona che gli è stata nominata nel corso della telefonata, ma di cui nemmeno gli è stato detto che lo cercava per esigere un credito», il ricorrente deduce che « solo in un contesto di intimidazione che ha senso la scelta di farsi accompagnare da COGNOME, non certo necessaria per fronteggiare un qualsiasi creditore. Tanto è significativa la compagnia di COGNOME che COGNOME è stato reticente perfino sul fatto di aver chiesto il suo aiuto, arrivando a sostenere che i giorno dell’incontro si trovava con lui per caso (circostanza che anche la Corte d’Appello ha ritenuto inverosimile)».
Il ricorrente deduce poi che: a) come risultava dal servizio di osservazione controllo e pedinamento del 17/07/2015, il COGNOME, insieme al COGNOME, aveva incontrato NOME COGNOME e, ciò nonostante, non solo la persona offesa aveva negato di averlo visto ma, prima ancora, aveva negato di conoscere «i» COGNOME; b) il COGNOME aveva successivamente incontrato NOME COGNOME, creditore della fallita RAGIONE_SOCIALE, di cui il COGNOME era stato amministratore, e, nonostante avesse spiegato al COGNOME che egli non poteva personalmente pagare alcun debito della società fallita ma che occorreva insinuarsi al passivo fallimentare, le richieste di denaro al COGNOME NOME erano continuate per mesi, tramite il COGNOME, «che faceva da tramite tra “i ragazzi” e la vittima, facendogli notare che, se avesse continuato a tergiversare per evitare il pagamento, i primi si sarebbero arrabbiati» (così il ricorso, che riporta anche l’intercettata frase del COGNOME del 27/10/2015 «già si sono incazzati guarda») e che, il 4/11/2015, aveva scritto al Di Mario un SMS con il quale «lo “rimprovera” scrivendogli che quelle persone si erano stancate e volevano incontrarlo (“Caro NOME così mi metti in difficoltà e la gente si straniere io da questa mattina sono con loro. Vorrebbero incontrarti”)» (così il ricorso).
Il ricorrente asserisce che la Corte d’appello di Roma, «nel cercare una spiegazione alternativa alla paura esplicitamente manifestata dalla persona offesa (“abito sul territorio, c’ho una famiglia da proteggere, cerco di proteggere la famiglia”), tanto da giustificare la scelta di farsi accompagnare, a sua difesa, da una persona legata a un’organizzazione criminale (Lombardi)», sarebbe pervenuta a una conclusione manifestamente illogica, in quanto «non spiega per quale motivo COGNOME Mario sia stato smaccatamente reticente in dibattimento su ogni minima circostanza, negando quello che era emerso oggettivamente dalle registrazioni e dagli ocp». Il ricorrente osserva in proposito che se il COGNOME «avesse parlato con
gli imputati quali semplici mandatari di un creditore, non avrebbe avuto alcuna ragione di negare perfino il ruolo di COGNOME o la conoscenza di COGNOME NOME», sicché «la sua reticenza si spiega solo con il fatto che, evidentemente, in dibattimento temeva ritorsioni da parte degli odierni imputati».
La motivazione della sentenza impugnata sarebbe poi contraddittoria rispetto ad alcune risultanze istruttorie non considerate dalla Corte d’appello di Roma, segnatamente: 1) l’anomalia del comportamento del creditore di rivolgersi, anziché a un avvocato o direttamente al Di Mario, a delle persone «con cui è entrato in contatto presso una concessionaria, che ritiene evidentemente dispongano di strumenti più efficaci per ottenere il soddisfacimento del proprio credito»; 2) l’anomalia della modalità che era stato richiesto al NOME di utilizzare per effettuare il pagamento costituita dal versamento sul conto corrente della menzionata concessionaria anziché direttamente in favore del Savo; 3) la già menzionata sentenza definitiva di condanna del concorrente NOME COGNOME, il braccio destro di NOME COGNOME, come tale presente fin dal primo incontro con NOME; 4) la già ricordata sentenza del 26/06/2018 del Tribunale di Roma, divenuta irrevocabile il 10/11/2020, di condanna di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME per estorsione e rapina ai danni di tale COGNOME, con la quale era stato accertato come «fosse consueto il richiamo verbale alla contiguità con famiglie mafiose siciliane in occasione dei reati perpetrati sul litorale laziale al fine di acquisirne il controllo, essendo t richiamo idoneo di per sé – senza necessità di più esplicite minacce – ad ottenere la coartazione della libertà altrui», e nella quale era stato anche evidenziato come NOME COGNOME avesse «precisato che in ambiente malavitoso la provenienza siciliana evoca da sola il collegamento con la mafia».
La Corte d’appello di Roma non avrebbe in alcun modo valorizzato tali risultanze istruttorie, nemmeno per discostarsene motivatamente, nonostante esse – si sostiene – «ben si attagliano proprio alla fattispecie concreta di cui a capo 9), in cui è bastato un sollecito verbale in dialetto siciliano per impaurire fi dal primo contatto COGNOME Mario e, in seguito, farlo sottostare alle “sollecitazioni” COGNOME NOME, spalleggiato da COGNOME NOME e COGNOME NOME».
3.5. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma contesta in quinto luogo l’assoluzione degli imputati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME dal reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell’imputazione perché il fatto non sussiste, con la conseguente esclusione, relativamente ai reati-fine, della circostanza aggravante della cosiddetta agevolazione mafiosa.
3.5.1. Il ricorrente contesta anzitutto l’argomentazione della Corte d’appello di Roma secondo cui gli imputati, «sebbene legati da rapporti di parentela e
affinità, non si fidavano l’uno dell’altro, né avevano tra loro costituito una cass comune in vista della realizzazione dell’ipotetico programma criminoso di cui si fa menzione nella prospettazione accusatoria» (pag. 33 della sentenza impugnata), denunciando come le affermazioni che gli imputati «non si fidavano l’uno dell’altro» e «non avevano costituito una cassa comune» sarebbero anapodittiche e prove di riferimenti alle emergenze istruttorie che le giustificherebbero, atteso che la Corte d’appello di Roma non avrebbe «richiamato i fatti da cui ha tratto tale conclusione».
Nel supporre, perciò, che la Corte d’appello di Roma abbia inteso accogliere le tesi degli atti di appello di alcuni degli imputati là dove tali atti indicavano d liti che erano insorte tra gli stessi imputati, il ricorrente lamenta che la stessa Cor d’appello avrebbe del tutto omesso di valutare le circostanze che erano emerse nel corso del dibattimento dalle quali era risultato come le suddette liti avessero una «causa inquadrabile proprio nell’aver tradito gli scopi e gli accordi dell’associazione».
In particolare, posto che chi aveva avuto degli screzi, anche forti, era NOME COGNOME, per i comportamenti che aveva talora tenuto, il ricorrente sostiene che tali comportamenti «non sono tali da escludere l’esistenza di un gruppo criminale solidale: anzi, proprio il fatto che essi siano stati stigmatizzati dai c dell’associazione, NOME e NOME COGNOME, è significativo dell’esistenza di un patto, violato da COGNOME nelle suddette occasioni, in forza del quale i proventi delle attività delittuose dovevano essere destinati agli scopi dell’associazione, pure se questi, alle volte, coincidevano con gli interessi di alcuni dei capi». Pertanto «le liti con NOME COGNOME confermano, anziché escludere, l’esistenza di un vincolo tra consociati, tanto che chi l’ha violato è stato redarguito; confermano anche l’esistenza di una “cassa comune”, intesa quale somma dei proventi delittuosi costituente patrimonio dell’associazione e gestita dai suoi capi, proprio perché la causa delle liti è stata la decisione di DCOGNOME di nascondere o cambiare la destinazione dei proventi di reato».
Secondo il ricorrente, vi sarebbero peraltro anche degli episodi in cui sarebbe emerso «il contrario», nei quali, cioè, il COGNOME aveva conferito denaro ad altri (asseriti) componenti dell’associazione in quanto tali e non in quanto concorrenti nel reato che aveva prodotto i proventi illeciti, come nel caso del conferimento a NOME COGNOME della somma di C 1.000,00 nell’ambito della somma di C 6.000,00 che era stata “recuperata” da NOME COGNOME (riferimento al capo 7 dell’imputazione) e alla fidanzata di NOME COGNOME della somma di C 300,00 per pagare l’avvocato al COGNOME che era stato arrestato (riferimento al capo 12 dell’imputazione).
Anche l’episodio delittuoso di cui al capo 4 dell’imputazione, con riguardo al quale la Corte d’appello di Roma aveva confermato le condanne di NOME COGNOME e di NOME COGNOME per il reato di tentata estorsione ai danni di NOME COGNOME dimostrerebbe, «da un lato, che il nome della famiglia nel suo complesso incuteva timore nelle vittime e, dall’altro lato, che il clan, come tale, traeva reddito addirittura dalla semplice autorizzazione ad usare il proprio nome. Reddito che, evidentemente, andava a finire nella “cassa comune”».
Sotto un altro profilo, il ricorrente rappresenta come sarebbe emersa l’esistenza di un’organizzazione stabile di persone, con i seguenti ruoli: NOME COGNOME di capo; NOME COGNOME e NOME COGNOME di uomini di fiducia del capo, impegnati in prima persona nel recupero crediti/estorsioni e nel traffico illecito di sostanze stupefacenti; NOME COGNOME di esecutore materiale; NOME COGNOME di partecipe incaricata di fare da tramite con il detenuto NOME COGNOME per trasmettere i suoi messaggi all’esterno del carcere agli altri sodali.
Così, dal dialogo tra NOME COGNOME e NOME COGNOME era emerso come il primo ricoprisse la posizione di vertice, «perché altrimenti non avrebbe avuto senso riferire a lui, se non per indurlo a controllare l’operato delle persone che lavoravano per l’interesse comune del gruppo».
Dallo stesso colloquio sarebbe anche emerso come l’RAGIONE_SOCIALE rifornisse l’associazione come tale e che «poi, per portare a termine la vendita a terzi, egli accompagnava in Sicilia ora D’Agata ora NOME COGNOME, secondo un accordo generale evidentemente preso anche con NOME, che andava al di là della realizzazione di singoli fatti di detenzione e spaccio in concorso».
Gli elementi evidenziati, ancorché fossero emersi nel corso del dibattimento, «o non sono stati minimamente considerati dalla Corte d’Appello, o sono stati valutati atomisticamente e non nel loro complesso, cosicché la motivazione appare sia carente sia illogica e contraddittoria rispetto agli atti del dibattimento».
3.5.2. Il ricorrente contesta in secondo luogo l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui le dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME sarebbero state «non corroborate dai necessari riscontri imposti dall’articolo 192, comma 3, c.p.p.» e sarebbero state «veicolate in dibattimento, con modalità singolari, attraverso la testimonianza dell’operante di polizia giudiziaria NOME COGNOME».
Quanto a quest’ultima affermazione, essa si porrebbe in contrasto sia con quanto risulterebbe dalla lettura dello “Svolgimento del processo” della sentenza di primo grado sia con i verbali di udienza, dai quali risultava come NOME COGNOME fosse stato sottoposto a esame e a controesame nel corso delle udienze del 07/05/2021 e del 05/05/2021, con la conseguenza che la medesima affermazione sarebbe fondata su un travisamento dal fatto.
Quanto alla prima asserzione relativa alla mancanza di riscontri, ai sensi del comma 3 dell’art. 192 cod. proc. pen., alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME, essa sarebbe anapodittica e deriverebbe «dalla mancata considerazione di elementi di prova che invece sono senz’altro emersi nel dibattimento».
Il ricorrente espone le parti salienti delle dichiarazioni di NOME COGNOME (pagg. 29-30 del ricorso), con le quali questi avrebbe «fornito una descrizione univoca dell’esistenza di un’associazione di stampo mafioso». Tale collaboratore di giustizia aveva reso dichiarazioni con un contenuto sovrapponibile anche nel procedimento che si era concluso con la già menzionata sentenza del 26/06/2018 del Tribunale di Roma, divenuta irrevocabile il 11/11/2020, che ne fa una sintesi e che non sarebbe stata considerata dalla Corte d’appello di Roma.
Dall’attività istruttoria sarebbero emersi plurimi riscontri alle dichiarazioni NOME COGNOME dei quali, tuttavia, la Corte d’appello di Roma non avrebbe «tenuto alcun conto, nemmeno per motivare la loro eventuale irrilevanza».
In particolare, del controllo che veniva esercitato dall’associazione sul territorio del litorale laziale – al quale era finalizzata fin dall’inizio l’attività stata intrapresa da NOME COGNOME -, si avrebbero riscontri dal contenuto delle effettuate intercettazioni e dagli elementi di prova che erano emersi con riguardo ai vari reati-fine.
Anche le associazioni criminali che erano presenti in altre realtà territoriali avrebbero riconosciuto la preminenza dei COGNOME nella “loro” zona e si sarebbero accordate con gli stessi COGNOME per non disturbarsi a vicenda e per non contestare l’egemonia altrui nei territori di rispettiva pertinenza.
Il ricorrente evidenzia: la piena collaborazione che era stata stabilita da NOME COGNOME con i COGNOME (contenuto dell’intercettata conversazione tra NOME COGNOME e la moglie del 07/06/2015) e come dalle emergenze istruttorie relative al reato di cui al capo 1-bis dell’imputazione fosse risultato come gli stessi Casalesi riconoscessero che a Torvajanica e a Pomezia “comandavano” i COGNOME; l’intercettata conversazione del 09/06/2015 tra NOME COGNOME e il fratello («questo non è territorio di calabresi»), la quale proverebbe anche che, come era stato dichiarato da NOME COGNOME, una delle attività svolte dall’associazione era quella del recupero di crediti altrui; la vicenda relativa ai reati di tentata estorsi e di danneggiamento seguito da incendio della pasticceria “La Salernitana” in Torvajanica di cui ai capi 5 e 6 dell’imputazione, episodi dai quali sarebbe emerso «che il delitto è stato originato dallo sgarbo fatto dai proprietari – legati ad u cosca della ‘ndrangheta e alla famiglia mafiosa catanese dei COGNOME – alla famiglia COGNOME, decidendo di aprire una pasticceria nella stessa area dove si trovava la pasticceria di NOME COGNOME NOME COGNOME» e che sarebbero stati
anche sintomatici «dei rapporti su un piano paritario con altre organizzazioni criminali»; la frase di NOME COGNOME, intercettata il 05/02/2016, «qua se c’è qualcuno che comanda sono i COGNOME e basta! A Torvajanica abbiamo sempre comandato noi! la prossima volta che rientri qua, ti faccio uscire con i pied davanti!»; la vicenda, collegata al fatto che è contestato nel capo 23 dell’imputazione, concernente la vendita di cocaina da NOME COGNOME a NOME COGNOME, esponente della famiglia catanese dei COGNOME, legata ai COGNOME.
Quest’ultima vicenda, oltre a confermare i rapporti paritari con altre organizzazioni criminali, sarebbe anche «sintomatica delle modalità di agire dei componenti dell’associazione in rapporto ad altre organizzazioni mafiose di tipo “tradizionale”, che operano e sono riconosciute in primo luogo nel territorio siciliano, anche se collaborano con altre entità criminali».
Il ricorrente sottolinea anzitutto che sarebbe «agevole notare che i rapporti si collocano su un piano di parità e che per le condotte poste in essere dai sodali sono chiamati a rispondere – o a trattare per raggiungere un accomodamento – i capi della famiglia. Dimostrazione, questa, prima di tutto, dell’esistenza di un’associazione a delinquere e non di singole commissioni di reati in concorso di persone: altrimenti, non avrebbe senso che Sardo, essendo stato ingannato dal correo nel delitto di compravendita di stupefacenti (NOME COGNOME), si rivolga ad un suo parente (lo zio NOME COGNOME) per ottenere il denaro perso. Soprattutto, che lo faccia appellandosi al credito di cui il capo NOME COGNOME gode in Sicilia, dove egli è rispettato e dove tiene a conservare il suo buon nome. Dunque, la famiglia COGNOME ha rapporti paritari con le altre famiglie mafiose siciliane e il suo capo può spendere il proprio “prestigio” per cercare addivenire ad un accordo e “mettere pace” tra le due famiglie».
In secondo luogo, la vicenda costituirebbe «manifestazione delle regole di comportamento, tipicamente mafiose, che vigono nel sodalizio: il rispetto che si deve ai componenti di altre associazioni mafiose, quali “uomini d’onore”, rispetto tradito da NOME COGNOME nel momento in cui si sottrae ad ogni confronto con gli altri, tanto che lo zio non può e non vuole più proteggerlo; d’altro canto, l regola dell’omertà, che impone ad NOME di ritrattare la denuncia per non far incriminare i suoi sequestratori».
Anche in ordine agli indicati rapporti con altre note associazioni di tipo mafioso, instaurati su un piano di parità e regolati da patti di reciproco riconoscimento territoriale, nulla verrebbe detto nella sentenza impugnata, con la quale la sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso sarebbe stata esclusa senza considerare quanto era risultato provato al riguardo.
3.5.3. Il ricorrente contesta in terzo luogo l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui il gruppo criminale «non si è avvalso di un’intrinseca potenzialità intimidatrice», atteso che i delitti che la stessa Corte aveva ritenut sussistenti si dovevano reputare «espressione della capacità materiale manifestata dai singoli autori».
Secondo il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, l’assenza di «intrinseca potenzialità intimidatrice» sarebbe stata affermata dalla Corte d’appello in modo anapodittico e senza indicare gli elementi che avrebbero smentito la valutazione contraria che era stata fatta dal Tribunale di Velletri.
Sarebbero molteplici, secondo il ricorrente, gli elementi emersi dall’istruttoria dibattimentale che comproverebbero la concreta e attuale forza intimidatrice esercitata dalla famiglia COGNOME e dai suoi accoliti, la quale avrebbe prodotto «un assoggettamento omertoso del territorio di riferimento, dovuto a una diffusa convinzione che collaborare con le forze dell’ordine e l’autorità giudiziaria non impedisse ritorsioni».
L’effetto di intimidazione, come aveva dichiarato NOME COGNOME, era ottenuto mediante la mera evocazione della “sicilianità”, senza che fosse necessario ricorrere a minacce esplicite, come sarebbe stato confermato dal fatto che pressoché tutte le vittime delle contestate estorsioni erano state impaurite dal solo sentire che le pretese provenivano da “siciliani” (vicende di cui ai capi 1-bis, 4, 7 e 9 dell’imputazione). h
Che dalla stessa forza intimidatrice derivasse un atteggiamento omertoso, che induceva la convinzione dell’inutilità di denunciare, sarebbe comprovato dalla reazione avuta da «un po’ tutte» le persone offese dopo avere ricevuto le richieste estorsive: «prima di tutto si sono rivolte ad amici di organizzazioni criminali di par peso; puoi in dibattimento hanno negato l’evidenza (anche in questo caso, si veda il comportamento di NOME, di COGNOME, di COGNOME, di COGNOME)».
La Corte d’appello di Roma, omettendo di leggere le fonti di prova nel loro insieme, avrebbe escluso ogni intimidazione solo perché le varie vittime avevano negato di avere ricevuto minacce, senza considerare che: da un lato, le stesse vittime avevano negato del tutto di conoscere gli imputati e di averli incontrati, mentre dagli appostamenti della polizia giudiziaria o dalle intercettazioni telefoniche risultava oggettivamente il contrario; dall’altro lato, l’intimidazione pu avvenire anche in modo silente, senza minacce esplicite, come aveva appunto spiegato che avveniva NOME COGNOME nelle sue dichiarazioni.
3.6. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma contesta in sesto luogo la declaratoria di non doversi procedere nei confronti degli imputati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME in ordine al reato di favoreggiamento personale in concorso di cui al capo
24) dell’imputazione perché – esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen., nonché la recidiva che era stata contestata ad NOME COGNOME e a NOME COGNOME – il reato era estinto per prescrizione.
Il ricorrente reputa che, alla luce dei fatti emersi dall’istruttoria e illus nell’argomentare la doglianza relativa al capo 1 dell’imputazione, la decisione di escludere le indicate circostanze aggravanti sarebbe illogica.
Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma asserisce che l’erroneo disconoscimento della sussistenza dell’associazione di tipo mafioso di cui al capo 1 dell’imputazione avrebbe comportato l’erronea esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
Posto che la fondatezza dell’accusa di cui al capo 24 dell’imputazione sarebbe stata accertata anche dalla Corte d’appello di Roma, la sussistenza del reato di cui a tale capo dimostrerebbe l’esistenza dell’associazione tra gli imputati, atteso che gli stessi, nell’occasione, si adoperarono tutti per evitare che i Carabinier potessero rintracciare il loro sodale NOME COGNOME il quale – si dovrebbe anche considerare – era il braccio destro di NOME COGNOME ed era con lui imputato di più reati-fine, ed era anche affiliato ai COGNOME così come suo cugino NOME COGNOME.
Il ricorrente evidenzia anche che il COGNOME non sarebbe stato il solo a usufruire dell’ospitalità” dei COGNOME, atteso che: la moglie di NOME COGNOME era stata fittiziamente assunta nella gelateria che era gestita da NOME COGNOME; il figlio dello stesso NOME COGNOME NOME, durante la sua latitanza, era stato ospitato dalla figlia di NOME COGNOME grazie all’attivazione di NOME COGNOME (come aveva dichiarato NOME COGNOME); NOME COGNOME aveva fittiziamente assunto anche il nipote NOME COGNOMEfiglio di NOME COGNOME) il quale si occupava di cessione di stupefacenti per conto del padre.
Il ricorrente conclude quindi che, «nsomma, il favoreggiamento di COGNOME di cui al capo 24 non appare affatto un comportamento estemporaneo o “eccentrico” (come si esprime la Corte d’Appello nell’escludere la recidiva per NOME e NOME COGNOME) rispetto alle precedenti condotte delittuose, ma anzi si inserisce perfettamente nel quadro associativo di mutuo sostegno dei sodali e comunque degli “amici” mafiosi».
NOME COGNOME ha proposto due ricorsi, uno a firma dell’avv. NOME COGNOME e uno a firma dell’avv. NOME COGNOME
4.1. Il ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a quattro motivi.
4.1.1. Con il primo motivo – relativo all’affermazione di responsabilità per i reati di cui ai capi 5 e 6 dell’imputazione -, la ricorrente deduce, in relazione all’a 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la contraddittorietà della motivazione in
quanto la Corte d’appello di Roma, dopo avere attribuito a NOME COGNOME l’iniziativa di compiere la tentata estorsione mediante il danneggiamento incendiario dell’esercizio commerciale “La Salernitana” (capi 5 e 6 dell’imputazione), ha poi affermato la sua responsabilità penale come «istigatrice» di tali condotte criminose.
La ricorrente premette che, nel capo 5 dell’imputazione, essa non era in alcun modo coinvolta nel momento dell’ideazione e della programmazione del delitto e la seconda fase dell’azione, cioè quella del danneggiamento mediante l’incendio del locale “La Salernitana”, era attribuita all’iniziativa di NOME COGNOME.
Ciò premesso, NOME COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe fornito una motivazione perplessa, non coerente con le risultanze processuali e contraddittoria.
L’imputata contesta anzitutto l’argomentazione della Corte d’appello secondo cui «vi è prova certa e inconfutabile che NOME COGNOME si sia fatta latrice di alcuni “pizzini” consegnatigli dal fratello NOME COGNOME e che all’inequivocabile esortazione di quest’ultimo – “ma perché non gliela bruciano” – ella rispose prontamente – “se glielo dico a COGNOME lo fa subito”» (pagg. 42-43 della sentenza impugnata), deducendo come già dall’indicazione di NOME COGNOME «ma perché non gliela bruciano» risulterebbe come essa non dovrebbe «essere assolutamente coinvolta nella vicenda», atteso che suo fratello NOME non le disse «perché non gliela bruciate?», dal che si sarebbe dovuto ricavare che la sua direttiva era rivolta a soggetti diversi dalla sorella.
NOME COGNOME deduce poi la contraddittorietà della motivazione per averle la Corte d’appello di Roma assegnato prima il ruolo di mero nuncius di «deliberazioni assunte dagli uomini della famiglia», attraverso la trasmissione all’esterno del carcere dell’ordine che era stato dato da suo fratello NOME e «che dovrà essere eseguito senza alcun proprio contributo operativo» e, poi, il ruolo di «istigatrice» dell’intera condotta delittuosa.
La lamentata contraddizione sarebbe «decisiva» in quanto la «condotta di istigazione», la quale «implica già di per sé la consapevolezza della azione illecita di cui il soggetto agente sollecita l’attuazione da parte dei correi», differirebb profondamente «da una condotta di mero rafforzamento dell’altrui volontà propria di chi si limiti a trasmettere un ordine o una direttiva rivolta alla esecuzione d un’azione violenta, rispetto alla quale l’agente non mostri alcun significativa adesione né condivisione», tenuto conto che, «e il rafforzamento dell’altrui volontà può derivare anche da una condotta del tutto involontaria e inconsapevole (la presenza passiva sul luogo del delitto o altre condotte similari, quali, nella specie, il recapito all’esterno di un biglietto senza conoscerne il contenuto), per ritenere la compartecipazione criminosa occorre valutare la consapevolezza che la
condotta dell’agente sia specificamente diretta ad influenzare positivamente la volontà dei correi».
Con l’incerta attribuzione di un preciso ruolo nella vicenda delittuosa de quo, la Corte d’appello di Roma avrebbe altresì reso una motivazione priva del necessario approfondimento sull’elemento psicologico.
La stessa Corte d’appello avrebbe così anche omesso di dare risposta alle sollecitazioni che le erano state rivolte con il quarto motivo dell’atto di appello con i motivi nuovi di appello con riguardo al necessario approfondimento del ruolo da essa effettivamente svolto nella vicenda (la ricorrente riporta uno stralcio del proprio atto di appello nel quale era stato scritto, tra l’altro, che: l’imputata aveva «in alcun modo contribuito alla realizzazione, neppure a livello psicologico, dell’evento. Fragalà NOME non ha aderito al proposito incendiario del fratello, ma si è limitata a commentare la frase del fratello osservando che l’amico di NOME COGNOME, suo convivente, soprannominato COGNOME, sarebbe stato certamente disponibile ad eseguire un attentato»; il colloquio con suo fratello NOME del 19/02/2015 «si registra due mesi prima dell’attentato incendiario del 24/04/2015, senza che negli incontri successivi presso il carcere di Viterbo (da febbraio ad aprile 2015) l’argomento sia stato in alcun modo riproposto, a riprova dell’estemporaneità del commento fatto ad alta voce da NOME COGNOME privo di qualsivoglia aspetto concreto»; «la motivazione della sentenza impugnata non si è fatta carico neppure di ipotizzare un contributo morale da parte di COGNOME NOME, quale ipotetico rafforzamento del proposito criminoso esternato dal fratello NOME»).
Anche le dichiarazioni che furono rese in dibattimento da NOME COGNOME dimostrerebbero la contraddittorietà della motivazione.
Posto che l’ordine di dare fuoco al locale “La Salernitana” sarebbe stato impartito da NOME COGNOME direttamente a Santo D’Agata attraverso un bigliettino consegnato in carcere dallo stesso NOME COGNOME alla sorella NOME, la ricorrente evidenzia come nel proprio atto di appello avesse rappresentato che, per potere ipotizzare una sua responsabilità a titolo di concorso nei reati di cui a capi 5 e 6 dell’imputazione, sarebbe stato necessario dimostrare che essa, nel momento in cui ricevette dal fratello il menzionato bigliettino chiuso da consegnare al proprio convivente NOME COGNOME, era a conoscenza del contenuto dello stesso bigliettino e, quindi, dell’ordine, in esso contenuto, di dare fuoco al locale ” Salernitana”.
La Corte d’appello di Roma avrebbe omesso di motivare in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico quale concorrente nei due reati. Tale omissione si dovrebbe ritenere decisiva, atteso che «la mancata consapevolezza da parte di COGNOME NOME sul contenuto del biglietto consegnato a COGNOMENOME
Santo potrebbe, al più, integrare una ipotesi di semplice connivenza, non punibile».
La ricorrente ribadisce che nella propria condotta di mero nuncius di una volontà del fratello «non si intravede alcun rafforzamento consapevole della determinazione altrui né tantomeno, una adesione, consapevole e volontaria, ad un’azione delittuosa deliberata dal fratello NOME e da altri concretamente eseguita, in assenza di un proprio contributo di qualsiasi natura».
La ricorrente lamenta ancora che la propria tesi difensiva, che aveva illustrato anche nei motivi nuovi di appello, secondo cui la dichiarazione del collaboratore di giustizia NOME COGNOME «davo a mia sorella un bigliettino chiuso con lo scotch e lei lo portava a chi le dicevo» avrebbe dimostrato come «l’attività materiale svolta da COGNOME NOME fosse del tutto priva di consapevolezza in relazione a ciò che vi fosse scritto», non sarebbe stata esaminata dalla Corte d’appello di Roma, la quale non avrebbe fatto alcun riferimento alle dichiarazioni di NOME COGNOME sul punto.
4.1.2. Con il secondo motivo – relativo al trattamento sanzionatorio per il reato di cui al capo 5 dell’imputazione, ritenuto il più grave tra i due reati continuazione -, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione in quanto la Corte d’appello di Roma «ha omesso di indicare la cornice edittale applicabile alla fattispecie consumata e non ha indicato l’entità della diminuzione stabilita dall’art. 56 c.p. per il delitto tentato, giustificando, in maniera solo apparente, la scelta di infligge una pena detentiva superiore al minimo edittale».
La ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma, nel determinare la misura della pena per il più grave reato di tentata estorsione semplice (attesa la ritenuta esclusione delle contestate circostanze aggravanti) di cui al capo 5 dell’imputazione, ha «omesso di indicare la quota di pena riferita al reato più grave nella forma consumata senza, quindi, fornire alcuna giustificazione della entità della riduzione applicata per effetto della riconosciuta forma tentata del delitto», con la conseguenza che la pena irrogata per il suddetto delitto di cui al capo 5 risulterebbe «priva di idonea giustificazione mancando qualsiasi riferimento alla entità della diminuzione di pena operata ai sensi della norma che punisce il delitto tentato».
La ricorrente rappresenta in proposito che, se è vero che la Corte di cassazione ha riconosciuto che la determinazione della pena per il delitto tentato può essere effettuata anche con il cosiddetto metodo diretto o sintetico, ciò dovrebbe comunque essere coniugato con la necessità del contenimento della riduzione della pena prevista per il reato consumato nei limiti di legge e con
l’obbligo di dar conto in motivazione della scelta commisurativa adottata (è citata, in proposito, Sez. 5, n. 40020 del 18/06/2019, COGNOME, Rv. 277528-01).
La ricorrente contesta che la Corte d’appello di Roma non avrebbe fornito una giustificazione adeguata della propria scelta sanzionatoria, essendosi limitata a utilizzare la formula, asseritamente «vuota», della «gravità del fatto e contesto in cui si è svolto» (pag. 85 della sentenza impugnata), utilizzata dalla stessa Corte anche in sede di determinazione del trattamento sanzionatorio inflitto agli altri imputati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
La motivazione della determinazione della misura della pena sarebbe, perciò, apparente, giacché, quanto alla gravità del fatto, «non considera i diversi ruoli svolti dagli imputati nella programmazione, ideazione ed esecuzione della tentata estorsione di cui al capo 5» e, quanto al contesto in cui si sono svolti i fatti, «no tiene conto che ogni riferimento a vicende associative è precluso dalla assoluzione di tutti gli imputati dal relativo capo di imputazione (sub 1) perché il fatto no sussiste».
La Corte d’appello di Roma avrebbe omesso «ogni riferimento alla intensità del dolo che sostiene l’affermazione di colpevolezza di NOME e, soprattutto, ogni valutazione specifica della capacità a delinquere della odierna ricorrente, sulla base delle chiare indicazioni contenute nell’art 133, comma 2, c.p.».
4.1.3. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione per non avere la Corte d’appello di Roma fornito alcuna risposta, neppure implicita, alla richiesta, formulata con l’ottavo motivo del proprio atto di appello, di applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 114, terzo comma, cod. pen., in relazione all’art. 112, primo comma, n. 3), cod. pen., «per essere stata determinata a commettere i delitti di cui sopra, in quanto persona soggetta, per tradizione, cultura ed educazione ricevuta, all’autorità del fratello maggiore COGNOME.
Nel richiamare le considerazioni che aveva esposto nell’ottavo motivo del proprio atto di appello a sostegno del riconoscimento dell’invocata circostanza attenuante, la ricorrente lamenta che le stesse non avrebbero «trovato alcun riscontro, neppure implicito, nella motivazione della sentenza impugnata», del tutto priva di argomentazioni al riguardo.
4.1.4. Con il quarto motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche – che erano state richieste nel proprio atto di appello con specifico riferimento al ruolo di minima importanza avuto nella preparazione ed esecuzione dei reati di cui ai capi 5 e 6
dell’imputazione – in considerazione della gravità delle condotte in quanto commesse in un contesto «caratterizzato da un’abitudine “familiare” all’illiceità», nel quale, «on a caso la maggior parte è gravata da precedenti penali» (pag. 83 della sentenza impugnata).
La ricorrente contesta anzitutto l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui «per nessuno degli imputati sono stati messi in evidenza elementi positivi che possano indurre al riconoscimento delle suddette circostanze», lamentando che tale affermazione sarebbe incongrua e rivelerebbe una lettura sbrigativa e superficiale del nono motivo del proprio atto di appello, nel quale erano stati evidenziati gli elementi positivi che avrebbero giustificato la concessione delle richieste circostanze attenuanti (in particolare: «in considerazione del contributo di minima importanza fornito alla realizzazione dei reati, delle sue condizioni di vita, della necessaria tutela del suo ruolo di madre di una giovane adolescente, dell’assenza di precedenti penali, del limitatissimo periodo di coinvolgimento nelle vicende delittuose contestate (febbraio-aprile 2015) e della assenza di qualsiasi espressione di pericolosità sociale»).
NOME COGNOME contesta altresì che le giustificazioni del diniego delle circostanze attenuanti generiche erano state date dalla Corte d’appello di Roma mediante considerazioni comuni a tutti gli imputati, sicché le stesse giustificazioni si dovrebbero ritenere «prive della specificità richiesta dai criteri di cui all’art. c.p.» e integrerebbero un’«ingiustificata equiparazione tra le diverse posizioni di ciascun imputato».
Tale equiparazione delle posizioni di imputati appartenenti al medesimo nucleo familiare, di per sé ingiustificata, si rivelerebbe del tutto inadeguata «per la stessa particolarità delle imputazioni contestate», come risulterebbe dal fatto che ciascuno dei membri della famiglia COGNOME che era stato raggiunto da un verdetto di colpevolezza era stato ritenuto responsabile «per reati diversi, occasionati da circostanze particolari e non da una visione unitaria del gruppo», come era comprovato dal fatto che NOME COGNOME, diversamente da NOME, NOME e NOME COGNOME, non era mai stata neppure indagata per reati concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti ed era stata ritenut responsabile di una condotta di tentata estorsione «alla quale avrebbe offerto un contributo tanto poco significativo da confondersi con la connivenza non punibile» e alla quale non avevano fornito alcun contributo gli altri membri della famiglia COGNOME, a eccezione del solo NOME COGNOME.
NOME COGNOME rappresenta ancora che il concetto di «abitudine “familiare” all’illiceità», utilizzato dalla Corte d’appello di Roma, oltre a essere «no pertinente rispetto alle vicende del presente procedimento», si porrebbe anche in conflitto con il principio di personalità della responsabilità penale previsto nel primo
comma dell’art. 27 Cost. Ogni valutazione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. che pretenda di graduare le responsabilità individuali attraverso inammissibili generalizzazioni si dovrebbe considerare estranea ai principi fondamentali ai quali si ispira la Repubblica.
Ai fini dell’art. 62-bis cod. pen., non si potrebbe pertanto prescindere «da una doverosa verifica degli elementi che riguardano l’intensità del dolo e la capacità a delinquere dimostrata da ciascuno degli imputati», così come per i loro precedenti penali.
4.2. Il ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a tre motivi.
4.2.1. Con il primo motivo – relativo all’affermazione di responsabilità per i reati di cui ai capi 5 e 6 dell’imputazione -, la ricorrente deduce, in relazione all’a 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione degli artt. 110, 424 e 629, primo e secondo comma, cod. pen., e la carenza e illogicità della motivazione «con riguardo alle censure difensive contenute negli atti di appello».
La ricorrente contesta anzitutto l’illogicità e la contraddittorietà del motivazione in quanto la Corte d’appello di Roma «dapprima attribuisce alla ricorrente il ruolo di istigatrice dell’intera condotta delittuosa e poi di nuncius, messaggera di pizzini consegnatigli da NOME COGNOME», con la conseguenza che, dalla sentenza impugnata, non si comprenderebbe «quali siano il ruolo e la condotta attribuiti all’imputata».
La COGNOME lamenta poi che la Corte d’appello di Roma avrebbe fornito un’argomentazione carente e illogica in ordine alle doglianze che ella aveva avanzato nel proprio atto di appello in ordine all’assenza di un suo consapevole contributo concorsuale alla commissione dei reati (doglianze con le quali la COGNOME aveva tra l’altro rappresentato come: ella «si fosse limitata a ragguagliare il fratello NOME in ordine all’apertura della pasticceria in oggetto ed allo stato avanzamento dei relativi lavori», nonché «a riportare al fratello le determinazioni dei vari componenti della famiglia rispetto a tale preliminare accadimento»; «le iniziative dei membri della famiglia COGNOME sussistessero e venissero coltivate a prescindere dalle determinazioni di NOME»; ella «apparisse, piuttosto, mossa dall’esigenza di tutelare e sostenere l’attività commerciale paterna, senza alcun ruolo né nell’ideazione, né nella successiva esecuzione dei fatti», sicché la sua condotta non avrebbe avuto «alcuna valenza causale rispetto alle condotte illecite effettivamente poste in essere»).
La ricorrente afferma che i giudici di merito avrebbero ritenuto provato il suo concorso nei due reati a lei attribuiti sulla sola base della frase che era stata pronunciata da NOME COGNOME nel corso del colloquio con lei del 19/02/2015 «ma perché non gliela bruciano “La Salernitana”» e della risposta che ella gli aveva dato «se glielo dico a COGNOME, va subito»».
A tale proposito, la COGNOME evidenzia che, nel proprio atto di appello, aveva dedotto che la mera circostanza che ella avrebbe detto a NOME COGNOME che “COGNOME“, amico del suo compagno NOME COGNOME, sarebbe stato disponibile a compiere l’atto incendiario, non costituiva un elemento sufficiente ai fini dell’affermazione della sua responsabilità a titolo di concorso nel reato di danneggiamento seguito da incendio di cui al capo 6 dell’imputazione, atteso che tale captata conversazione del 19/02/2015 era anteriore di ben due mesi rispetto al compimento, il 28/04/2015, dell’atto incendiario. Nello stesso atto di appello, aveva in sintesi lamentato che, nella sentenza di primo grado, sarebbe mancata un’adeguata motivazione «in ordine all’effettivo rafforzamento criminoso da parte dell’imputata nei confronti del fratello NOME, limitandosi a definirla quale mero messaggero degli ordini impartiti da quest’ultimo» (del quale venivano trascritte le dichiarazioni che aveva reso nel corso dell’udienza del 07/04/2021).
Richiamate tali doglianze, che aveva avanzato nel proprio atto di appello, la ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma non avrebbe dato «alcun riscontro» alle stesse, lasciando così non sanato il denunciato deficit motivazionale della sentenza di primo grado.
La COGNOME lamenta ancora che la Corte d’appello di Roma sarebbe rimasta silente pure rispetto alla doglianza, anch’essa avanzata nel proprio atto di appello, con la quale aveva rappresentato come NOME COGNOME avesse affermato che i bigliettini che consegnava a sua sorella NOME erano chiusi con scotch, circostanza che avrebbe confermato che NOME COGNOME non ne conosceva il contenuto, e che dalle intercettazioni ambientali non era emerso che NOME COGNOME glielo avesse riferito a voce.
Ne discenderebbe l’assenza di consapevolezza in capo all’imputata, «considerata mero nuncius delle determinazioni del fratello NOME, del proposito criminoso proprio di quest’ultimo», e, quindi, l’assenza di consapevolezza dell’efficacia causale del proprio contributo alla condotta delittuosa, il quale contributo potrebbe al più essere inquadrato in una forma di connivenza non punibile.
La Corte d’appello di Roma, pertanto, da un lato, avrebbe violato le norme in tema di concorso di persone nel reato, dall’altro lato, avrebbe motivato in modo carente e illogico sulle censure difensive.
4.2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione di legge per la mancata applicazione dell’art. 114, primo e terzo comma, cod. pen., in relazione ai delitti di cui ai capi 5 e 6 dell’imputazione, e l’omessa motivazione sul punto.
NOME COGNOME contesta in primo luogo la mancanza della motivazione in ordine al motivo di appello (il dodicesimo; pagg. 31-32) con il quale aveva chiesto
che, in relazione ai reati di cui ai capi 5 e 6 dell’imputazione, le fosse riconosciut la circostanza attenuante cosiddetta della minima partecipazione di cui all’art. 114 (primo comma) cod. pen., sull’assunto che essa «non ha svolto alcun ruolo necessario per l’esecuzione dei delitti contestati, prestando un’opera di minima efficienza causale» (così il ricorso), nonché la conseguente violazione del suddetto invocato art. 114 cod. pen.
La ricorrente contesta in secondo luogo la mancanza della motivazione in ordine al motivo di appello, che era contenuto nell’atto di appello a firma dell’avv. NOME COGNOME con il quale aveva chiesto che, sempre in relazione ai reati di cui ai capi 5 e 6 dell’imputazione, le fosse riconosciuta la circostanza attenuante di cui al terzo comma dell’art. 114 cod. pen., nonché la conseguente violazione di tale invocata disposizione.
4.2.3. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen. e la carenza della motivazione con riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, nonché «all’eccessività del trattamento sanzionatorio, all’entità della diminuzione stabilita dall’art. 56 c.p. per il de tentato nonché in ordine alla lamentata eccessività degli aumenti disposti a titolo di continuazione».
NOME COGNOME lamenta in primo luogo la carenza di motivazione della sentenza impugnata in punto di diniego delle circostanze attenuanti generiche, deducendo, in particolare, che la Corte d’appello di Roma avrebbe «manca di offrire una adeguata motivazione ad personam», avrebbe reso una motivazione anapodittica e non avrebbe «valutato in concreto la censura difensiva relativa alla mancata applicazione dell’art. 62 bis c.p.», che sarebbe stato perciò violato.
La ricorrente lamenta in secondo luogo «naloga carenza» con riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio, deducendo, in particolare, che la Corte d’appello di Roma non si sarebbe «confronta con le doglianze difensive espresse in punto di dosimetria della pena, la quale veniva individuata in misura irragionevolmente e immotivatamente superiore al limite edittale» e non avrebbe «off alcuna giustificazione della entità della riduzione applicata per effett della riconosciuta forma tentata del delitto in esame». La ricorrente rappresenta a quest’ultimo proposito che, se è vero che la Corte di cassazione ha riconosciuto che la determinazione della pena per il delitto tentato può essere effettuata anche con il cosiddetto metodo diretto o sintetico, ciò dovrebbe comunque essere coniugato con la necessità del contenimento della riduzione della pena prevista per il reato consumato da uno a due terzi e con l’obbligo di motivazione della scelta operata (è citata, in proposito, Sez. 5, n. 3526 del 15/10/2013, dep. 2014, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 258461-01).
La ricorrente contesta in terzo luogo che la Corte d’appello di Roma avrebbe omesso di «confrontarsi adeguatamente rispetto alle censure mosse in punto di aumenti a titolo di continuazione», nonostante la necessità, affermata anche dalla Corte di cassazione, che il giudice indichi anche l’entità di ogni singolo aumento di pena per la continuazione e i criteri che hanno inciso sulla relativa quantificazione.
NOME COGNOME ha proposto due ricorsi, uno a firma dell’avv. NOME COGNOME e uno a firma dell’avv. NOME COGNOME.
5.1. Il ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a due motivi.
5.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per il reato di intermediazione nella fornitura di un quantitativo di sostanza stupefacente del tipo cocaina, per un valore di circa C 130.000,00, ceduto da NOME COGNOME a NOME COGNOME, di cui al capo 23 dell’imputazione, «in assenza di elementi che dimostrino, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’imputato o il soggetto cedente avessero la effettiva disponibilità della sostanza stupefacente oggetto di trattativa o che potessero agevolmente procurarsela. Vizio risultante dal testo del provvedimento».
NOME COGNOME contesta la conclusione della Corte d’appello di Roma secondo cui «vi sono numerose indicazioni che portano a ritenere la serietà della trattativa portata avanti dall’imputato, fino alla sua positiva conclusione» (pag. 79 della sentenza impugnata), a fronte della tesi difensiva secondo cui l’imputato non avrebbe «mai avuto alcuna disponibilità della droga venduta al Sardo e che la sua intenzione fosse, sin dall’inizio, di truffare il catanese , facendogli credere che avrebbe potuto acquistare un quantitativo di cocaina in realtà inesistente» (così a pag. 78 della sentenza impugnata).
Secondo il ricorrente, il principale, se non unico, elemento che avrebbe indotto la Corte d’appello di Roma alla suddetta trascritta conclusione sarebbe stato tratto dal contenuto dell’intercettata conversazione tra NOME COGNOME e NOME COGNOME che ebbe luogo il 17/03/2016 all’interno dell’abitazione di NOME COGNOME, contenuto dal quale la Corte d’appello: aveva tratto che l’Islami «lamenta con NOME l’inaffidabilità di NOME COGNOME contrapponendola alla serietà di NOME COGNOME, con il quale si dichiara disposto a lavorare ancora»; aveva «compre che l’albanese procura la sostanza stupefacente che i COGNOME, poi, rivendono e che lo stesso ha effettuato numerosi trasporti a Catania»; aveva ritenuto «lecito inferire, dunque, che NOME COGNOME avesse effettivamente rapporti con l’Islami e che non avrebbe avuto difficoltà a concludere un accordo per la fornitura di cocaina al Sardo da parte di questi, come indicato nel capo d’imputazione» (pag. 79 della sentenza impugnata).
Ciò detto, NOME COGNOME deduce che quest’ultima affermazione della Corte d’appello di Roma risulterebbe contraddetta dalla stessa sentenza impugnata, atteso che la stessa Corte d’appello lo aveva assolto dal reato di traffico illecito d sostanze stupefacenti di cui al capo 22 dell’imputazione per non aver commesso il fatto in quanto non era «emerso alcun elemento di prova che facesse emergere un contributo causalmente attivo dell’imputato alla consumazione del reato» (pag. 75 della sentenza impugnata).
Secondo il ricorrente, la manifesta illogicità della motivazione si coglierebbe esaminando i seguenti aspetti: a) la Corte d’appello di Roma avrebbe desunto che egli «non avrebbe avuto difficoltà a concludere un accordo per la fornitura di cocaina al Sardo» muovendo da una premessa del tutto indimostrata nel processo, nell’ambito del quale non sarebbe stato comprovato alcun rapporto pregresso tra NOME COGNOME e NOME COGNOME finalizzato alla compravendita di stupefacenti (come risultava anche dall’assoluzione dal reato di cui al capo 22 dell’imputazione); b) lo stesso assunto della Corte d’appello di Roma secondo cui egli «non avrebbe avuto difficoltà a concludere un accordo per la fornitura di cocaina al Sardo» sarebbe «privo di concretezza rispetto alla genericità della conversazione intercorsa il 17 marzo 2016 tra COGNOME NOME e COGNOME NOME, che, a tutto voler concedere, riguarda ipotizzati acquisti da parte dei COGNOME di quantitativi di sostanza stupefacente tipo marijuana (come da contestazione al capo 22)», e non tipo cocaina, con la conseguenza che la diversa tipologia di sostanza stupefacente cui si faceva riferimento nella suddetta conversazione non autorizzerebbe la conclusione della Corte d’appello, che si dovrebbe ritenere perciò fondata su una motivazione «meramente assertiva ed autoreferenziale»; c) l’interpretazione del fatto che, nel corso della conversazione del 17/03/2016 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, quest’ultimo non avesse fatto accenno alla vicenda in considerazione, come espressione della ribadita (da parte dell’Islami) serietà di NOME COGNOME («continua a ribadire la serietà d NOME COGNOME»; pag. 80 della sentenza impugnata). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
NOME COGNOME lamenta poi anche che la Corte d’appello di Roma avrebbe omesso di confrontarsi con le censure che egli aveva avanzato nel proprio atto di appello, avendo in particolare omesso di esplorare la questione dell’effettiva disponibilità, da parte sua, dello stupefacente oggetto della trattativa e ritenendo integrato il reato dal semplice raggiungimento dell’accordo perfezionativo del contratto di compravendita, anche senza la consegna dello stupefacente.
Il ricorrente deduce che la mancanza di elementi riguardo alla suddetta disponibilità non potrebbe essere «controbilanciata» dal fatto che egli, nel viaggio che aveva compiuto a Catania nell’ottobre del 2015, si era fatto accompagnare da NOME COGNOME, sodale dell’Islami, accompagnamento che la Corte d’appello di Roma
aveva ritenuto finalizzato a «poter delineare con maggior precisione i dettagli della fornitura che doveva essere effettuata» dall’Islami (pag. 79 della sentenza impugnata).
NOME COGNOME asserisce che, nel motivare la propria decisione, la Corte d’appello di Roma non si sarebbe neppure confrontata con i principi affermati dalla Corte di cassazione, in particolare con il principio, statuito da Sez. U, n. 22471 de 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263716-01, secondo cui la condotta criminosa di «offerta» di sostanze stupefacenti si perfeziona nel momento in cui l’agente manifesta la disponibilità a procurare ad altri droga, indipendentemente dall’accettazione del destinatario, a condizione, tuttavia, che si tratti di un’offe collegata a un’effettiva disponibilità, sia pure non attuale, della droga, per ta intendendosi la possibilità di procurare lo stupefacente ovvero di smistarlo in tempi ragionevoli e con modalità che “garantiscano” il cessionario.
Il ricorrente sostiene che il ruolo di intermediario, che gli è stato attribu dalla Corte d’appello di Roma, avrebbe anch’esso richiesto l’accertamento che egli, o il suo “«”mandante”», individuato in NOME COGNOME avesse la disponibilità effettiva, anche se non attuale, della cocaina offerta in vendita a NOME COGNOME e per la fornitura della quale il COGNOME aveva già corrisposto la quasi totalità d prezzo (C 130.000,00 a fronte degli C 150.000,00 pattuiti).
Tale necessario accertamento sarebbe del tutto mancato da parte della Corte d’appello di Roma, la quale si sarebbe limitata a ribadire «la serietà della trattativ portata avanti dall’imputato» su mandato dell’Islami, «senza nulla argomentare sul tema, di per sé decisivo, della disponibilità della sostanza stupefacente offerta all’acquirente». La mera esistenza della suddetta trattativa, il raggiungimento dell’accordo tra NOME COGNOME e NOME COGNOME con la corresponsione della quasi totalità del prezzo della droga, non consentirebbero di ritenere che i fornitori della cocaina o il loro intermediario avessero la disponibilità della droga che avevano offerto in vendita o, quantomeno, la «agevole e probabile possibilità di procurarsela». Non sarebbe stato dimostrato né che l’imputato agisse su mandato di NOME COGNOME né che questi avesse la disponibilità della droga che il COGNOME avrebbe dovuto acquistare e fosse disponibile a consegnarla all’imputato «per il successivo recapito nelle mani dell’acquirente».
NOME COGNOME invoca in proposito Sez. 3, n. 34396 del 18/06/2021, Sestito, non massimata, la quale, con riguardo a una vicenda asseritamente analoga, ha ritenuto l’insufficienza, al fine di poter affermare che gli imputa avessero la disponibilità della droga da essi offerta in vendita, d un’argomentazione fondata sulle sole consegna di un campione ed esistenza di trattative per l’acquisto della droga da rivendere, e sottolinea che, nel caso in esame, NOME COGNOME cioè il soggetto che NOME COGNOME aveva portato con sé
a Catania a garanzia della serietà della propria offerta, non aveva con sé neppure un campione della sostanza stupefacente e aveva più volte manifestato l’intenzione di «lasciare Catania prima possibile per evitare una sua eccessiva esposizione».
Secondo NOME COGNOME la manifesta illogicità e il carattere anapodittico e omissivo della motivazione della Corte d’appello di Roma secondo cui la serietà dimostrata dall’imputato e la sua pregressa esperienza nel settore del traffico degli stupefacenti dimostrerebbero la presenza anche dell’elemento decisivo del reato costituito dalla disponibilità, da parte sua o di NOME COGNOME della sostanza stupefacente, nel senso della concreta possibilità di procurarsela, non potrebbe essere superata neppure dall’utilizzo, da parte della stessa Corte d’appello, di massime di esperienza.
5.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 597, commi 3 e 4, cod. proc. pen., là dove la Corte d’appello di Roma, essendo appellante il solo imputato, ha irrogato, sulla pena a lui inflitta per il più grave reato di cui al 23 dell’imputazione, un aumento per la riconosciuta recidiva specifica di tre anni e sei mesi di reclusione ed € 15.000,00 di multa, aumento che non era stato applicato dal Tribunale di Velletri, con le conseguenti violazione del divieto d reformatio in peius e determinazione di una pena illegale.
Il ricorrente rappresenta che: 1) il Tribunale di Velletri, pur avendo riconosciuto la «sussistenza della contestata recidiva specifica» (pag. 231 della sentenza di primo grado), non aveva operato alcun incremento sanzionatorio riferibile a tale circostanza aggravante (pagg. 232 della sentenza di primo grado); 2) la Corte d’appello di Roma, nel ritenere reato più grave quello di cui al capo 23 dell’imputazione (e non più quello di cui al capo 7 dell’imputazione, per il quale tutti gli imputati erano stati da essa assolti), ribadito che «sussistono tut presupposti di legge per il riconoscimento della recidiva come contestata a NOME COGNOME» (pag. 84 della sentenza impugnata), operava, per tale circostanza aggravante, ai sensi dell’art. 99, secondo comma, cod. pen., un aumento di pena di tre anni e sei mesi di reclusione ed € 15.000,00 di multa.
Ciò posto, il ricorrente sostiene che: a) in assenza di un aumento di pena per la recidiva da parte del Tribunale di Velletri, come pure di una confluenza di tale circostanza aggravante nel giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti eterogenee, la recidiva non poteva ritenersi applicata da parte dello stesso Tribunale (è citata, in tale senso: Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275319-01); b) in mancanza, pertanto, di una concreta applicazione della recidiva da parte del Tribunale di Velletri, la Corte d’appello d Roma, essendo appellante il solo imputato, per il divieto di reformatio in peius,
non avrebbe potuto irrogare, come invece ha fatto, un aumento di pena per la suddetta circostanza aggravante (è citata, in tale senso: Sez. 1, n. 23708 del 15/07/2020, Bixi, Rv. 279523-01, con la quale la Corte di cassazione ha affermato che incorre nella violazione del divieto di reformatio in peius il giudice di appello che, in assenza di impugnazione del pubblico ministero, computi l’aumento di pena per un’aggravante ritenuta dal primo giudice, ma erroneamente non computata nella determinazione del trattamento sanzionatorio), dovendosi, altresì, rammentare che le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che il divieto di reformatio in peius non riguarda solo l’entità complessiva della pena ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, NOME COGNOME, Rv. 232066-01).
Il ricorrente chiede pertanto che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio «limitatamente all’applicazione della recidiva, con esclusione dell’aumento di pena illegittimamente applicato nella misura di tre anni e sei mesi di reclusione ed Euro 15 mila di multa».
5.2. Il ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a quattro motivi.
5.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione degli artt. 10, 12 e 14 della legge n. 497 del 1974 e la carenza e illogicità della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico illegali di una pistola calibro 7,65 di cui al capo dell’imputazione.
Dopo avere rammentato che l’unico elemento sul quale sia il Tribunale di Velletri sia la Corte d’appello di Roma hanno fondato l’affermazione della sua responsabilità per tali due reati è costituito dal contenuto dell’intercetta conversazione tra l’imputato e suo zio NOME COGNOME che ebbe luogo il 14/11/2015 (come indicato alla pag. 150 della sentenza di primo grado) o il 19/11/2015 (come indicato alla pag. 54 della sentenza di secondo grado) secono la sentrenza di pagall’interno dell’abitazione di quest’ultimo, il ricorren rappresenta che, nel proprio atto di appello, aveva dedotto come tale conversazione si dovesse ritenere «irrilevante», sia «per non essere risultata sostenuta da alcun ulteriore riscontro», sia, soprattutto, «per essere stata la medesima propalata in un contesto familiare, che non offriva alcuna garanzia di genuinità», con la conseguenza che la stessa conversazione non avrebbe potuto ritenersi «un indizio grave, resistente a possibili obiezioni, stante proprio il [s carattere generico».
Ciò rammentato, NOME COGNOME contesta la motivazione con cui la Corte d’appello di Roma ha rigettato la doglianza con cui egli aveva sostenuto che la
menzionata conversazione avrebbe avuto valore di mero indizio, affermandone, invece, il valore di piena prova in ragione del contenuto autoaccusatorio delle affermazioni dell’imputato, e deduce in proposito come il significato della stessa conversazione non sarebbe connotato da quei caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati e assenza di ambiguità, necessari affinché la ricostruzione del significato non lasci margini di dubbio, che sono richiesti dalla Corte di cassazione in tema di accertamento del significato delle conversazioni intercettate (è citata: Sez. 6, n. 487 del 06/10/2016, dep. 2017, D.P.M., non massimata), atteso che le affermazioni dell’imputato rappresenterebbero, «al più, una millanteria [… che avrebbe potuto assurgere al rango di prova solo in presenza di un’eventuale dichiarazione di NOME COGNOME circa l’effettiva constatazione del possesso dell’arma da parte di NOME».
5.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, e l’illogicità della motivazione, oltre che la s «apparenza rispetto alle argomentazioni difensive esposte negli atti di appello», con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per il reato di traffico illeci di sostanze stupefacenti, del tipo cocaina, di cui al capo 23 dell’imputazione.
NOME COGNOME espone che nel proprio atto di appello aveva in particolare dedotto: come «la cocaina non fosse mai stata consegnata al COGNOME»; che «il Tribunale avrebbe dovuto soffermarsi sul contributo offerto dal collaboratore NOME COGNOME il quale ha affermato che “il signor COGNOME ha fatto questa truffa che è sparito con i soldi”», elemento che sarebbe stato dimostrativo dell’insussistenza del reato contestato; come egli «avesse ideato, organizzato e portato a termine una mera truffa nei confronti del COGNOME»; che «difetta la prova del raggiungimento di un accordo effettivo sulla consegna della sostanza stupefacente in cambio del pagamento dei 130 mila euro».
Ciò esposto, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe argomentato in modo illogico e apparente con riguardo a tali deduzioni, contenute nel proprio atto di appello.
La motivazione della sentenza impugnata sarebbe illogica, in particolare, là dove la Corte d’appello di Roma pretenderebbe di fondare la ritenuta responsabilità dell’imputato sul contenuto della conversazione intercorsa (il 17/03/2016) tra suo zio NOME COGNOME e NOME COGNOME e, specificamente, là dove la stessa Corte d’appello afferma che da tale conversazione « lecito inferire, dunque, che NOME COGNOME avesse effettivamente rapporti con l’Islami e che non avrebbe avuto difficoltà a concludere un accordo per la fornitura di cocaina al Sardo da parte di questi».
Secondo il ricorrente, tale argomentazione «si traduce in un ingiustificata illazione, non supportata da alcuna congrua motivazione», giacché l’assunto della Corte d’appello di Roma circa «la facilità di reperimento, per l’odierno ricorrente, della sostanza stupefacente del tipo cocaina, è privo di concretezza rispetto alla intercettazione intercorsa il 17 marzo 2016 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME che, a tutto voler concedere, riguarda ipotizzati acquisti da parte dei COGNOME di quantitativi di sostanza stupefacente del tipo marijuana, oggetto di imputazione di cui al capo 22».
NOME COGNOME contesta ancora che la Corte d’appello di Roma, per supplire alla mancanza di prova circa l’effettiva disponibilità della droga (come è richiesto dalla già citata Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar), sarebbe ricorsa «ad una mera congettura».
Ad avviso del ricorrente, gli indizi raccolti mediante la menzionata intercettazione telefonica sarebbero privi dei necessari caratteri di gravità precisione e concordanza come definiti da Sez. 6, n. 3882 del 04/11/2011, dep. 212, COGNOME, Rv. 251527-01, atteso che la Corte d’appello di Roma «ribadisce la propria convinzione circa la serietà dell’accordo, omettendo tuttavia di indagare sulla effettiva disponibilità della sostanza stupefacente», così fornendo «una motivazione che risulta del tutto apodittica, che procede per assunti che non risultano sostenuti da alcun corredo probatorio».
5.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 60 comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione del divieto di reformatio in peius, «in punto di applicazione della contestata recidiva».
Dopo avere indicato che il Tribunale di Velletri, ancorché avesse riconosciuto la «sussistenza della contestata recidiva specifica» (pag. 231 della sentenza di primo grado), tuttavia, «nella determinazione della pena da irrogare, si determinava a non applicare l’aumento per l’aggravante», il ricorrente lamenta che, in presenza dell’appello del solo imputato, la Corte d’appello di Roma, dopo avere individuato la pena base per il più grave reato di cui al capo 23 dell’imputazione, la aumentava di tre anni e sei mesi di reclusione ed € 15.000,00 di multa in ragione della recidiva specifica, così violando il divieto di reformatio in peius, atteso che esso, come è stato chiarito dalla Corte di cassazione, riguarda non solo l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione (è citata, al riguardo: Sez. 1, n. 3827 del 23/01/2018, Abastante, non massimata).
5.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 60 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., «violazione di legge e vizio di motivazione nella forma della carenza» con riguardo alla mancata concessione delle circostanze generiche e con riguardo «alla eccessività del trattamento sanzionatorio, nonché
in ordine alla lamentata eccessività degli aumenti disposti a titolo di continuazione».
NOME COGNOME contesta anzitutto la motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma gli ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche (pag. 83 della sentenza impugnata), in quanto non «idonea», «apodittica, «carente», poiché «generica che vale per tutti gli imputati» e, quindi, anche lesiva del principio di cui all’art. 27, primo comma, Cost. – «secondo cui la responsabilità penale è personale e la pena deve soggettivamente orientarsi» in relazione alla gravità del reato e alla personalità del reo -, ciò che richiederebb «una adeguata motivazione ad personam» e non consentirebbe «una inammissibile generalizzazione» come quella operata dalla Corte d’appello di Roma. Dopo avere affermato che le circostanze attenuanti generiche sono «previste proprio al fine di realizzare l’obiettivo della cosiddet “individualizzazione della sanzione”», il ricorrente lamenta anche che la Corte d’appello di Roma non avrebbe valutato in concreto la propria censura relativa alla mancata applicazione delle suddette circostanze attenuanti.
In secondo luogo, NOME COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma «manca di confrontarsi adeguatamente rispetto alle censure mosse in punto di aumenti disposti a titolo di continuazione», nonostante il principio, affermato dalla Corte di cassazione, secondo cui il giudice deve indicare espressamente sia l’entità di ogni singolo aumento per la continuazione sia i criteri che hanno inciso sulla quantificazione.
Il ricorso di NOME COGNOME, a firma dell’avv. NOME COGNOME, è affidato a sei motivi.
6.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo al ritenuto suo concorso nei reati di tentata estorsione e di danneggiamento seguito da incendio di cui ai capi 5 e 6 dell’imputazione.
Dopo avere premesso che il vizio di mancanza della motivazione comprenderebbe anche il caso della sentenza di appello che contenga «argomentazioni e dimostrazioni del convincimento del giudice prive di completezza in relazione alle doglianze difensive formulate nei motivi di appello», il ricorrente deduce che, nel proprio atto di appello, aveva rappresentato che «non vi era alcun elemento probatorio circa il concreto contributo che il COGNOME avrebbe apportato alle ipotesi delittuose a lui ascritte» e aveva sottolineato, a conferma di ciò, «l’errata ovvero maliziosa ermeneusi del compendio captativo, che non aveva avuto alcun riscontro oggettivo (neppure nel narrato del
collaboratore di giustizia NOME COGNOME nonché la lacunosità del provvedimento di primo grado laddove riteneva la penale responsabilità del ricorrente».
Ciò detto, il COGNOME lamenta «l’omessa motivazione in parte qua» o la natura apparente o inammissibilmente per relationem della stessa motivazione, in quanto la Corte d’appello di Roma «sembra mutuare passivamente alcuni spunti motivazionali del dictum di prime cure, senza operare criticamente una rivalutazione del materiale istruttorio alla luce dei motivi di gravame», come sarebbe dimostrato dall’affermazione della stessa Corte d’appello secondo cui la prova della responsabilità del COGNOME risiederebbe nel contenuto delle conversazioni telefoniche che erano intercorse il 24/04/2015 prima tra NOME COGNOME e NOME COGNOME e poi tra quest’ultimo e la sua compagna NOME COGNOME
Il ricorrente ribadisce che, nelle ipotesi in cui, come nel caso in esame, «l’imputato con precise considerazioni svolga specifiche censure su uno o più punti della prima pronuncia, nel dettaglio sottolineando l’assenza di qualsivoglia ulteriore elemento probatorio, quale ad esempio un narrato testimoniale, presentato dall’Accusa a supporto dell’interpretazione tutt’altro che univoca della dubbia ed equivoca prefata conversazione» (in particolare, quella tra NOME COGNOME e NOME COGNOME), il giudice di appello dovrebbe rispondere alle doglianze prospettate e incorre nel vizio di motivazione se si limita a respingerle e a richiamare la contestata motivazione senza farsi carico di argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione.
6.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per il reato di detenzione per la vendita a terzi in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente del tipo marijuana e hashish di cui al capo 17 dell’imputazione.
NOME COGNOME contesta anzitutto l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui «a precisato, tuttavia, che la condotta attribuibile agli imputati sulla base di tali conversazioni è quella della detenzione di un indeterminato quantitativo di hashish destinato alla cessione a terzi» (pag. 57 della sentenza impugnata).
Secondo il ricorrente, tale affermazione della Corte d’appello costituirebbe «un’illazione, peraltro erronea e travisata, in quanto contrastante con lo stesso dictum di prime cure» – nel quale il Tribunale di Velletri aveva esposto che la sostanza che il COGNOME aveva portato in visione ad NOME COGNOME era «verosimilmente marijuana» (pag. 164 della sentenza di primo grado) – e, perciò,
ictu ()culi illogica ed erronea, poiché «frutto di una congettura presuntiva che non trova alcun riscontro nel vasto compendio probatorio».
Secondo GLYPH NOME GLYPH COGNOME, GLYPH «il GLYPH climax GLYPH motivazionale, GLYPH nell’ottica dell’apoditticità» sarebbe raggiunto dalla Corte d’appello di Roma là dove essa afferma conclusivamente che «uanto appena detto non consente di quantificare lo stupefacente detenuto in concorso da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME».
Il ricorrente deduce ancora che la motivazione dell’affermazione della sua responsabilità per «la condotta di illecita detenzione delle suddette sostanze» (pag. 58 della sentenza impugnata) sarebbe illogica alla luce di quanto egli aveva dedotto nel proprio atto di appello, nel quale aveva rappresentato come: il Tribunale di Velletri avesse «applicato un mera presunzione per ricostruire e fondare la penale responsabilità per un traffico ingente di stupefacenti»; «nessuno degli imputati, seppur intercettati, pedinati per mesi, avesse mai fatto alcun accenno al quantitativo della sostanza stupefacente, al prezzo della stessa, alla modalità della consegna, alla provenienza della stessa, al suo contenuto narcotico, al principio attivo rilevabile»; non vi fosse alcuna conferma che l’incontro per la cessione della sostanza stupefacente ipotizzato dall’accusa si fosse poi effettivamente verificato.
6.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per il concorso nel reato di detenzione a fini di spaccio di 20 grammi di sostanza stupefacente del tipo cocaina di cui al capo 19 dell’imputazione e il travisamento della prova costituita dalla conversazione del 09/08/2015 tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME RIT. 3197/15, progressivo n. 2163.
Dopo avere rammentato che, nel proprio atto di appello, aveva lamentato che il Tribunale di Velletri aveva affermato la sua responsabilità esclusivamente sul contenuto di tale conversazione, «senza che fosse emerso durante l’istruttoria alcun riscontro oggettivo e fattuale di tale condotta di spaccio», NOME COGNOME contesta l’argomentazione della Corte d’appello di Roma secondo cui «non vi sono ragioni per ritenere che NOME COGNOME stia raccontando il falso ad NOME COGNOME e, nel contempo, è stata accertata la partecipazione del COGNOME in condotte concernenti la violazione della normativa sugli stupefacenti proprio nel medesimo periodo, come visto nell’analisi del capo 17 dell’imputazione. È fondato, pertanto, ritenere che il COGNOME affermi il vero e che, dunque, abbia ceduto venti grammi di cocaina a Blerim Sulejmani, per il prezzo di 500,00 Euro, perché quest’ultimo potesse, a sua volta, spacciarla» (pag. 70 della sentenza impugnata).
Secondo il ricorrente, tale argomentazione sarebbe anapodittica «e priva di riscontri» e si tradurrebbe in una motivazione illogica, «chiaro frutto del travisamento di una prova», oltre che insufficiente per poter affermare la sussistenza del reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
Dopo avere trascritto l’affermazione della Corte d’appello di Roma che «la mancanza di precise indicazioni in ordine alla percentuale di principio attivo in essa contenuta, induce a qualificare il fatto come rientrante nella fattispecie lieve di c all’articolo 73, comma 5, del D.P.R. 309/90», il Sulejmani contesta che: poiché la Corte d’appello «ha omesso di motivare compiutamente in ordine alla partecipazione del ricorrente al reato contestato, appare evidente il mancato rispetto dei canoni giurisprudenziali in tema»; «la prefata utilizzazione di un’informazione inesistente, qual è quella della presunta esistenza di una sostanza drogante con un eventuale principio attivo non meglio precisato, compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, dal momento che il convincimento circa la sussistenza del reato di cui all’art. 73 DPR 309/90 si fonda su una prova che non esiste nel fascicolo processuale».
6.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’inosservanza e/o l’erronea applicazione dell’art. 27 Cost. e dell’art. 133 cod. pen., e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in «relazione alla applicazione di una pena di gran lunga superiore al minimo edittale».
Il COGNOME contesta la motivazione offerta dalla Corte d’appello di Roma in punto di determinazione in misura superiore al minimo edittale (segnatamente, nella misura di quattro anni e sei mesi di reclusione ed C 1.000,00 di multa) della pena per il più grave reato (tra quelli in continuazione) di tentata estorsione di cui al capo 5 dell’imputazione – motivazione con cui la suddetta determinazione è stata giustificata «per la gravità del reato e per il contesto in cui si è svolto» lamentando come tale giustificazione sarebbe meramente apparente o fittizia, in quanto si risolverebbe in una mera formula di stile o stereotipa, poiché «priva di effettivi riferimenti alla condotta concretamente posta in essere dal ricorrente ovvero alla sua effettiva personalità e capacità a delinquere», e, quindi, inidonea a fare ritenere assolto l’onere motivazionale, non consentendo di individuare le reali ragioni della decisione.
Anche le argomentazioni offerte dalla Corte d’appello di Roma «nel giudizio svolto ai fini della quantificazione dell’aumento di pena» sarebbero, secondo il ricorrente, «del tutto insufficienti e tautologiche, concretandosi in un generico richiamo ai criteri di cui all’art. 133 c.p. privo di significato», e si sarebbero trad «in aumento eccessivo della pena».
Nell’affermare che il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena «si riflette sul meccanismo delineato nell’art. 133 c.p., orientando il potere discrezionale del giudice», il ricorrente deduce che, «onseguentemente, risulta palese l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale compiuta dall’impugnata sentenza».
6.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza e/o l’erronea applicazione dell’art. 99, quarto comma, cod. pen., e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in «relazione all’omessa esclusione della recidiva 99 comma 4 c.p.»
Dopo avere richiamato il principio affermato da Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Celibe, Rv. 247838-01, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma, nel confermare l’applicazione della contestata recidiva (reiterata, specifica e infraquinquennale), in contrasto con il suddetto principio, «dimentica completamente di valutare non solo la risalenza nel tempo dei citati precedenti nonché la diversa natura degli stessi rispetto a quelli contestati al Sulejmani relativa alla violazione della Legge Stupefacenti», con il conseguente «difetto di motivazione».
6.6. Con il sesto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l’inosservanza dell’art. 546, comma 3, dello stesso codice, e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione.
Il COGNOME lamenta che, nonostante egli, come gli altri coimputati di tale reato, sia stato assolto dal reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., nel disposit della sentenza impugnata, con riguardo ai capi 5 e 6 dell’imputazione, non è espressamente menzionata l’esclusione delle contestate circostanze aggravanti di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3), cod. pen., e di cui all’art. 7 del d.l. 13 magg 1991, n. 152, conv. con modif. dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (poi art. 416bis.1 cod. pen.); esclusione che era stata invece correttamente disposta per la coimputata NOME COGNOME.
Ne discenderebbe il contrasto tra la motivazione della sentenza impugnata, nella quale «la Corte di Appello riteneva che il ricorrente, come d’altronde tutti coimputati, dovesse andare assolto dal reato p. e p. dall’art. 416 bis c.p. non rilevando alcun vincolo associativo tra gli stessi e a fortiori di connotazione mafiosa», e il dispositivo della stessa sentenza, in quanto in esso «non si rinviene l’esclusione dello status associativo allorquando lo stesso costituisca un’aggravante come nella tentata estorsione contestata al capo 5 o nel danneggiamento seguito da incendio di cui al capo 6» (il ricorrente evidenzia anche
che tale «esclusione è stata chiaramente indicata per i residui capi di incolpazione»).
Il COGNOME sostiene che, nel caso di specie, si dovrebbe «dar prevalenza alla parte motiva, sia per pacifico orientamento giurisprudenziale sia perché il provvedimento impugnato pervenendo ad un’assoluzione del ricorrente dal reato associativo ha sicuramente escluso anche la sussistenza delle aggravanti allo stesso collegat». La ritenuta insussistenza dell’associazione di tipo mafioso “clan COGNOME” sarebbe infatti tale da «logicamente escludere anche il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 628 n. 3 e 416 bis c.p. di cui ai capi 5 e 6 (venendo meno l’esistenza dell’associazione criminale che sarebbe stata agevolata dalle condotte in questione)».
Il ricorso di NOME COGNOME, a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a quattro motivi.
7.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), c), d) ed e), cod. proc. pen., la nullità della sentenza impugnata per inosservanza ed erronea applicazione della legge processuale, nonché per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
Il COGNOME lamenta che, mentre nella motivazione della sentenza impugnata egli era stato assolto dal reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1 dell’imputazione, così come i coimputati dello stesso reato, «per insussistenza di qualsivoglia vincolo associativo e di connotazione mafiosa», ciò nonostante, nel dispositivo della stessa sentenza «non si legge la medesima esclusione dello status associativo a titolo di circostanza aggravante», atteso che, nello stesso dispositivo, egli veniva dichiarato responsabile dei reati di cui ai capi 5, 6, 17 e 2 dell’imputazione senza la «dovuta» esclusione delle circostanze aggravanti di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3), cod. pen., e all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 ( art. 416-bis.1 cod. pen.), con la conseguente evidenziata discrasia tra motivazione e dispositivo.
Il ricorrente deduce che si dovrebbe dare prevalenza alla parte motiva della sentenza impugnata, «come da pacifico orientamento giurisprudenziale, nonché perché sarebbe illogica l’assoluzione del ricorrente dal reato associativo con mancata esclusione delle aggravanti allo stesso collegat».
Il COGNOME chiede perciò l’annullamento della sentenza impugnata «relativamente alla mancata esclusione delle circostanze aggravanti di cui agli artt. 416 bis e 628, n. 3, cod. pen. per i reati imputati al ricorrente ai n. 5, 6, 1 e 22 del capo di imputazione».
7.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della
motivazione, con riguardo al ritenuto suo concorso nei reati di tentata estorsione di cui al capo 5 dell’imputazione e di danneggiamento seguito da incendio di cui al capo 6 dell’imputazione.
Il COGNOME contesta che la motivazione della sentenza impugnata, nel confermare quella di primo grado, si sarebbe limitata ad aderire alla stessa in maniera anapodittica, «mutua passivamente spunti motivazionali del dictum di prime cure», senza dare riscontro agli specifici motivi di appello, con i quali egli aveva lamentato: a) che l’affermazione della propria responsabilità era stata fondata sull’ordine di NOME COGNOME, da lui riferito, di incendiare il locale ” Salernitana”, «ma di cui non si ha contezza né della ricezione né tanto meno della sua esecuzione»; b) l’assenza di efficacia probante del contenuto delle conversazioni tra il COGNOME e NOME COGNOME e tra lo stesso COGNOME e la sua compagna NOME COGNOME che erano state intercettate la sera dell’attentato incendiario (24/04/2015), «che il Tribunale riteneva criptiche, nonostante il chiaro significato».
Da ciò la carenza e/o apparenza della motivazione, «stante l’assenza di valutazione critica in relazione alle specifiche argomentazioni difensive esposte nell’atto di appello».
Una motivazione «che deve ritenersi per relationem e, quindi, non ammissibile», con la conseguente sussistenza del vizio di cui alla lett. e) del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. pen.
7.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per il reato di detenzione per la vendita a terzi di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente di cui al capo 17 dell’imputazione.
Il COGNOME deduce che la motivazione sarebbe «erronea e travisata, perché dal raffronto con il dictum della sentenza di primo grado, si sostanzia in una congettura presuntiva, priva di riscontro nel compendio probatorio».
Il ricorrente rappresenta che, poiché si versa in un’ipotesi di droga cosiddetta “parlata”, «priva di riscontri oggettivi», nel proprio atto di appello aveva contestat «il mancato assolvimento dell’onere di motivazione rigorosa, dovuto e necessario come da orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità».
Ciò nonostante, la Corte d’appello di Roma, pur a fronte della richiesta di assoluzione da parte del Procuratore generale, «consapevole dell’assenza di elementi di prova, ricorrendo alla medesima motivazione scarna ed apparente ha ritenuto di confermare la colpevolezza del ricorrente».
Ad avviso del COGNOME sarebbe emblematico del carattere anapodittico della motivazione il passo di essa in cui la Corte d’appello di Roma afferma che
«uanto appena detto non consente di quantificare lo stupefacente detenuto in concorso da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME», atteso che tale passo costituirebbe «prova del ricorso alla presunzione da parte del giudice di prime cure nella ricostruzione e giustificazione della penale responsabilità dell’imputato, fatto proprio dai giudici dell’appello».
La Corte d’appello di Roma, «dunque, al netto di qualsivoglia riscontro oggettivo, ha ritenuto di confermare la sentenza gravata, senza dar conto della fondatezza o infondatezza dei motivi di impugnazione, così sposando la carente motivazione del giudice di prime cure».
7.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo al reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente acquistata da NOME COGNOME di cui al capo 22 dell’imputazione, oltre che «travisamento della prova e violazione di legge».
Il COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe omesso di valutare i suoi specifici motivi di appello, con i quali aveva dedotto la carenza delle risultanze probatorie che erano state poste dal Tribunale di Velletri a fondamento della pronuncia di condanna, in quanto dette risultanze «si risolvevano in censure per non meglio provate e motivate mancanze, che avrebbe avuto nei confronti di COGNOME e COGNOME, con riferimento a indeterminati, non circostanziati e generici viaggi compiuti in suo favore a Catania. Viaggi di cui non si conoscono le circostanze di luogo e di tempo, né la natura della merce trasportata né tanto meno il luogo di destinazione», essendo egli stato «ritenuto colpevole sulle dichiarazioni, non riscontrate, di Islami in termini di sfogo verso il COGNOME NOME, non potendo ivi neppure discutersi di “droga parlata”, né ricondurre i fatti ad un determinato momento storico rispetto al capo di imputazione».
Ciò rammentato in ordine alle censure che aveva proposto con il suo atto di appello con riguardo «all’evidente lacuna probatoria sollevata», il ricorrente, nel trascrivere la motivazione della sentenza impugnata (in particolare, gli ultimi cinque capoversi della pag. 76), afferma che la Corte d’appello di Roma le avrebbe ignorate.
Il COGNOME afferma che la trascritta motivazione sarebbe «apodittica, apparente e priva di riscontri» e non avrebbe «tenuto conto dei motivi di gravame sollevati» e rappresenta al riguardo che «elle conversazioni, meramente citate e non valutate, veniva difatti contestata la mancata captazione della prima, di cui non può aversi riscontro dei contenuti, contrariamente a quanto affermato in sentenza, in relazione alle altre due, al netto di riscontri oggettivi, è la stessa Cor d’Appello a rilevare i mancati riferimenti alla sostanza stupefacente».
La ricostruzione operata dalla sentenza impugnata sarebbe, dunque, illogica e frutto del travisamento della prova, oltre che insufficiente per poter ritenere l sussistenza del reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
La Corte d’appello di Roma avrebbe omesso di motivare compiutamente in ordine all’acquisto della sostanza stupefacente da parte dell’imputato, con il conseguente «mancato rispetto dei canoni giurisprudenziali in tema».
Il ricorrente conclude che l’utilizzazione, nella motivazione, di «un’informazione inesistente, quale deve ritenersi la presunta esistenza di stupefacente, di cui non è dato conoscere la qualità, la quantità ed il principio attivo, ne compromette, decisamente, la tenuta logica e la coerenza intrinseca ed estrinseca, per essere il convincimento sulla sussistenza del reato di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90 fondata su “prova” agli atti inesistente».
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME, è affidato a tre motivi.
8.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 110 cod. pen., con riferimento all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti di cui al capo 22 dell’imputazione, limitatamente alla detenzione di sostanza stupefacente (del tipo marijuana) in concorso con NOME COGNOME.
NOME COGNOME asserisce che la Corte d’appello di Roma avrebbe confermato la sua responsabilità «pur nella assenza di elementi effettivamente confermativi di un suo concorso nel reato».
Dopo avere indicato le censure alla sentenza di primo grado che aveva avanzato con il proprio atto di appello – le quali erano state in parte accolte dalla Corte d’appello di Roma che aveva circoscritto la sua responsabilità solo all’indicata porzione delle condotte che gli erano state contestate nel capo 22 dell’imputazione -, il ricorrente denuncia i «profili di illegittimità» della sentenza impugnata.
NOME COGNOME rappresenta in primo luogo come la Corte d’appello di Roma, affermando la sua responsabilità «per la detenzione e il trasporto di sostanza stupefacente» (pag. 73 della sentenza impugnata), avrebbe implicitamente escluso la fondatezza di una parte dell’accusa che era stata formulata nel capo 22 dell’imputazione, in particolare, la parte relativa all’acquisto e ricezione del sostanza stupefacente e alla successiva rivendita di essa.
In secondo luogo, il ricorrente lamenta che «il tono meramente assertivo» con cui si sarebbe espressa la Corte d’appello di Roma non sarebbe «idoneo a dimostrare che COGNOME NOME avesse avuto effettiva disponibilità della
sostanza (e dunque la detenesse), restando ciò, anche per le esplicite indicazioni apparentemente operative contenute nelle intercettazioni ambientali, prerogativa eventualmente del solo padre NOME COGNOME
A tale proposito, nel richiamare i principi in tema di sindacato, da parte della Corte di cassazione, dell’interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente deduce che «la sentenza non è legittima, non avendo dimostrato che i dialoghi avessero il significato univoco invocato per ritenere il ricorrente responsabile della detenzione di sostanza stupefacente apparentemente presente presso l’abitazione del padre, ma limitandosi ad affermare ciò», con la conseguenza che egli sarebbe stato ritenuto «illegittimamente colpevole di una condotta di detenzione in alcun modo circostanziata e circostanziabile».
Il ricorrente ribadisce che «la sola assertiva considerazione spesa in sentenza non è certo idonea a dimostrare se e come il COGNOME avesse concorso a una condotta di detenzione che riguardava nel caso il solo padre NOME (tanto che i dialoghi si svolgevano presso la sua abitazione), né tanto meno a poter effettivamente escludere che quanto ascrivibile al ricorrente potesse rientrare nell’alveo della connivenza non punibile». A quest’ultimo proposito, asserisce come, «quanto meno nella condotta di detenzione – distinta da quella di trasporto (per l’eventuale offerta in vendita) – COGNOME NOME non avesse rafforzato l’animus del padre, o avesse concorso alle sue condotte».
Diverso sarebbe poi il vizio che inficerebbe la sentenza impugnata con riguardo alla porzione dell’attribuita condotta costituita dal trasporto che l avrebbe coinvolto su input del padre NOME COGNOME.
Sotto tale profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma non avrebbe né analizzato né confutato alcune argomentazioni che erano state da lui sviluppate e che sarebbero state fondamentali al fine di verificare se nell’abitazione di suo padre NOME COGNOME vi fosse effettivamente la sostanza stupefacente da offrire in vendita o se, comunque, suo padre ne avesse la disponibilità e, quindi, la detenesse, con la conseguenza che ne risulterebbe anche inficiata la tenuta logica del successivo giudizio sulla responsabilità che il figlio NOME COGNOME avrebbe avuto nel trasporto della stessa sostanza per l’offerta in vendita di essa.
La Corte d’appello di Roma non avrebbe in particolare considerato che: 1) NOME COGNOME, nel corso del suo esame dibattimentale, aveva affermato di avere provato a porre in essere una trattativa, che poi non si concluse, tramite NOME COGNOME il quale gli avrebbe dovuto consegnare la sostanza stupefacente da offrire poi in vendita; 2) il testimone della polizia giudiziaria NOME COGNOME avev confermato il mancato accordo sull’operazione prodromica all’offerta in vendita della sostanza stupefacente; 3) il contenuto delle conversazioni intercettate confermava che NOME COGNOME aveva richiamato il figlio NOME a casa, nel
momento in cui questi si sarebbe recato a mostrare un campione della sostanza stupefacente, proprio perché non vi era stato un accordo sulla fornitura della stessa sostanza, a causa della pretesa del pagamento di essa contestuale alla sua consegna; 4) NOME COGNOME aveva manifestato di non volere coinvolgere il figlio in condotte delittuose del tipo di quelle di cui al capo d’imputazione.
Il ricorrente deduce ancora che proprio dal contenuto delle intercettate conversazioni del 15/03/2016 menzionate nella sentenza impugnata e, in particolare, dal progressivo n. 7419, nt. 3.197 del 2015, sarebbe emerso in modo evidente che egli non avrebbe dovuto trasportare la sostanza da offrire in vendita dall’abitazione del padre «bensì avrebbe dovuto recarsi al panificio per prelevare, dalla consegna che stava trattando il padre, la parte da offrire in vendita». Dal progressivo n. 7443 del 16/03/2016 (di cui sempre al nt. 3.197 del 2015) sarebbe emerso «che proprio il mancato raggiungimento dell’accordo sulla consegna della sostanza avesse inficiato le condotte successive: dialogo preceduto dal contatto telefonico tra COGNOME e COGNOME NOME in cui il primo informava il secondo che la consegna era saltata (cfr. progr. 130931, Rit 4465/15), e da quello in cui COGNOME NOME chiamava il figlio dicendogli di tornare a casa (cfr. progr. 130934, Rit 4465/2015)».
Ne discenderebbe, ad avviso del ricorrente, che il mancato raggiungimento dell’accordo tra NOME COGNOME e NOME COGNOME in ordine alla compravendita «prodromica all’eventuale incarico che avrebbe dovuto assolvere COGNOME NOME – oltre che rilevante per escludere che si fosse giunti a una effettiva disponibilit della sostanza da parte di suo padre – avrebbe dovuto e potuto inficiare la sussistenza dei presupposti per una sua condanna».
Il ricorrente lamenta ancora che la Corte d’appello di Roma non avrebbe controdedotto rispetto ai principi in tema di cosiddetta “droga parlata” che erano stati invocati nel proprio atto di appello (sono citate: Sez. 4, n. 16150 de 22/04/2021, NOME COGNOME, non massimata; Sez. 3, n. 16792 del 25/03/2015, COGNOME, Rv. 263356-01) al fine di dimostrare come i dialoghi intercettati, non contenendo elementi «di esplicita interpretazione», non fossero accompagnati «da altre evenienze» che potessero confermare che NOME COGNOME era effettivamente coinvolto nelle condotte delittuose che gli sono state attribuite.
Da tutto ciò discenderebbe «l’evidente illegittimità» della sentenza impugnata, frutto anche di un’illogica interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate.
8.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 56 cod. pen., con riferimento all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, e l mancanza della motivazione con riguardo al proprio motivo di appello (il quinto)
con il quale aveva chiesto che i fatti di cui al capo 22 dell’imputazione fossero qualificati come mero tentativo del delitto di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 73 d 1990.
Il ricorrente lamenta che, nonostante la Corte d’appello di Roma avesse dato atto (alla pag. 26 della sentenza impugnata) dell’esistenza di tale motivo di appello, essa avrebbe poi del tutto omesso di affrontarlo.
NOME COGNOME deduce che il fatto a lui attribuito era al più qualificabile come mero tentativo del delitto di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, atteso ch «la mancata conclusione della compravendita della sostanza per il sottrarsi di una delle parti, impediva, sia la consegna della sostanza, che del denaro: esito negativo che discendeva dal mancato accordo su uno degli aspetti essenziali, ossia le modalità di pagamento».
Il ricorrente richiama i principi affermati da Sez. 1, n. 10460 del 01/06/1998, Ceman, Rv. 212649-01, Sez. 4, n. 4398 del 06/12/2011, COGNOME non massimata, e Sez. 3, n. 7806 del 15/11/2018, dep. 2018, Pmt, Rv. 272446-01, e lamenta che la Corte d’appello di Roma non si sarebbe in alcun modo confrontata con gli stessi, il che assumerebbe rilievo in sede di legittimità «anche considerando quanto già descritto nel primo motivo di ricorso in ordine all’effettiva conseguenzialità che vi era tra la conclusione sull’accordo di fornitura, e la successiva offerta in vendita che avrebbe coinvolto il ricorrente».
8.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 62bis cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione della misura della pena.
8.3.1. Quanto al primo profilo del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, NOME COGNOME lamenta anzitutto che la Corte d’appello di Roma abbia giustificato tale diniego (alla pag. 83 della sentenza impugnata) «formulando un passaggio motivo di rigetto valido per tutte le posizioni», senza analizzare, come sarebbe stato necessario fare, la sua singola specifica posizione.
In secondo luogo, NOME COGNOME deduce che la motivazione della sentenza impugnata, secondo cui «si tratta di condotte criminose gravi, commesse in un contesto di rilevante pericolosità, perché caratterizzato da un’abitudine “familiare” all’illiceità. Non a caso la maggior parte di essi è gravata da precedenti penali», sarebbe fondata su degli elementi non conferenti rispetto alla propria posizione, atteso: 1) quanto all’affermata gravità delle condotte criminose, che tale asserzione non potrebbe valere per il fatto a lui attribuito, considerato che esso era stato riqualificato nell’ipotesi di lieve entità di cui al comma 5 dell’art. del d.P.R. n. 309 del 1990, con esclusione delle circostanze aggravanti di cui all’art.
80, comma 2, dello stesso decreto, e di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.; 2) quanto al «contesto di rilevante pericolosità» e all’«abitudine “familiare” all’illiceità», essi non potrebbero rilevare nei suoi confronti, giacché egli «era rimasto ai margini del processo e coinvolto in un solo episodio delittuoso»; 3) quanto ai precedenti penali, egli è incensurato.
In terzo luogo, il ricorrente contesta l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui «per nessuno degli imputati sono stati messi in evidenza elementi positivi che possano indurre al riconoscimento delle suddette circostanze» attenuanti e rappresenta in proposito che, nel proprio atto di appello, aveva indicato, quali elementi positivi, il suo essere incensurato, la marginalità delle sue condotte e l’assenza di carichi pendenti, circostanze sulle quali la Corte d’appello, anziché valutarle, come avrebbe dovuto fare, aveva completamente taciuto.
8.3.2. Con riguardo al secondo profilo relativo alla misura della pena, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma, nonostante l’abbia irrogata in una misura che si discosta sensibilmente dal minimo edittale, avrebbe motivato la propria determinazione «in forma laconica e assertiva», «invocando ancora una volta la gravità dei fatti e il contesto in cui sarebbero insorti; ossia indicaz totalmente distoniche, sia con la riconosciuta lieve entità dei fatti, sia con marginalità del ruolo di COGNOME NOME (nel caso, mero ed episodico esecutore di una indicazione ricevuta dal padre)».
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME, è affidato a dieci motivi.
9.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen., nonché degli artt. 56 e 610 cod. pen., in relazione all’art. 192 cod. proc. pen. e all’art. 42 cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla conferma della sua responsabilità per reato di estorsione, in parte consumata e in parte tentata, ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 2 dell’imputazione, «nonostante fosse evidente l’insussistenza dei presupposti del reato di cui all’art. 629 c.p., potendosi al limite riqualificar condotte ai sensi dell’art. 610 c.p.».
Il ricorrente rappresenta che, con il proprio atto di appello (del quale trascrive ampi stralci nelle note: 1 e 2 di pag. 3 del ricorso; 3 delle pagg. 4 e 5 del ricors 4 e 5 di pag. 6 del ricorso; 6 e 7 di pag. 7 del ricorso), aveva lamentato che il Tribunale di Velletri non avesse compiutamente e correttamente valutato il contenuto delle conversazioni intercettate e l’esame dibattimentale del testimone persona offesa NOME COGNOME e aveva in particolare: 1) contestato la credibilità
del Roncon (là dove questi aveva affermato di vantare un credito nei confronti dell’imputato per dei lavori svolti presso la sua abitazione e che lo aveva assecondato nelle sue richieste per evitare ripercussioni alla sua immagine professionale); 2) stigmatizzato «l’approccio suggestivo e confuso della ricostruzione dei fatti resa dal teste di NOME COGNOME», in quanto questi avrebbe «omesso di rappresentare l’intero svilupparsi dei rapporti tra il COGNOME e il ricorrente, e le reali ragioni delle tensioni createsi tra i due (ossia la reiter indifferenza con cui il COGNOME stava mancando di ottemperare agli impegni presi spontaneamente con il COGNOME – riproducendo comportamenti intrapresi anche verso altri clienti)»; 3) segnalato il «travisamento commesso nell’accostare la soggezione ammessa dal COGNOME nei confronti del ricorrente – nel corso di una intercettazione – ai fatti di cui all’imputazione, e non invece ai problemi di salut della moglie, di cui aveva ritrosia nel parlare e nel chiedere un aiuto al ricorrente»; 4) sottolineato: 4.1) la contraddizione che sarebbe derivata dall’avere ritenuto la credibilità della persona offesa «per la più ampia vicenda» e avere reputato il COGNOME reticente allorquando egli aveva negato di essere stato percosso dall’imputato, «evento comunque mai verificatosi»; 4.2) che il mobile per la tv non era stato né richiesto dall’imputato né da lui ottenuto, atteso che dal contenuto delle conversazioni intercettate era piuttosto emerso che era stato il COGNOME a proporsi volontariamente di sostituirglielo; 4.3) che la richiesta di un nuovo televisore «era priva di qualsiasi pressione, al contrario emergendo in forma meramente ipotetica, e soprattutto non venne più affrontata dopo l’unica occasione in cui i due ne parlarono».
Il ricorrente rappresenta quindi che, alla stregua di tali doglianze, che aveva avanzato nel proprio atto di appello: a) aveva sostenuto l’insussistenza del reato di estorsione, sia nella forma consumata sia nella forma tentata, in quanto sarebbe mancata qualsiasi prova che egli, al di là di avere chiesto un aiuto economico in ragione delle sue contingenti difficoltà, avesse mai ottenuto dalla persona offesa beni o altre utilità attraverso la violenza o la minaccia; b) in via subordinata, considerazione della mancanza dell’elemento dell’estorsione «dell’indebito arricchimento patrimoniale», aveva chiesto che le condotte a lui attribuite fossero riqualificate come violenza privata, «potendosi al limite solo configurare una costrizione del Roncon a recarsi presso l’abitazione del ricorrente».
Così dettagliatamente ripercorso il contenuto del proprio atto di appello, il ricorrente lamenta che le argomentazioni della Corte d’appello di Roma, esposte alle pagg. 34-35 della sentenza impugnata, «non si presentano in alcun modo legittime per confutare gli argomenti della difesa, avendo semplicemente avallato l’esito del giudizio di prime cure senza risolvere alcuna delle approssimazioni o dei travisamenti commessi dal Primo Giudice».
La Corte d’appello di Roma, in particolare, non avrebbe fornito alcuna risposta alla sua richiesta di riqualificare il fatto ai sensi dell’art 610 cod. pen., la qual stata avanzata quale risultato, subordinato, di una dettagliata analisi del contenuto delle conversazioni intercettate.
Ancor prima, la Corte d’appello non si sarebbe confrontata con: 1) la parte dell’atto di appello nella quale erano state rappresentate «le reali ragioni del nervosismo di COGNOME NOME, scevre da intenzioni estorsive»; 2) la censura relativa all’inattendibilità della versione dei fatti che era stata fornita dal Ronc 3) il travisamento sulle ragioni della soggezione della persona offesa; 4) la smentita, che sarebbe emersa dal contenuto delle conversazioni intercettate, in ordine alla richiesta e alla successiva consegna di un mobile da parte del COGNOME; 5) la smentita, che sarebbe emersa sempre dal contenuto delle conversazioni intercettate, che l’imputato avesse chiesto, in forma minatoria, la consegna di un televisore.
La Corte d’appello di Roma non poteva, quindi, come avrebbe invece fatto, semplicemente richiamare per relationem la sentenza di primo grado, ma avrebbe dovuto, a fronte delle indicate specifiche censure che erano state formulate nell’atto di appello dell’imputato avverso la stessa sentenza, necessariamente confutarle.
Secondo NOME COGNOME inoltre, qualora non fosse stata ritenuta sussistente la prova in ordine «all’intenzione estorsiva ascritta», l’eventual schiaffo che egli avrebbe dato al COGNOME, comunque «indimostrato e indimostrabile», «non sarebbe stato neanche dirimente».
9.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione degli artt. 56 e 629 cod. pen., nonché degli artt. 56, terzo comma, e 393 cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla conferma della sua responsabilità per il reato di tentata estorsione ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 4 dell’imputazione.
Il ricorrente rappresenta che, con il proprio atto di appello (del quale trascrive degli stralci nelle note 8, 9 e 10 delle pagg. 12 e 13 del ricorso): 1) avev sottolineato come: 1.1) gli elementi probatori avrebbero confermato che, nell’unico incontro che egli ebbe con la persona offesa, alla richiesta del COGNOME, priva di minacce esplicite o implicite, di soddisfare il credito di NOME COGNOME, fosse seguita una risposta del Giovenali chiarificatrice dei rapporti di questi con i COGNOME «e che da ciò il ricorrente non proseguì nelle sue richieste»; 1.2) i pregressi incontri tra il coimputato COGNOME e la persona offesa COGNOME «fossero estranei a qualsiasi forma di concorso del COGNOME»; 1.3) il Tribunale di Velletri non avesse indicato in che modo il COGNOME avrebbe concorso nel reato «né
tanto meno sulla base di quali evenienze con le sue condotte avesse raggiunto la soglia penalmente rilevante ex art. 56 c.p.»; 2) aveva chiesto, in via subordinata: 2.1) l’assoluzione per desistenza volontaria, giacché egli «- appresa, dopo l’unico incontro con il COGNOME, la diversa natura dei rapporti economici tra le parti – non aveva più trattato la questione, né lo avevano fatto gli altri imputati»; 2.2) riqualificazione della propria condotta ai sensi dell’art. 393 cod. pen., giacché lo stesso COGNOME aveva «ammesso che i rapporti creditori/debitori con il COGNOME erano reciproci» e che «il ricorrente avesse agito sull’assunto che il suo coimputato vantasse un credito lecito».
Così dettagliatamente ripercorso il contenuto delle censure che aveva prospettato nel proprio atto di appello, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe confermato la sentenza di primo grado omettendo di confrontarsi con esse.
La Corte d’appello, in particolare, non avrebbe fornito alcuna risposta alle sue richieste (subordinate) di fare rientrare le sue condotte nell’ambito della desistenza volontaria e di riqualificare le stesse condotte come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, «anche considerando la posizione di terzo privo di interessi diretti da parte del Fragalà e il suo intervento ristrett una fase in cui riteneva che il COGNOME vantasse solo crediti verso il Giovenali, e non anche viceversa».
A proposito di tale richiesta riqualificazione giuridica, il ricorrente reputa no «risolutiva» la motivazione esposta dalla Corte d’appello di Roma a pag. 41 della sentenza impugnata, «dovendo scindersi l’analisi del profilo psicologico del COGNOME (eventualmente consapevole della realtà dei fatti), da quello del ricorrente (che agiva sulla base di quanto a lui riferitogli dal coimputato)».
A proposito della richiesta di inquadramento delle sue condotte nella desistenza volontaria, il ricorrente rappresenta come sarebbe stato necessario che la Corte d’appello motivasse anche al riguardo, «stante l’unicità dell’incontro tra Giovenali e Fragalà, e l’interruzione di qualsiasi interessamento del ricorrente una volta appreso dalla voce diretta della presunta persona offesa, che in realtà i rapporti crediti/debiti tra le parti erano diversi rispetto a quanto a lui rif (accompagnato dall’assenza di ulteriori contatti anche tra il COGNOME e il COGNOME e il COGNOME)».
Il ricorrente deduce poi come a tali denunciate omissioni motivazionali si accompagnerebbe anche quella sulla prova del suo «effettivo» concorso nel reato e «sulla configurabilità, nel suo ristretto agire (un unico incontro) di una tentat estorsione».
A tale riguardo, NOME COGNOME sull’assunto che la Corte d’appello di Roma avrebbe affermato che egli aveva «condiviso il proposito criminoso
interessandosi dei dettagli della vicenda», deduce anzitutto «l’irrilevanza ai sensi dell’art. 110 c.p., non potendosi trasformare il concorso in una forma evanescente che coinvolge anche il mero interessamento dialettico».
Il ricorrente espone che sarebbe «evidente che quella fase prodromica all’unico contatto con la presunta persona offesa non assumesse autonomamente rilevanza concorsuale (anzi, al contrario, dovrebbe suggerire la fondatezza della richiesta di riqualificazione ex art. 393 c.p. perché avrebbe inficiato l consapevolezza del COGNOME in ordine alla legittimità della somma richiesta dal COGNOME)». Inoltre, se l’asserito ragionamento della Corte d’appello di Roma si dovesse considerare corretto, emergerebbe la contraddittorietà della decisione della stessa Corte di assolvere COGNOME.
Sempre al riguardo, NOME COGNOME deduce in secondo luogo che le frasi da lui rivolte alla persona offesa, tra cui, in particolare, la frase «io parlo p quieto vivere di tutti», che sono state valorizzate dalla Corte d’appello di Roma a pag. 40 della sentenza impugnata, «rappresentavano una chiusura totalmente priva della rappresentazione al Giovenali di un danno ingiusto» e che «anche nei passaggi precedenti non si giungeva alla soglia della minaccia penalmente rilevante, né tanto meno un livello di condotte tale da rientrare nell’alveo della tentata estorsione».
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma nulla avrebbe motivato in ordine a tali aspetti, nonostante il contenuto del suo atto di appello, considerato anche che egli era del tutto estraneo alle minacce che furono autonomamente proferite dal COGNOME nei confronti del COGNOME, con la conseguenza che sarebbe stato doveroso verificare se la specifica porzione di condotta a lui attribuita assumesse o no rilievo ai sensi degli artt. 56 e 629 cod. pen. «sia da un punto di vista oggettivo, sia da un punto di vista soggettivo». Aspetti, questi, che sarebbero stati o ritenuti «laconicamente» sussistenti (quelli relativi all’elemento oggettivo) o non analizzati (quelli relativi alla consapevolezza di richiedere «somme ingiuste»).
9.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 110 cod. pen. e degli artt. 10 e 12 della legge n. 497 del 1974, e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma della sua responsabilità per reato di concorso (con NOME COGNOME, giudicato separatamente) nella detenzione e nel porto illegali di un’arma da guerra e del relativo munizionamento di cui al capo 12 dell’imputazione.
NOME COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe del tutto omesso di considerare il suo motivo di appello con il quale aveva chiesto di verificare se le condotte, per come ricostruite, «concretizzassero contestualmente
la detenzione e il porto d’arma, oppure solo una delle due ipotesi», alla stregua del principio, affermato dalla Corte di cassazione, secondo cui il delitto di porto illegale assorbe per continenza quello di detenzione, escludendone il concorso materiale, quando la detenzione dell’arma inizi contestualmente al porto della medesima in luogo pubblico (è citata, in proposito: Sez. 1, n. 27343 del 04/03/2021, COGNOME, Rv. 281668-01).
Il ricorrente deduce che, nel proprio atto di appello, aveva in particolare argomentato che, «mancando qualsiasi indicazione sul momento in cui il COGNOME potesse aver cominciato a detenere l’arma quale concorrente del Sulejmani», la condotta di detenzione non poteva che essere assorbita in quella di porto, «trattandosi di azioni cominciate, dal punto di vista specifico della sua condotta concorsuale, congiuntamente».
NOME COGNOME deduce altresì che, sempre nel proprio atto di appello, aveva anche argomentato che, posto che, secondo la Corte di cassazione, la configurabilità del concorso nella detenzione illegale di armi implica che ciascuno dei compartecipi abbia la disponibilità materiale dell’arma, si trovi, cioè, in un situazione di fatto tale per cui possa, comunque, in qualsiasi momento, disporne (è citata, in proposito: Sez. 1, n. 45940 del 15/11/2011, COGNOME, Rv. 25158501), quest’ultima evenienza non sarebbe stata dimostrata né dimostrabile a suo carico, atteso che non si conosceva nulla «sul pregresso temporale – in cui il fucile sarebbe stato detenuto dal Sulejmani – e senza che ci fosse alcun elemento utile a poter dimostrare che l’arma fosse nella sua effettiva disponibilità già in precedenza».
La Corte d’appello di Roma, rispetto a tali argomentazioni, avrebbe omesso di spendere la ben che minima considerazione.
9.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 110 cod. pen. e degli artt. 10, 12 e 14 della legge n. 497 del 1974, e l mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla conferma della sua responsabilità per reato di detenzione illegale di due pistole, armi comuni da sparo, di cui al capo 15 dell’imputazione.
NOME COGNOME deduce che, come aveva rappresentato nel proprio atto di appello (del quale trascrive, alla nota 11 della pag. 21 del ricorso, la parte d interesse), la corretta interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate, in particolare, di quelle di cui ai progressivi 1583 e 1584 de 16/07/2015, Rit. 3197/2015, avrebbe fatto emergere il possesso, da parte sua, di solo una e non di due pistole, atteso che, alla luce di tale contenuto, si sarebbe dovuto escludere che NOME COGNOME gli avesse consegnato una seconda pistola – come del resto era stato dichiarato dallo stesso imputato nel corso del suo esame
dibattimentale -, risultando, invece, che era stato il COGNOME a consegnare qualcosa al COGNOME e che questo qualcosa non era un’arma ma erano dei soldi. L’imputato, infatti, si sarebbe «trov costretto – dopo lunghe insistenze della moglie, che lamentava il fatto che il COGNOME avesse dato al COGNOME ulteriore denaro, oltre a quello già perso per un affare immobiliare mai andato in porto – a inventare di aver ricevuto una pistola».
Ciò detto, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma, nel ritenere solo «suggestiva» tale ricostruzione (pag. 52 della sentenza impugnata), non si sarebbe confrontata «con il dettaglio delle censure sviluppate nell’atto di gravame: in particolare, sull’anomalia di un COGNOME che chiedeva scusa al COGNOME (confermandosi così la richiesta di denaro), e sui riferimenti espliciti che ricorrente faceva alla figlia di andare a casa sua e tornare con del denaro (andata e ritorno che effettivamente NOME fece, e che sarebbe stato anomalo se avesse dovuto solamente portare presso la sua abitazione l’arma)».
Pertanto, l’attribuzione al ricorrente della detenzione di una seconda pistola «non coincideva con le risultanze intercettive», la cui interpretazione è sindacabile in sede di legittimità quando sia, come nella specie, manifestamente illogica e irragionevole o frutto di un travisamento decisivo e incontestabile.
9.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 60 comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 110 cod. pen. e dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, nonché dell’art. 56 cod. pen., con riferimento all’art. 192 cod. proc. pen., e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla conferma della sua responsabilità per reato di detenzione per la vendita a terzi in concorso (con Santo COGNOME e con NOME COGNOME) di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente di cui al capo 17 dell’imputazione.
NOME COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma non avrebbe fornito «una compiuta e logica risposta» alle argomentazioni che egli aveva sviluppato nel proprio atto di appello (del quale trascrive, alla nota 12 della pag. 23 e alle note 13 e 14 della pag. 24 del ricorso, la parte di interesse) in punto si di responsabilità sia di eventuale derubricazione della sua condotta come reato meramente tentato.
Il ricorrente rappresenta che, nel proprio atto di appello: 1) aveva rappresentato come, secondo quanto aveva anche ammesso nel corso del suo esame dibattimentale, egli «avesse solo provato a reperire sostanza da poter rivendere, e che dopo aver visionato il campione a lui mostrato dal COGNOME avesse desistito dal suo intendimento, senza mai entrare in possesso (ossia senza mai detenere) alcuna sostanza riferibile al Capo 17) di imputazione, né tanto meno avere le possibilità economiche per agire in tale settore»; 2) aveva sottolineato la
suggestione in cui sarebbero incorsi gli inquirenti nel riferire la trattativa in co a un presunto gruppo criminoso siciliano «e la più che elevata probabilità che fosse sostanzialmente rimasto vittima di una truffa, e che soprattutto non vi fosse alcun riscontro alla quantità di presunta sostanza stupefacente che si sarebbe dovuta trattare»; 3) aveva segnalato come gli stessi operanti della polizia giudiziaria «avessero ammesso che l’accordo tra le parti non si concluse».
Ciò rappresentato, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe reso una «motivazione insufficiente» a confutare tali considerazioni, esposte nel suo atto di appello.
In particolare, secondo il ricorrente, le argomentazioni spese dalla Corte d’appello di Roma non «colgono nel segno» là dove «avrebbero dovuto dimostrare che COGNOME NOME detenesse un indeterminato quantitativo di hashish».
Infatti, la Corte d’appello non avrebbe «logicamente e legittimamente dimostrato che il ricorrente fosse effettivamente coinvolto, ossia avesse concorso, nella disponibilità della sostanza da porre in vendita», atteso che, «l di là di avergliene parlato, nessuno dei coimputati pianificava col ricorrente u agire comune, né lo coinvolgeva dal punto di vista decisionale, non potendo dunque individuarsi quale sarebbe stato il contributo delittuoso di COGNOME NOME».
Sempre ad avviso del ricorrente, «la solo assertiva considerazione spesa in sentenza non è certo idonea a dimostrare se e come il COGNOME avesse concorso a una condotta di detenzione che riguardava nel caso i suoi coimputati; né tanto meno a poter effettivamente escludere che quanto ascrivibile al ricorrente potesse rientrare nell’alveo della connivenza non punibile».
Sarebbe evidente che «per la condotta di detenzione COGNOME Alessandro non avesse rafforzato COGNOME di alcun coimputato, o avesse concorso alle loro azioni» e, comunque, la motivazione della sentenza impugnata sul punto sarebbe meramente assertiva.
9.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 110 cod. pen. e dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, con riferimento all’art. 192 cod. proc. pen., e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla conferma della sua responsabilità per reato di acquisto, per la successiva rivendita, in concorso (nel presente processo, con NOME COGNOME oltre che con altri soggetti separatamente giudicati) di 15 chilogrammi di hashish di cui al capo 18 dell’imputazione.
NOME COGNOME sostiene che la Corte d’appello di Roma non avrebbe «in alcun modo risolto» la questione, che le era stata sottoposta con il suo atto di appello (del quale trascrive, alla nota 15 delle pagg. 27-28 del ricorso, la parte di
interesse), «relativa alla totale estraneità del ricorrente a una serie anche articolata di condotte che riguardavano il solo COGNOME COGNOME – che in alcune occasioni si era limitato a raccontare la vicenda al Fragalà, senza mai minimamente coinvolgerlo o aggiornarlo sulla pianificazione delle condotte delittuose», come sarebbe stato comprovato da fatto che, dopo l’arresto di NOME COGNOME il quale aveva con sé i 15 chilogrammi di hashish, «il COGNOME, nel parlare col ricorrente, formulava frasi in prima persona, descrivendosi come l’unico danneggiato dalla vicenda (accompagnato dall’indifferenza del ricorrente)».
In proposito, la Corte d’appello di Roma si sarebbe limitata ad argomentare che «il COGNOME lo avrebbe ragguagliato il giorno seguente dell’arresto del COGNOME, nonché il giorno prima per informarlo dell’arrivo della sostanza».
Tale argomentazione non sarebbe tuttavia idonea a confutare le considerazioni che erano state formulate nell’atto di appello – con le quali la Corte d’appello di Roma non si sarebbe specificamente confrontata -, atteso che la stessa Corte non avrebbe «risol in alcun modo la perplessità sull’effettivo ruolo attribuibile al COGNOME: ossia se COGNOME COGNOME lo avesse notiziato quale concorrente interessato del reato, o gli avesse raccontato quanto da lui realizzato nell’ambito di un rapporto che prescindeva da una cointeressenza in fatti di reato».
Ciò pur a fronte della sussistenza di «iversi riferimenti specifici a agire del COGNOME totalmente autonomo dal ricorrente, e al contempo confermativi del disinteresse delittuoso di COGNOME NOME per la vicenda».
La Corte d’appello di Roma avrebbe pertanto confermato la sentenza di primo grado con una motivazione meramente assertiva «e svilente rispetto all’atto di appello».
9.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 80 del d.P.R. n. 309 del 1990, e la mancanza della motivazione con riguardo alla circostanza aggravante dell’ingente quantità della sostanza stupefacente di cui al capo 18 dell’imputazione.
NOME COGNOME rappresenta che, nel suo atto di appello (con il ventiduesimo motivo), aveva contestato come la conclusione del Tribunale di Velletri della sussistenza di tale circostanza aggravante (pag. 173 della sentenza di primo grado) «fosse il risultato di una mera valutazione numerica: criterio, quello quantitativo, che però è solo uno di quelli che devono essere verificati (generalmente quello da cui non può prescindersi), che può essere neutralizzato da altre evenienze», le quali, nel caso di specie, «ben potevano individuarsi comunque in una percentuale di principio attivo chiaramente sintomatica di una sostanza di bassa qualità».
Nel richiamare tale motivo di appello (il ventiduesimo; pagg. 82-83 dell’atto di appello dell’imputato), nel quale erano state invocate Sez. U, n. 14722 del 30/01/2020, COGNOME, Rv. 279005-01, Sez. U, n. 36258 del 24/05/2012, COGNOME, Rv. 253150-01 e Sez. 4, n. 1310 del 08/01/2019, Cantalupo, non massimata, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe del tutto omesso di esaminarlo.
9.8. Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 110 cod. pen. e dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1973, nonché dell’art. 56 cod. pen., in relazione all’art. 192 cod. proc. pen., e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla conferma dell’affermazione della sua responsabilità per reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti di cui al capo 22 dell’imputazione, limitatamente alla detenzione di sostanza stupefacente (del tipo marijuana) in concorso con il figlio NOME COGNOME.
9.8.1. Dopo avere indicato le censure alla sentenza di primo grado che aveva avanzato con il proprio atto di appello – le quali erano state in parte accolte dall Corte d’appello di Roma che aveva circoscritto la sua responsabilità solo all’indicata porzione delle condotte che gli erano state contestate nel capo 22 dell’imputazione -, il ricorrente denuncia i «profili di illegittimità» della sentenza impugnata.
NOME COGNOME rappresenta in primo luogo come la Corte d’appello di Roma, pur avendo affermato la sua responsabilità «per la detenzione e il trasporto di sostanza stupefacente» (pag. 73 della sentenza impugnata), lo avrebbe «comunque ritenuto coinvolto, secondo il capo 22), perché avrebbe acquistato e ricevuto sostanza stupefacente, che avrebbe poi venduto e offerto in vendita», condotta, questa, che sarebbe stato «evidente come non si sia verificata nel processo, considerato fosse comprovato che il ricorrente non avesse mai ricevuto – per un mancato accordo con il fornitore – la sostanza che avrebbe dovuto poi offrire in vendita».
In secondo luogo, il ricorrente lamenta che «il tono meramente assertivo» con cui si sarebbe espressa la Corte d’appello di Roma non sarebbe «idoneo a dimostrare che il RAGIONE_SOCIALE avesse avuto effettiva disponibilità della sostanza (e dunque la detenesse), restando ciò solo una programmazione non verificatasi per mancato accordo con il fornitore».
Il ricorrente lamenta ancora che la Corte d’appello di Roma non avrebbe né analizzato né confutato alcune argomentazioni che erano state da lui sviluppate e che sarebbero state fondamentali al fine di verificare se nella propria abitazione vi fosse effettivamente la sostanza stupefacente da offrire in vendita o se, comunque, egli ne avesse la disponibilità e, quindi, la detenesse, con la
conseguenza che ne risulterebbe anche inficiata la tenuta logica del giudizio di responsabilità.
La Corte d’appello di Roma non avrebbe in particolare considerato che: 1) NOME COGNOME, nel corso del suo esame dibattimentale, aveva affermato di avere provato a porre in essere una trattativa, che poi non si concluse, tramite NOME COGNOME il quale gli avrebbe dovuto consegnare la sostanza stupefacente da offrire poi in vendita; 2) il testimone della polizia giudiziaria NOME COGNOME aveva confermato il mancato accordo sull’operazione prodromica all’offerta in vendita della sostanza stupefacente; 3) il contenuto delle conversazioni intercettate confermava che NOME COGNOME aveva richiamato il figlio NOME a casa, nel momento in cui questi si sarebbe recato a mostrare un campione della sostanza stupefacente, proprio perché non vi era stato un accordo sulla fornitura della stessa sostanza, a causa della pretesa del pagamento di essa contestuale alla sua consegna.
Il ricorrente deduce ancora che proprio dal contenuto delle intercettate conversazioni del 15/03/2015 menzionate nella sentenza impugnata e, in particolare, dal progressivo n. 7419, nt. 3.197 del 2015, sarebbe emerso in modo evidente che suo figlio NOME COGNOME non avrebbe dovuto trasportare la sostanza da offrire in vendita dall’abitazione del padre «bensì avrebbe dovuto recarsi al panificio dello zio per prelevare, dalla consegna che stava trattando il ricorrente con NOME COGNOME la parte da offrire in vendita al n.m.i. ‘NOME‘». Da progressivo n. 7443 del 16/03/2016 (di cui sempre al nt. 3.197 del 2015) sarebbe emerso «che proprio il mancato raggiungimento dell’accordo sulla consegna della sostanza avesse inficiato le condotte successive: dialogo preceduto dal contatto telefonico tra COGNOME e COGNOME NOME in cui il primo informava il secondo che la consegna era saltata (cfr. progr. 130931, Rit 4465/15), e da quello in cui COGNOME NOME chiamava il figlio dicendogli di tornare a casa (cfr. progr. 130934, Rit 4465/2015)».
Ne discenderebbe, ad avviso del ricorrente, che il mancato raggiungimento dell’accordo tra NOME COGNOME e NOME COGNOME in ordine alla compravendita «prodromica all’eventuale detenzione e offerta in vendita – oltre che rilevante per escludere che si fosse giunti a una effettiva disponibilità della sostanza da parte di suo padre – avrebbe dovuto e potuto inficiare la sussistenza dei presupposti per una sua condanna».
Da tutto ciò discenderebbe «l’evidente illegittimità» della sentenza impugnata, frutto anche di un’illogica interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate, per avere la Corte d’appello di Roma affermato la responsabilità penale dell’imputato «pur nell’assenza di elementi confermativi di una sua effettiva detenzione della sostanza da offrire in vendita».
9.8.2. Il ricorrente lamenta poi che, nonostante la Corte d’appello di Roma avesse dato atto (alla pag. 21 della sentenza impugnata) dell’esistenza di tale motivo di appello, essa avrebbe poi del tutto omesso di affrontarlo.
NOME COGNOME deduce che il fatto a lui attribuito era al più qualificabile come mero tentativo del delitto di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, atteso che «la mancata conclusione della compravendita della sostanza per il sottrarsi di una delle parti, impediva, sia la consegna della sostanza, che del denaro: esito negativo che discendeva dal mancato accordo su uno degli aspetti essenziali, ossia le modalità di pagamento».
Il ricorrente richiama i principi affermati da Sez. 1, n. 10460 del 01/06/1998, Ceman, Rv. 212649-01, Sez. 4, n. 4398 del 06/12/2011, COGNOME non massimata, e Sez. 3, n. 7806 del 15/11/2018, dep. 2018, Pmt, Rv. 272446-01, e lamenta che la Corte d’appello di Roma non si sarebbe in alcun modo confrontata con gli stessi, il che assumerebbe rilievo in sede di legittimità «anche considerando quanto già descritto nel primo motivo di ricorso in ordine all’effettiva conseguenzialità che v era tra la conclusione sull’accordo di fornitura, e la successiva offerta in vendita che avrebbe coinvolto il ricorrente».
9.9. Con il nono motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 133, anche con riferimento all’art. 81 cod. pen. e all’art. 597 cod. proc. pen., e l mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo ad alcuni aspetti del trattamento sanzionatorio.
Dopo avere richiamato i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di onere motivazionale del giudice in punto di determinazione della pena, anche con riguardo agli aumenti di essa per i reati in continuazione (è citata, a quest’ultimo proposito: Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269-01), il ricorrente lamenta che essi non sarebbero stati rispettati dalla Corte d’appello di Roma.
NOME COGNOME contesta anzitutto che la Corte d’appello di Roma avrebbe irrogato, per il reato di estorsione di cui al capo 2 dell’imputazione, ritenuto violazione più grave tra quelle in continuazione, una pena sensibilmente più elevata rispetto al minimo edittale senza «fornire un passaggio motivo idoneo», non potendosi ritenere tale la generica invocazione dei «parametri di cui all’articolo 133 c.p. e della particolare caratura criminale dell’imputato» che figura alla pag. 84 della sentenza impugnata.
In secondo luogo, quanto agli aumenti di pena per la continuazione, il ricorrente deduce che «riconoscere la stessa condanna – 6 mesi – per reati in materia di armi e stupefacenti , non tiene conto dell’evidente difformità edittale esistente tra tali fattispecie, rappresentativa anche di un diversa gravità: la condanna per i delitti in materia di armi doveva, dunque, essere
ridotta (per come era stato richiesto anche nell’atto di appello). Tra l’altro, un volta escluso il porto d’armi dai fatti di cui al Capo 15) non poteva mantenersi la medesima pena decisa dal Giudice di Prime cure».
In terzo luogo, il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Roma, avendo escluso le circostanze aggravanti di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. e all’art. 628 terzo comma, n. 3), cod. pen., avrebbe dovuto ridurre le pene per i reati di cui ai capi 8), 12), 15) e 18), «pena la violazione dell’art. 597 c.p.p..». Deduce ancora: «nonché sulle pene di cui ai capi 17) e 22), riqualificate ai sensi del comma V dell’art. 73 d.p.r. 309/90, sanzionate con una riduzione, rispetto al giudizio di prime cure, di appena due mesi».
9.10. Con il decimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., in riferimento all’art. 133 cod. pen., e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma del diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Nel richiamare alcuni principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di onere motivazionale del giudice in punto di concessione o diniego delle suddette circostanze attenuanti, il ricorrente contesta la motivazione fornita al riguardo dalla Corte d’appello di Roma alla pag. 83 della sentenza impugnata, lamentando come essa sia «priva di alcuna personalizzazione», mancando qualsiasi approfondimento in ordine alla propria specifica posizione, per la quale, sempre a suo avviso, «soprattutto alla luce delle numerose assoluzioni intervenute all’esito del giudizio di appello (tra cui in particolare quella per il delitto di associazi mafiosa) – erano individuabili molteplici elementi di segno positivo per poter giungere a una determinazione della pena ai sensi dell’art 62-bis c.p.: lo stesso infatti aveva partecipato all’intero dibattimento, manifestando sempre un comportamento corretto, e soprattutto rendendo ampio e proficuo esame in cui ha chiarito la totalità delle vicende a lui ascritte», il che lo avrebbe reso «certamente meritevole del beneficio richiesto in forma prevalente alle aggravanti eventualmente riconosciute, o comunque equivalente ad esse».
NOME COGNOME ha proposto due ricorsi, uno a firma dell’avv. NOME COGNOME e uno a firma dell’avv. NOME COGNOME.
10.1. Il ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce «mancanza assoluta della motivazione sulle produzioni documentali della difesa e conseguente manifesta illogicità della motivazione» con riguardo alla conferma della sua responsabilità per il reato di traffico e detenzione di 400 chilogrammi di hashish di cui al capo 18 dell’imputazione.
NOME COGNOME rappresenta che: 1) nel corso del giudizio di primo grado, aveva depositato la sentenza del 16/06/2020 del G.u.p. del Tribunale di Roma, emessa in esito a giudizio abbreviato, con la quale: 1.1) alcuni coimputati del reato, separatamente giudicati, erano stati assolti dall’accusa relativa alla parte dell’imputazione che fa riferimento all’importazione dalla Spagna di 400 chilogrammi di hashish perché il fatto non sussiste («non può ritenersi provato l’acquisto, da parte dei correi – ed anzi la stessa esistenza, di un carico di 400 chilogrammi di hashish giunto dalla Spagna a bordo di un camion»; pag. 103 della suddetta sentenza) e condannati soltanto con riferimento al traffico e detenzione illeciti dei 15 chilogrammi di sostanza stupefacente che erano stati sequestrati a NOME COGNOME il 04/09/2015; 1.2) il coimputato NOME COGNOME compagno di sua figlia, era stato completamente assolto dalla accuse, compresa quella relativa al traffico e alla detenzione dei 15 chilogrammi di hashish; 2) posto che tale sentenza di primo grado era stata appellata dal pubblico ministero, nel corso del giudizio di secondo grado, aveva depositato la sentenza del 26/05/2022 della Corte d’appello di Roma, già allora passata in giudicato, con la quale la stessa Corte d’appello aveva confermato l’intero impianto motivazionale della sentenza del G.u.p. del Tribunale di Roma (pagg. 4-5 di tale sentenza di secondo grado).
Tanto rappresentato, NOME COGNOME lamenta che, nella sentenza impugnata, mancherebbe qualsiasi motivazione sul punto «nodale» costituito dall’esistenza di un giudicato sullo stesso fatto di cui al capo 18 dell’imputazione del tutto inconciliabile con quanto ritenuto nella stessa sentenza, con la conseguente violazione del dovere del giudice di indicare le ragioni per le quali non condivideva la sentenza definitiva e riteneva non concludente la prova del fatto in essa accertato.
Escludendo la menzionata sentenza definitiva dal campo probatorio, la Corte d’appello di Roma avrebbe finito anche con l’«elu un altro momento motivazionale di manifesta rilevanza costituito proprio dalla funzione del Palma rispetto alla funzione del Reguig», atteso che, poiché «Ella costruzione della imputazione affondava le sue radici nella possibilità del Palma di importare dalla Spagna 400 chili di hashish per il tramite del COGNOME – suo genero e residente in Spagna», ne discenderebbe che «nel caso in cui il “genero” fosse rimasto estraneo ai traffici del Palma ciò che veniva meno non era la transazione relativa ai soli 15 Kg avvenuta in Italia in circostanze che escludevano la circostanza del camion proveniente dalla Spagna, ma l’importazione dei 400kg».
Pertanto, la motivazione sarebbe, oltre che mancante con riguardo all’omessa considerazione dell’indicata sentenza assolutoria definitiva, anche illogica «perché attribuisce al Palma una condotta di importazione di 400 Kg irrimediabilmente orfana del suo dante causa nell’importazione stessa».
Da ciò la richiesta di annullamento con rinvio della sentenza impugnata, affinché un altro giudice si faccia carico del potenziale contrasto di giudicati «e rivisiti il trattamento sanzionatorio in ragione del ben diverso dato ponderale».
10.2. Il ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a sette motivi.
10.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione e il travisamento, per omessa valutazione, con riguardo alle sentenze del 16/06/2020 del G.u.p. del Tribunale di Roma e del 26/05/2022 della Corte d’appello di Roma, divenuta irrevocabile il 15/10/2022, con le quali, nel connesso giudizio a carico di alcuni coimputati del reato di cui al capo 18 dell’imputazione, era stata affermata l’insussistenza del fatto di importazione e detenzione del quantitativo di 400 chilogrammi di hashish per il quale il ricorrente, con la sentenza impugnata, è stato, invece, condannato.
Il ricorrente lamenta che, nonostante avesse depositato le suddette sentenze – rispettivamente: la prima, il 19/04/2021 davanti al Tribunale di Velletri e i 19/04/2023 davanti alla Corte d’appello di Roma; la seconda, il 29/03/2023 davanti alla Corte d’appello di Roma -, dalle quali emergeva l’accertamento dell’insussistenza del fatto di importazione e detenzione del quantitativo di 400 chilogrammi di hashish per il quale è stato, invece, condannato, e nonostante, con il terzo motivo del proprio atto di appello, avesse rappresentato l’intervenuta assoluzione dei coimputati, la Corte d’appello di Roma ha del tutto omesso di motivare al riguardo, così incorrendo nel vizio di mancanza della motivazione e di travisamento della prova per omessa valutazione di essa.
10.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce: a) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 111 e 117 Cost., degli artt. 6, 7 e 8 «CEDU», dei principi affermati con la sentenza del 05/04/2022 della Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, causa C-140/20, G.D. contro Commissioner of An Garda Slochana, «in ordine alla illegittimità e utilizzabilità dei tabulati telefonici richiamati nell’esposizione testimonia dell’operante COGNOME e nella motivazione della sentenza di primo grado, relativi alle seguenti numerazioni/Rit: 3197/15 progr. 2353, 2354, 2591, 2691, 2777, 2804, 6191/05 progr. 5653, 6213/15 progr. 2421, 4049, poste a fondamento del giudizio di colpevolezza»; b) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la carenza e l’apparenza della motivazione «a fronte della esposta eccezione; posta la imprescindibilità nel giudizio di merito di quelle emergenze processuali».
Il ricorrente rappresenta anzitutto che: la sentenza impugnata, alle pagg. 6162, si limiterebbe a richiamare il costrutto motivazionale della sentenza di primo grado, la quale, alle pagine 67 e seguenti, «utilizza a sostegno del suo ragionamento, gli esiti degli accertamenti tecnici desunti dalla acquisizione dei
tabulati telefonici di cui alle utenze indicate, riproposti testualmente nel testimonianza degli agenti operanti escussi. E segnatamente alla pagina 167 della parte motiva della sentenza del Tribunale vengono individuati gli esiti del “positioning” come desunto dai tabulati telefonici»; dalla pag. 125 della trascrizione del verbale dell’udienza del 05/05/2021 emergerebbe come il testimone della polizia giudiziaria COGNOME avesse riferito «che si è proceduto nel corso della intera attività di indagine, alla localizzazione del Palma, in forz dell’acquisizione dei tabulati telefonici» (così il ricorso).
Il ricorrente afferma che, pertanto, «i tabulati telefonici ed i dati acquis costituiscono l’elemento sulla scorta del quale viene articolato l’intero giudizio d merito, in ordine alla localizzazione dell’imputato» e, «dunque costituisce il presupposto fattuale e giuridico, sul quale si è articolata la sua individuazione».
I suddetti tabulati telefonici furono acquisiti, sulla base della legge che era all’epoca vigente, con decreto del pubblico ministero e non previa autorizzazione rilasciata da un giudice.
Per tale ragione, alla luce delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, del 02/03/2021 causa C-746/18 H.K. con l’intervento di Prokuratuur, e del 05/04/2022 causa C-140/20 G.D. contro Commissioner of An Garda Sìochàna, il ricorrente deduce l’illegittimità e l’inutilizzabilità dei risultanti dai tabulati telefonici, in quanto acquisiti, ancorché sulla base del disciplina all’epoca vigente, con decreto del pubblico ministero, anziché in virtù di un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un organo amministrativo indipendente.
Il ricorrente reputa che la disciplina transitoria che è stata introdotta, in sed di conversione del d.l. 30 settembre 2021, n. 132, dalla legge 23 novembre 2021, n. 178 (il riferimento appare essere alla disposizione dell’aggiunto comma 1-bis dell’art. 1 del d.l. n. 132 del 2021) – la quale ha consentito, a determinate condizioni, l’utilizzazione dei dati risultanti dai tabulati telefonici acquisi procedimenti penali in data anteriore all’entrata in vigore dello stesso decretolegge -, violerebbe: il principio del primato del diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte di giustizia, le cui sentenze, tra le quali, in particola quelle che si sono sopra menzionate, hanno effetto “ex tunc”, senza che sia consentito ai giudici nazionali di limitare nel tempo tale effetto; l’art. 117 Cost. principio tempus regit actum, come interpretato da Sez. 2, n. 11823 del 03/02/2023, COGNOME, Rv. 284600-01 e da Sez. 6, n. 40 del 22/09/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284104-01; il principio di ragionevolezza, per avere il legislatore introdotto «un criterio di valutazione giurisdizionale, che modifica quanto ai soli tabulati, i criteri di valutazione della prova».
Il ricorrente sostiene che, pertanto, si imporrebbe una «automatica declaratoria» di inutilizzabilità dei dati risultanti dagli indicati tabula prescindere dalla disposizione interna che è in evidente contrasto con la normativa europea; di cui è esemplificazione la sentenza C140/20».
NOME COGNOME peraltro, solleva anche questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, «del decreto convertito», in quanto in asserito contrasto con: 1) «il principio del primato»; «il principio della certezza del diritto»; «il principio d effettività»; «il principio della uniformità»; «il principio della rilevanza ex tunc delle sentenze pregiudiziali ex art 267 TFUE»; «il principio della eccezionalità della deroga al principio unionale»; l’art. 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, «letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11» (il riferimento appare essere alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea); l’art. 52, paragrafo 1, della stessa Carta, il quale osterebbe a una normativa nazionale che consenta al pubblico ministero, nei casi di urgenza, di disporre l’acquisizione dei dati del traffico telefonico, con controllo so successivo del giudice.
Il ricorrente, «n via subordinata», «ccepisce la contrarietà del decreto 132/21 come convertito» agli artt. 3 e 117 Cost. e al il principio di ragionevolezza.
NOME COGNOME contesta ancora «la decisione della Corte» d’appello di Roma, in quanto essa: «omette la motivazione sulla sollevata questione di contrarietà della norma innovata»; «ncorre nella violazione dei criteri costituzionali ed europei sopra citati»; «ncorre nel vizio di violazione del criterio giurisprudenziale matrice processuale in sede di legittimità e di merito, del Tempus regit actum»; «isattende i criteri applicati dalla Corte di legittimità a Sezioni Unite sop richiamat»; «mette di analizzare la rilevanza della questione di incostituzionalità italiana ed europea»; «sserisce nella motivazione in contrasto con il contenuto dell’Atto di appello, e dunque travisandone il contenuto, che non sarebbe stata esposta la rilevanza della questione posto che emerge evidentemente dalla censura articolata che la geolocalizzazione del ricorrente nella vicenda contestata appare imprescindibile al fine dell’addebito delle condotte contestate».
10.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta: a) in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 405 e seguenti dello stesso codice, «in ragione della mancata presenza di provvedimenti di iscrizione ex art. 335 cpp», ed eccepisce l’inutilizzabilità di tutti gli atti di indagine particolare, «delle attività di captazione delle utenze di cui ai Rit. 3197/15 progr 2353, 2354, 2591, 2691, 2777, 2804, 6191/15 progr. 5653, 6213/15 progr. 2421, 4049»; b) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 125 dello stesso codice e l’«omessa motivazione grafica».
NOME COGNOME deduce che egli «non risulta iscritto ex art. 335 cpp», con la conseguenza che gli esiti delle compiute attività di indagine, costituiti dagli esi delle intercettazioni e delle attività sulle quali avevano riferito i testimoni d polizia giudiziaria COGNOME COGNOME e COGNOME, si dovrebbero ritenere inutilizzabil (inutilizzabilità deducibile in ogni stato e grado del procedimento).
Ciò in ragione della previsione di un termine per la conclusione delle indagini preliminari che, come è previsto dagli artt. 405 e seguenti del Codice di procedura penale, decorre appunto dall’iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito nel registro delle notizie di reato.
Il ricorrente sostiene che, anche sulla base della richiamata giurisprudenza della Corte di cassazione, la mancata iscrizione (o reiscrizione), con la conseguente «disapplicazione» delle disposizioni processuali sui termini per la conclusione delle indagini preliminari, determina l’inutilizzabilità delle attività di indagine.
NOME COGNOME sottolinea l’introduzione, a opera della cosiddetta “Riforma Cartabia” (segnatamente: dell’art. 15, comma 1, lett. b, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), degli artt. 335-ter e 335-quater cod. proc. pen., in virtù dei quali «la iscrizione dell’indagato diventa momento centrale e ineludibile della instaurazione del giusto processo e che la conseguenza processuale debba essere quella della inutilizzabilità», e invoca l’«interpretazione [dela normativ previgente, in ottica costituzionale e comunitaria per come è ribadita dalla più recente giurisprudenza di legittimità e per come è attuata attraverso la voluntas legis che ispira la riforma Cartabia».
NOME COGNOME rammenta altresì di avere sollecitato la Corte d’appello di Roma «non solo ad una interpretazione delle disposizioni ante riforma nell’ottica del giusto processo, ma vieppiù a valutarne l’applicabilità in forza del noto principio del tempus regit actum», sui presupposti argomentativi dell’«applicabilità della normativa al momento della assunzione e valutazione degli elementi di prova» e della «grave discriminazione determinata da un’applicazione circoscritta nel tempo di criteri fondamentali in tema di valutazione della prova».
Con riferimento a questo secondo aspetto, il ricorrente eccepisce «la incostituzionalità della interpretazione che volesse non ancorare alla mancata iscrizione la inutilizzabilità in contrasto, con la voluntas legis, la interpretazione nazionale, i principi del giusto processo e la ratio sottesa alla modifica del diritto processuale penale», e, in particolare, «che la norma, interpretata e applicata in termini diversi, sarebbe in contrasto» con i parametri costituzionali di cui agli artt 3 (atteso che «deve considerarsi violato il principio che stabilisce diversi criteri valutazione giurisdizionale in forza di norme transitorie legandole alla accidentalità temporale»), 24, 111 (sotto il profilo del principio del giusto processo), e 117 Cost.
(con riferimento all’art. 6 CEDU), nonché con il «principio di ragionevolezza delle leggi».
NOME COGNOME, pertanto, «eccepisce la violazione delle disposizioni degli artt. 190 ss – 405 ss – 335 cpp per contrasto con gli articoli 3 – 24 – 111 – 117 Cost. e con il principio di ragionevolezza, nonché art. 6 CEDU, e la inutilizzabilità degli esit di indagini in assenza della iscrizione dell’indagato».
Quanto alla motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente contesta come la Corte d’appello di Roma, sul punto, l’abbia del tutto omessa.
10.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta: a) in relazione all’art. 606 comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la carenza di motivazione e il «travisamento e omessa valutazione degli esiti delle annotazioni di PG del 29/8/15, 4/9/15 – all. 5 allegato all’atto di appello – relative alla condotta del NOME posta in essere in1.2. occasione del suo arresto e per omessa valutazione del carteggio fotografico e toponomastico depositati in data 19.4.21, dimostrativi che il fatto di cui a quantitativo di 400 chilogrammi non sussiste, e che la ricostruzione versata in sentenza di primo grado, quanto alla quantità dei 15 chilogrammi, non sussiste in quanto non è coerente e logica rispetto allo stato dei luoghi»; b) in relazione all’art 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., «violazione motivazione per relationem e per carenza motivazione».
NOME COGNOME rappresenta che, nel proprio atto di appello, aveva eccepito che l’affermazione della sua responsabilità da parte del Tribunale di Velletri: 1) quanto alla ritenuta consegna, da parte sua, il 04/09/2015, a NOME COGNOME dei 15 chilogrammi di hashish che furono successivamente sequestrati allo stesso COGNOME, essa si sarebbe posta in contrasto: 1.1) con il «mancato accertamento di persone, ambienti» che il COGNOME aveva precedentemente frequentato lo stesso 04/09/2015; 1.2) con l’accertato possesso della sostanza stupefacente da parte del COGNOME già alle ore 11:00, cioè prima delle ore 17:52 in cui il COGNOME, secondo il Tribunale di Velletri, avrebbe consegnato al COGNOME la stessa sostanza; 1.3) con le «immagini riproducenti gli stabili di INDIRIZZO» (dove il Palma avrebbe consegnato l’hashish al COGNOME), non considerate dal Tribunale di Velletri, le quali avrebbero dimostrato «la impossibilità della ricostruzione», atteso che, «dalla pubblica via, ove erano appostati i testi, non si poteva vedere quanto in corso in una via senza uscita parallela interna; quanto piuttosto soggettivamente “ipotizzare”»; 2) quanto alla ritenuta importazione e detenzione illeciti dei 400 chilogrammi di hashish, essa non avrebbe considerato che si trattava di sostanza «mai rinvenuta, mai partita da un luogo per raggiungerne un altro, mai oggetto di transazione economica per una somma di denaro ignorata, di cui si sconosce il mezzo di trasporto posta la mancata attività di accertamento della polizia giudiziaria» e sarebbe stata desunta «dal testo della conversazione
ambientale – all. 6 – tra interlocutori diversi dal COGNOME, COGNOME e COGNOME che riferiscono i termini, mediati, di presunte affermazioni dei coimputati mai cristallizzate in alcuna captazione».
Ciò rappresentato, il ricorrente censura la sentenza impugnata sotto i seguenti quattro profili, che integrerebbero «vizi di legittimità»: 1) «illogicità e caren motivazione», attesa la mancanza, nella stessa, di qualsiasi riferimento alla «compatibilità delle ipotesi con fatti centrali quale il possesso, filmato, del sostanza da parte del NOME ben prima dell’incontro presunto con il COGNOME»; 2) scorretta applicazione dei «criteri in tema di motivazione per relationem», atteso che, nel caso in esame, la Corte d’appello di Roma non avrebbe potuto limitarsi a richiamare la sentenza di primo grado ma «avrebbe dovuto prendere atto e analizzare le documentate censure oggetto dell’appello», con le quali erano stati rappresentati «elementi di fatto che se valutati avrebbero determinato un diverso costrutto giurisdizionale»; 3) «carenza motivazionale», per non avere analizzato le specifiche e documentate censure difensive e per non avere ritenuto l’illogicità della mancata valutazione della detenzione dello stupefacente da parte del COGNOME già prima che egli incontrasse il Palma, avendo, in particolare, La Corte d’appello di Roma, omesso di: «esamina tutti gli elementi a disposizione; «forni una corretta interpretazione di essi»; «da esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti»; «applica esattamente le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre, e segnatamente la tenuta della coerenza di un giudizio che omette l’analisi di fatti rilevanti»; «espo i criteri valuta ordine alla rilevanza delle dichiarazioni cd mediate; oggetto di puntuale analisi ad opera del giudice di primo grado emittente la sentenza assolutoria del processo connesso»; 4) travisamento dell’unica intercettazione ambientale menzionata nella sentenza impugnata (alla pag. 62) e posta ad esclusivo fondamento dell’affermazione di responsabilità, in quanto, dalla lettura della trascrizion peritale della relativa conversazione, sarebbe emerso che gli interlocutori non erano identificati, che non veniva fatto riferimento al Palma e che la frase, riportata dalla Corte d’appello di Roma, «sono rimasti centocinquanta meno questi di qua» non era presente nel testo, con la conseguenza che la stessa Corte d’appello avrebbe fondato l’affermazione di responsabilità su tale dato «centrale» che, tuttavia, non era stato «percepito correttamente», attesa l’attribuzione dei dialoghi «a due soggetti non emergenti», l’attribuzione ai medesimi di «un significato diverso dal testo» e di «una rilevanza pressoché assorbente ogni ulteriore emergenza». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
10.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 6 CEDU e degli artt. 178, comma 1, lett. c), 499 «ss» e 511 cod.
proc. pen., per avere la Corte d’appello di Roma «utilizzato il contenuto della testimonianza dei testi COGNOME COGNOME e COGNOME in ordine ai testi delle conversazioni captate nonché per aver consentito ai testi di leggere atti non sottoscritti. Nullità della deposizione dei testi».
In via subordinata, il ricorrente fa istanza, ai sensi dell’art. 618 cod. proc pen., di remissione della relativa questione alle Sezioni unite della Corte di cassazione.
NOME COGNOME premette che: 1) nel corso dell’udienza del 05/05/2021 (come risulta dalla pag. 120 della trascrizione del relativo verbale), aveva eccepito la nullità «della deposizione del teste escusso in ordine al contenuto delle intercettazioni»; 2) nel corso dell’udienza del 29/03/2021 (come risulta dalla pag. 88 della trascrizione del relativo verbale), aveva eccepito la nullità della testimonianza del testimone COGNOME per avere egli letto parti di atti di indagine da lui non sottoscritti, in violazione degli artt. 499 «ss» cod. proc. pen.
Ciò premesso, il ricorrente insiste nella propria eccezione di «nullità e inutilizzabilità delle testimonianze, nella parte in cui il Tribunale – e attraverso omessa valutazione avallato anche la Corte – ha consentito l’accesso al dibattimento attraverso la deposizione, dei contenuti dei brogliacci, della interpretazione di testi di conversazioni, non riproposti fedelmente, della identificazione dei nomi degli interlocutori».
L’imputato argomenta che la testimonianza degli appartenenti alla polizia giudiziaria sui contenuti di un’intercettazione dovrebbe essere ritenuta illegittima e, di conseguenza, dovrebbe essere dichiarata inutilizzabile, atteso che, in tema di intercettazioni, la prova è costituita dalla bobina o dal supporto sonoro su cui è registrata la conversazione, nonché dai verbali delle operazioni compiute, e che l’opposta soluzione comporterebbe anche un’«inversione dell’onere della prova», in quanto la difesa dell’imputato, per poter dimostrare che il contenuto della conversazione intercettata non è stato fedelmente riportato dall’ufficiale o agente di polizia giudiziaria, sarebbe onerata di confrontare il contenuto della deposizione testimoniale con il materiale sonoro o con quello peritale.
In via subordinata, NOME COGNOME ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla questione sollevata con il motivo, chiede che il ricorso sia rimesso alle Sezioni unite della Corte di cassazione.
10.2.6. Il sesto motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., nonché in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., per carenza di motivazione con riguardo alla sussistenza della circostanza aggravante dell’ingente quantità di cui all’art. 80 del d.P.R. n. 309 del 1990.
NOME COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe confermato la sussistenza di tale circostanza aggravante «senza alcuna esaustiva motivazione»,
in particolare, «senza richiamare l’accertamento del dato ponderale del principio attivo e prescindendo dai criteri di legittimità in tema», quali definiti, tra le a da Sez. 4, n. 49366 del 19/07/2018, C., Rv. 274038-01, la quale ha statuito che, in tema di produzione, traffico e detenzione di hashish, l’aggravante in questione non è ravvisabile quando la quantità di principio attivo è inferiore a 4.000 (e non 2.000) volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia) determinato per la suddetta sostanza dalla tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006.
10.2.7. Con il settimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la mancanza della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva «non contestata», al ritenuto diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione della pena in misura superiore al minimo edittale.
Quanto alla recidiva, nel richiamare i principi, affermati dalla Corte di cassazione, in tema di applicazione di tale circostanza aggravante soggettiva e di nuova contestazione di una circostanza aggravante, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma avrebbe applicato la recidiva, con il relativo aumento di pena, in assenza di contestazione.
Quanto al «trattamento sanzionatorio», il ricorrente deduce: «valga considerare quanto neppure considerato dal Tribunale e riferibile alle condizioni soggettive dell’imputato; afflitto grave stato di assuefazion alle droghe che lo hanno indotto a sottoporsi ad un lungo programma terapeutico riabilitativo. Il fatto è risalente nel tempo, eccezionale e non giustifica il severo trattamento sanzionatorio. Il Tribunale quantifica la pena oltre il minimo senza motivarne i criteri di scelta».
11. Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a cinque motivi, i quali sono preceduti dall’esposizione dello svolgimento del processo (pagg. 2-7 del ricorso).
11.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen., e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., l mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, «per avere la Corte di merito ritenuto accertata la violenza e la minaccia, quali elementi costitutivi del delitto di estorsione, nei confronti della persona offesa, nonché per aver ritenuto il carattere di ingiustizia della pretesa di pagamento fatta valere».
Il COGNOME contesta che non sarebbe stata fornita alcuna prova «diretta e certa» delle minacce che la persona offesa NOME COGNOME avrebbe subito per costringerlo a pagare la somma che gli veniva richiesta.
Sulla premessa che la Corte d’appello di Roma avrebbe ravvisato l’elemento della minaccia, innanzitutto, nell’incontro che ebbe luogo tra NOME COGNOME e NOME COGNOME il 24/11/2015 presso il bar “INDIRIZZO” di Torvajanica, il ricorrente contesta che, sulla base dell’intercettato resoconto di tale incontro che fu fatto da NOME COGNOME al COGNOME, «non vi era alcun concreto elemento che potesse far ritenere che NOME NOME fosse stato minacciato».
Ciò era stato del resto negato dalla stessa persona offesa NOME COGNOME nelle dichiarazioni che egli aveva reso nel corso del proprio esame dibattimentale («non ho avuto nessuna minaccia»).
A proposito di tali dichiarazioni, il ricorrente contesta il giudizio della Cort d’appello di Roma di «contraddittorietà» delle stesse e di «reticenza» del dichiarante (penultimo capoverso della pag. 38 della sentenza impugnata), lamentando come tale giudizio farebbe emergere «un primo elemento di carenza e di contraddizione della motivazione».
In particolare, l’asserita (dalla Corte d’appello) «contraddittorietà» delle dichiarazioni del COGNOME «non trova supporto in alcuna argomentazione e si risolve in un’affermazione di principio».
Quanto all’asserita (sempre dalla Corte d’appello) «reticenza» del COGNOME, il ricorrente deduce che: 1) la Corte d’appello di Roma non avrebbe dato alcuna spiegazione del perché il COGNOME avrebbe dovuto essere reticente e negare di avere subito delle minacce; 2) la reticenza della persona offesa «avrebbe potuto spiegarsi se il credito azionato con i metodi, come contestati, fosse stato di natura illecita, nel qual caso vi sarebbe stata un sorta di esigenza di tutela della propria persona, da portarla a mentire. Ma così non era nel caso di specie».
A quest’ultimo proposito, il COGNOME rappresenta che, nel caso di specie, «i poteva porre in dubbio se il credito, all’esito di una più approfondita verific fosse davvero sussistente e/o se lo fosse nella misura indicata da COGNOME NOME, ma certamente non poteva negarsene la natura lecita», atteso che il COGNOME rivendicava, nei confronti dell’ex socio NOME COGNOME, la restituzione di somme a titolo di spese che lo stesso COGNOME aveva anticipato per ristrutturare i locali e per pagare delle forniture, oltre che a titolo di restituzione del capit che aveva investito nella società.
A sostegno di ciò e, quindi, della natura lecita del credito da lui vantato nei confronti del COGNOME, il ricorrente sottolinea che: 1) anche la persona offesa, nel corso del suo esame dibattimentale, aveva confermato l’esistenza di suoi pregressi rapporti di lavoro con il COGNOME; 2) a pag. 74 della sentenza di primo grado, il Tribunale di Velletri aveva affermato che «COGNOME NOME ha chiesto chiaramente a COGNOME NOME di restituire a COGNOME NOME quanto da costui versato quale investimento nell’impresa comune»; 3) dal racconto che NOME
COGNOME gli aveva fatto dell’incontro che aveva avuto con il COGNOME il 24/11/2015, emergeva che anche la persona offesa aveva riconosciuto la pretesa di pagamento del COGNOME, anche se non per l’ammontare da lui richiesto; 4) anche dall’intercettata conversazione tra NOME COGNOME e NOME COGNOME (nt. 3197/17) richiamata dal Tribunale di Velletri alle pagg. 67-70 della sentenza di primo grado, emergeva che il COGNOME aveva riconosciuto il proprio debito nei confronti del COGNOME, anche se poi non aveva inteso onorarlo a seguito del litigio tra i due.
Alla luce di tutto ciò, risulterebbe la mancanza di qualsivoglia logica della motivazione là dove la Corte d’appello di Roma ha «bollato come inattendibile il racconto della persona offesa circa l’insussistenza di minacce e quant’altro».
Sempre con riguardo alla lamentata mancanza di prova dell’esistenza di minacce – prova che la Corte d’appello di Roma avrebbe tratto dal già ricordato contenuto del colloquio che NOME COGNOME aveva avuto con NOME COGNOME il 24/11/2015 -, il COGNOME asserisce che, «da esso incontro, non si erano potuti affatto rinvenire gesti o atteggiamenti intimidatori da parte di COGNOME NOME».
In particolare, nemmeno la frase «tu fai i passi tuoi, lui fa i passi suoi e i faccio i passi miei» consentirebbe di ritenere che, nel corso di quell’incontro, il COGNOME fosse stato minacciato, e la diversa valutazione che ne avrebbe fatto la Corte d’appello di Roma evidenzierebbe «un’ulteriore contraddizione motivazionale ovvero di non aver considerato che, se davvero COGNOME avesse voluto minacciare COGNOME, non lo avrebbe certamente invitato a fare anche lui i passi suoi».
La valenza intimidatoria delle frasi che furono rivolte da NOME COGNOME al COGNOME non potrebbe neppure «legittimamente farsi discendere dalla pregressa fase progrannmatoria, caratterizzata dai colloqui tra COGNOME NOME e COGNOME NOME».
Il ricorrente lamenta ancora che, «n sostanza, per la Corte di appello la prova della intimidazione si ridurrebbe al fatto che il semplice colloquiare con NOME COGNOME costituirebbe di per sé una minaccia: tesi che, per tutto il contesto in cui si era sviluppata la vicenda, non aveva alcun fondamento, e come già dedotto nell’atto di appello, starebbe inopinatamente a significare che, ogni qualvolta COGNOME NOME o altri soggetti, di cui si conosca una sorta di caratura criminale, richiedesse denaro a chicchessia, ciò solo basterebbe a configurare il reato di estorsione».
NOME COGNOME contesta ancora che la minaccia di morte che egli avrebbe rivolto al COGNOME risulterebbe dall’intercettato colloquio del 06/07/2015 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME in cui il COGNOME riferiva al COGNOME che il COGNOME gli aveva detto «NOME io ti aspettavo perché lui mi ha detto ti sei messo la Sicilia contro. Ora viene NOME e ti spara in testa».
Secondo il ricorrente, tale frase, oltre a essere stata meramente riportata dal COGNOME e a essere stata smentita dal testimone COGNOME, sarebbe «fortemente contraddetta» da un altro elemento che emergeva dagli atti, e del quale la Corte d’appello di Roma non avrebbe tenuto conto, cioè che, in occasione del suo primo incontro (il 17/06/2015) con NOME COGNOME, il COGNOME gli aveva chiesto che a parlare con il COGNOME non fosse mandato NOME COGNOME, sicché, «se il COGNOME si era preoccupato che a parlare con il COGNOME non venisse mandato il COGNOME COGNOME, ritenuto allo scopo inidoneo, non poteva, a onor di logica, aver detto al COGNOME che sarebbe stato proprio Santo recarsi da lui a sparare in testa a lui, alla moglie e ai suoi figli».
Il ricorrente conclude ribadendo il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della prova degli elementi costitutivi del reato della minaccia o violenza e dell’ingiustizia del profitto con altri danno.
11.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 56 e 629 cod. pen., e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione, «per avere la Corte di Appello ritenuto accertata la sussistenza di atti idonei e configurabili quale tentativo nonché del dolo del delitto di estorsione».
Il COGNOME espone che la Corte d’appello di Roma avrebbe omesso di considerare due elementi che erano stati evidenziati nel proprio atto di appello e che si dovrebbero ritenere indicativi della mancata prova del compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a ottenere dal COGNOME la somma pretesa dall’imputato.
Il primo elemento è costituito dal fatto che, pochi giorni dopo l’incontro con il Giovenali del 24/11/2015, il 28/11/2015 NOME COGNOME «aveva ritenuto necessario cercare un contatto con tale COGNOME NOME, essendo emerso dal colloquio con Giovenali che il predetto COGNOME era al corrente della problematica sussistente con il COGNOME e motivo dell’incontro del 24.11.2015». In particolare, il 28/11/2015 NOME COGNOME aveva chiamato tale NOME COGNOME perché parlasse con il suddetto NOME COGNOME e gli dicesse «piglia per un orecchio a quest’NOME, digli: vai a Torvajanica e vai a portare i 30.000,00».
Il secondo elemento che non sarebbe stato considerato dalla Corte d’appello di Roma è quello che, dopo l’incontro del 24/11/2015, NOME COGNOME non aveva più avuto alcun contatto con NOME COGNOME e che vi era la prova che il debito del COGNOME nei confronti del COGNOME non era stato pagato, come aveva riferito il COGNOME nel corso del suo esame dibattimentale.
Ciò esposto, il ricorrente deduce che, nei reati di evento, qual è l’estorsione, affinché sia configurabile il delitto tentato «l’agente deve, comunque, essere convinto di aver posto in essere tutti gli atti idonei ad ottenere l’evento voluto».
Il COGNOME argomenta quindi che, «nel caso di specie, in cui i fatti contestati si collocavano al più tardi al 24.11.2015, nessun’altra logica spiegazione rivestiva la circostanza che COGNOME NOME, subito dopo, aveva ritenuto di dover coinvolgere tale NOME COGNOME al fine di ottenere il pagamento da parte di COGNOME se non che egli, al di là di quanto raccontato al COGNOME il giorno dopo, non aveva affatto la convinzione di aver posto in essere atti idonei ad ottenere il pagamento richiesto».
Tenuto conto degli elementi indicati, non considerati dalla Corte d’appello di Roma, si doveva ritenere che dagli atti si evinceva che l’incontro del 24/11/2015 «si è inserito ancora in una fase di programmazione del reato, diretta per lo più alla conoscenza dell’interlocutore e dei fatti». Pertanto, il 24/11/2015, quando, secondo la Corte d’appello, sarebbe stato compiuto il reato, «COGNOME era ben consapevole di non aver affatto posto in essere atti idonei ad indurre il Giovenali a pagare, atteso che, a tal scopo, egli si era rivolto al COGNOME perché fosse lui a convincere COGNOME».
Ne discenderebbe, ad avviso del ricorrente, la non configurabilità del reato di estorsione neppure nella forma tentata, «atteso che il COGNOME aveva dimostrato con ciò di essere consapevole che l’incontro del 24.11.2015 era stato organizzato solo per conoscere Giovenali e sapere quali fossero le sue intenzioni, diversamente non si sarebbe adoperato affinché intervenissero altri soggetti vicini al Giovenali».
Da ciò il vizio della motivazione esposta a sostegno della ritenuta prova della sussistenza di atti idonei a integrare la tentata estorsione e del relativo elemento psicologico.
11.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale, e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione, «per non avere la Corte di Appello ritenuto integrata la fattispecie di reato di esercizio arbitrario delle proprie ragion e per l’effetto, violazione degli artt. 393 c.p. in relazione all’art. 606 1° [comma lettera b), e dell’art. 529 c.p.p. in relazione all’art. 606, 10 comma, lettera c), per avere la Corte di appello omesso di dichiarare il non doversi procedere nei confronti dell’imputato per mancanza di querela».
Il COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma non avrebbe speso alcun argomento in ordine al motivo di appello con il quale egli aveva chiesto la riqualificazione del fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Il ricorrente richiama al riguardo quanto ha argomentato nel primo motivo a proposito dell’esistenza di una sua effettiva e legittima ragione di credito nei confronti del Giovenali e sostiene che, poiché egli aveva agito nella convinzione di esercitare un proprio diritto, ciò escludeva un suo intento estorsivo e una sua responsabilità penale che non fosse, al più, quella per il reato di cui all’art. 39 cod. pen.
Nell’evidenziare come il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone si debba ritenere configurabile anche nel caso in cui il terzo concorrente non titolare del diritto non persegua alcuna diversa e ulteriore finalità, il COGNOME rappresenta che «giammai COGNOME NOME aveva inteso il suo coinvolgimento come finalizzato a rafforzare il sodalizio criminoso, tanto più ciò era vero visto che è stata esclusa in sede di appello l’esistenza di una associazione di stampo mafioso, di cui egli avrebbe fatto parte, con la conseguenza che non più supportata poteva dirsi la finalità ultronea del rafforzamento del sodalizio criminoso, come necessaria a configurare, in concorso con COGNOME, il reato di estorsione».
11.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 416-bis.1 cod. pen., e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione «per avere la Corte di Appello ritenuto applicabile l’aggravante di cui all’art. 416 bis.1, c.p.».
Dopo avere premesso che, essendo stata esclusa la sussistenza dell’associazione mafiosa di cui al capo 1 dell’imputazione, la contestata circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. «non poteva che essere limitata al c.d. metodo mafioso», il COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma non avrebbe addotto alcun elemento a fondamento dell’applicazione di tale circostanza aggravante.
Il ricorrente rappresenta in proposito che: 1) dagli atti e dalle stesse sentenze di merito sarebbe risultato che «il COGNOME aveva affrontato la questione del pagamento in favore di COGNOME, presentandosi all’incontro con COGNOME senza alcun sentimento di timore o di minorata difesa»; 2) secondo la stessa «ricostruzione accusatoria», il COGNOME «avrebbe adottato contromisure particolarmente efficaci a respingere la richiesta, grazie al coinvolgimento di altrettanti esponenti di spicco nell’ambiente criminale, quali COGNOME NOME e COGNOME NOME».
Alla stregua di tali elementi, diversamente da quanto avrebbe reputato la Corte d’appello di Roma, non sarebbe stato in alcun modo possibile ritenere che fosse stato utilizzato il cosiddetto metodo mafioso, attesa l’assenza dell’effetto
tipico di questo, cioè quello di «indurre la vittima a temere gravi ritorsioni e a porl in una condizione di omertà».
Ancorché il punto fosse stato oggetto di uno specifico motivo di appello, la Corte d’appello di Roma non avrebbe fornito alcuna motivazione in proposito.
11.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., in combinato disposto con l’art. 27 Cost., e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione per avere la Corte d’appello di Roma confermato il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Il COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Roma non avrebbe motivato in ordine alla sua richiesta, che egli aveva avanzato con uno specifico motivo di appello, di concessione delle suddette circostanze attenuanti.
Il ricorrente rappresenta che, nel proprio atto di appello, aveva in particolare valorizzato, quale elemento positivo che, unitamente al suo stato di incensurato, avrebbe potuto condurre all’applicazione delle richieste circostanze attenuanti, il fatto che, come risulta dall’argomentazione del primo motivo, egli «aveva agito in uno stato di forte bisogno economico nella convinzione, quantomeno putativa, di essere in credito nei confronti di NOME in dipendenza dei pregressi rapporti commerciali tra i due».
La Corte d’appello di Roma, non avendo motivato in proposito, non aveva neppure indicato «elementi idonei a contrastare, al punto da eluderli, quelli positivi forniti».
12. NOME COGNOME ha depositato una memoria, a firma dell’avv.
NOME COGNOME, anche per l’avv. NOME COGNOME di replica al ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, con la quale, premesso che egli era imputato del solo fatto di cui al capo 3 dell’imputazione, ha chiesto: in via principale, di accertare la mancata impugnazione della sentenza con riguardo alla sua specifica posizione, con il conseguente passaggio in giudicato della stessa sentenza; in via subordinata, di dichiarare l’inammissibilità del ricorso, quantomeno con riferimento alla sua posizione, in considerazione dell’aspecificità e della manifesta infondatezza dello stesso.
13. NOME COGNOME ha depositato una memoria, a firma dell’avv. NOME COGNOME COGNOME di replica al ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, con la quale, premesso che egli era imputato del solo fatto di cui al capo 3 dell’imputazione, ha chiesto che tale ricorso sia dichiarato inammissibile in quanto il ricorrente avrebbe solo prospettato una diversa lettura
degli elementi probatori e non si sarebbe confrontato con gli argomenti che sono stati utilizzati dalla Corte d’appello di Roma.
Il COGNOME rappresenta anche che il «versamento di assegni da parte e la successiva parziale copertura di essi ad opera di COGNOME sono condotte solo ipotizzate in base alla interpretazione delle senso delle conversazioni captate, mancando ogni accertamento specifico in ordine ad emissione ed incasso dei titoli».
14. NOME COGNOME ha depositato una memoria, a firma dell’avv.
NOME COGNOME di replica al ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, con la quale, premesso che egli era imputato del solo fatto di cui al capo 24 dell’imputazione, ha chiesto che tale ricorso sia dichiarato inammissibile per genericità, in quanto il Procuratore generale avrebbe omesso di specificare i motivi con riguardo alla sua posizione, differenziandoli da quelli proposti nei confronti dei coimputati.
Tale differenziazione sarebbe stata necessaria «quantomeno sotto il profilo soggettivo», atteso che, poiché egli, diversamente dai tre coimputati, non aveva in alcun modo partecipato all’associazione di cui al capo 1 dell’imputazione – capo dal quale era stato assolto dal Tribunale di Velletri, la cui sentenza è al riguardo ormai definitiva -, sarebbe stato necessario «enunciare motivi specifici, sotto il profilo della sua coscienza e volontà di volere agevolare un’associazione mafiosa nel suo complesso e non un singolo soggetto gravato da un provvedimento cautelare per un diverso fatto di reato».
Il ricorrente deduce inoltre che, anche ritenendo il contestato reato di favoreggiamento aggravato ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., il reato si sarebbe comunque prescritto il 15/07/2023, cioè prima dell’emanazione della sentenza impugnata.
15. NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno
depositato una memoria, a firma dell’avv. NOME COGNOME di replica al ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, chiedendo che tale ricorso sia dichiarato inammissibile, in quanto il ricorrente avrebbe omesso di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata, avrebbe prospettato argomentazioni in fatto, avrebbe trascurato gli elementi di prova che avevano dimostrato l’insussistenza di molte delle accuse e si sarebbe limitato a elencare gli elementi di prova che si porrebbero in contrasto con le conclusioni della sentenza impugnata senza indicarne, però, né il contenuto né «la distorsione che ne avrebbe compiuto la Corte di merito».
15.1. Quanto al reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1 dell’imputazione, dopo avere richiamato alcune pronunce della Corte di cassazione sul tema delle cosiddette “nuove mafie” (in particolare: Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555-17; Sez. 3, n. 17851 del 09/01/2019, Casamonica, non massimata), gli imputati lamentano che il Procuratore della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma avrebbe prospettato argomenti attinenti al merito del processo, di cui avrebbe proposto «una visione parcellizzata» e anche illogica, come nel caso degli argomenti relativi alla valutazione delle liti tra gli imputati e al riscontro delle dichiarazioni collaboratore di giustizia NOME COGNOME A quest’ultimo proposito, gli imputati rappresentano come sarebbe priva di qualsiasi fondamento probatorio l’affermazione del Procuratore della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma secondo cui «l’associazione ha controllato anche il mercato degli stupefacenti», atteso che sia il Tribunale di Velletri sia la Corte d’appello di Roma avrebbero accertato come i contestati delitti in materia di stupefacenti «non si ricollegassero ad una preventiva ideazione programmatica condivisa dal gruppo, ma piuttosto, fossero risultati essere stati ideati dal singolo presunto partecipe» (così la memoria); del che costituirebbero un esempio le vicende di cui ai capi 21 e 23 dell’imputazione.
Gli imputati deducono ancora che, diversamente da quanto riterrebbe il ricorrente, l’eventuale rapporto con consorterie mafiose non sarebbe «elemento di prova direttamente dimostrativo del rango mafioso in capo agli imputati».
Anche gli argomenti spesi dal ricorrente a sostegno della sussistenza di una concreta e attuale forza intimidatrice del gruppo sarebbero «di fatto e generici», dovendosi anche tenere conto, a tale proposito, del fatto che nessuna delle persone offese che erano state escusse in dibattimento aveva affermato «di aver avuto consapevolezza dell’esistenza e della forza del gruppo RAGIONE_SOCIALE o di aver conosciuto i trascorsi giudiziari dei singoli imputati e per questo di avern subito la forza di intimidazione». Anche la tesi, sostenuta dal ricorrente, del controllo che l’associazione avrebbe esercitato sul litorale laziale si fonderebbe su argomenti di mero fatto.
Infine, la doglianza relativa al contrasto di giudicati rispetto alle sentenze che erano intervenute nei giudizi abbreviati prescelti da alcuni imputati non terrebbe conto del diverso materiale probatorio disponibile in tali giudizi.
15.2. Anche nella parte del suo ricorso relativa ai capi 7 e 9 dell’imputazione, il Procuratore della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma si sarebbe affidato alla prospettazione di meri elementi di fatto, chiedendone, in modo non ammissibile, la rivalutazione.
Il ricorrente avrebbe anche omesso di confrontarsi compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata.
La parte del ricorso con la quale il Procuratore della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma ha contestato l’esclusione della recidiva in relazione al delitto di cui al capo 24 dell’imputazione, sarebbe, infine, priva di «specifiche deduzioni» al riguardo.
16. NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno depositato delle note
difensive, a firma dell’avv. NOME COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME con le quali hanno chiesto che il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma sia dichiarato inammissibile in quanto proposto oltre i termini previsti dall’art. 585 cod. proc. pen.
NOME COGNOME ha depositato una memoria, a firma dell’avv. NOME COGNOME di replica alle conclusioni del Procuratore generale e con la quale ha chiesto anche che, per effetto dell’esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., il reato di tentata estorsione a lui attribuito ritenuto estinto per prescrizione, la quale sarebbe maturata il 30/03/2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso del Procuratore oenerale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma.
1.1. Va preliminarmente valutata la tempestività del ricorso, in relazione alle doglianze innanzi riepilogate, formulate da plurime difese.
1.1.1. Secondo la comune prospettiva delle difese degli imputati interessati:
avendo la Corte di appello, nel dispositivo della sentenza de qua, pubblicato il 7 luglio 2023, fissato, ai sensi dell’art. 544, comma 3, cod. proc. pen., il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione;
avendo successivamente il presidente della stessa Corte di appello di Roma disposto, in data 2 ottobre 2023, su conforme richiesta del collegio giudicante, la proroga di detto termine, ai sensi dell’art. 154, comma 4, disp.att. cod. proc. pen., nella misura di ulteriori giorni novanta;
essendo stato detto provvedimento di proroga “trasmesso il 10 ottobre 2023, a mezzo pec, sia ai difensori che alla Procura Generale presso la Corte di appello” (così a f. 2 della memoria del 13 dicembre 2024 la difesa degli imputati COGNOME NOME e COGNOME NOME);
essendo stata la sentenza de qua depositata il 29 dicembre 2023, ovvero nel rispetto del complessivo termine di giorni 180 (che sarebbe scaduto il 3 gennaio 2024),
la Procura Generale presso la Corte di appello non avrebbe dovuto ricevere alcun ulteriore avviso di deposito, ed il termine per l’impugnazione, pari a giorni 45 (in realtà decorrente dal 4 gennaio 2024), scadeva il giorno 17 (rectius, 18) febbraio 2024: di qui, la tardività del ricorso dalla stessa Procura Generale depositato soltanto in data 1 marzo 2024.
Sarebbe, infatti, priva di effetti, la comunicazione dell’avviso di deposito inoltrata il 17 gennaio 2024, essendo il deposito della sentenza intervenuto tempestivamente, ovvero nel rispetto del complessivo termine di giorni 180.
1.1.2. Deve premettersi che, secondo quanto in più occasioni chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, che il collegio condivide e ribadisce, per i provvedimenti di proroga del termine di deposito delle sentenze emessi ex art. 154 disp. att. cod. proc. pen. non è prevista alcuna forma di conoscenza per le parti; ove, peraltro, di tali provvedimenti le parti abbiano ricevuto ritual comunicazione, quest’ultima incide sulla decorrenza del termine per l’impugnazione della sentenza, secondo le disposizioni generali che disciplinano la materia, comportando, in particolare, che il termine per impugnare la sentenza, fissato dall’art. 585, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. decorre dalla nuova data fissata per il deposito della sentenza – se tempestivo – a norma del comma 2, lett. c), dello stesso art. 585 (Sez. 4, n. 21559 del 16/04/2024, Russo, non mass.; Sez. 4, n. 58249 del 17/10/2018, Albanese, Rv. 274966 – 01, peraltro riguardante fattispecie nella quale era stato lo stesso PG ricorrente ad ammettere, nell’atto d’impugnazione, l’acquisita conoscenza del provvedimento di proroga ex art. 154 disp. att. cod. proc. pen.; Sez. 6, n. 29150 del 09/05/2017, COGNOME, Rv. 270697 – 01; Sez. 6, n. 15477 del 28/02/2014, COGNOME, Rv. 258963 – 01).
Deve, inoltre, convenirsi con le difese che nessun rilievo potrebbe assumere il fatto che del deposito della sentenza sia stato dato avviso, in ipotesi erroneamente, al Procuratore Generale, in quanto tale irrituale formalità, non richiesta dalla legge nei casi di rispetto da parte del giudice del termine legale per il deposito della sentenza, non potrebbe valere a dilatare artificiosamente il termine per proporre impugnazione, spostando la decorrenza di esso al momento della non dovuta notificazione dell’avviso di deposito (Sez. 4, n. 40722 del 17/10/2024, COGNOME, Rv. 286998 – 01; Sez. 6, n. 462 del 08/11/1996, dep. 1997, COGNOME, Rv. 207731 – 01).
1.1.3. Deve aggiungersi, per completezza, che priva di rilievo ai fini de quibus appare Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022, Cospito, Rv. 283904 – 01, riguardante la disciplina processuale vigente prima dell’entrata in vigore del d. Igs. n. 150 del 2022, al contrario applicabile nel caso di specie.
1.1.4. Ciò premesso, secondo la disciplina dettata dall’art. 153, comma 2, cod. proc. pen., nella formulazione vigente alla data della proroga disposta ex art.
154 disp. att. cod. proc. pen., le comunicazioni di atti e provvedimenti del giudice al pubblico ministero andavano eseguite a cura della cancelleria nei modi di cui al comma 1 (che a sua volta richiama l’art. 148 cod. proc. pen.), ovvero telematicamente, salvo che il pubblico ministero avesse preso visione dell’atto, sottoscrivendolo.
Detta modalità è ulteriormente (e forse superfluamente) richiamata dall’art. 64, comma 2, disp. att. cod. proc. pen. per la comunicazione di atti dal giudice al pubblico ministero che abbia sede diversa da quella del giudice, che va, a sua volta, eseguita mediante trasmissione di copia dell’atto con le modalità telematiche di cui all’articolo 148, comma 1, o, nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, del codice, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
1.1.5. Nel caso in esame, ai sensi dell’art. 153, comma 2, cod. proc. pen., trattandosi di comunicazione di un atto da giudice a pubblico ministero aventi medesima sede (la Corte di appello di Roma), la comunicazione del provvedimento di proroga ex art. 154 disp. att. cod. proc. pen. andava eseguita telematicamente.
1.1.6. Può ritenersi pacifico (essendo, tra l’altro, comprovato da un atto che la stessa difesa degli imputati COGNOME NOME e COGNOME NOME allega alla propria memoria del 13 dicembre 2024) che la comunicazione del provvedimento di proroga ex art. 154 disp. att. cod. proc. pen. invocata dalle difese sia stata inoltrata dalla Corte di appello di Roma alla locale Procura Generale della Repubblica all’indirizzo di posta elettronica affaripena/i.pg.roma(dgiustiziacert.it.
Peraltro, alla stregua delle disposizioni vigenti alla data dell’emissione del provvedimento di proroga del termine di deposito della sentenza de qua, gli unici indirizzi di posta elettronica della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma abilitati a ricevere, anche dalla locale Corte di appello, ogni comunicazione di rito, erano quelli indicati nell’elenco di cui all’art. 24, comma 4, d.l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla I. n. 176 del 2020 (tuttora applicabili in forza degli artt. 87 ed 87-bis d. Igs. n. 150 del 2022):
EMAIL;
depositoattipenali2EMAIL ;
depositoattipenali3EMAIL .
1.1.7. Risulta ugualmente pacifico che nessun atto del procedimento dimostra che il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma abbia per altra via ricevuto effettiva conoscenza del provvedimento di proroga del termine di deposito della senteza de qua, né egli ha dato atto di averne ricevuto alíunde effettiva conoscenza.
1.1.8. D’altro canto, in presenza di disposizioni che disciplinano le modalità di effettuazione delle prescritte comunicazioni telematiche, finalizzate a dar prova di intervenuta conoscenza legale (non importa se effettiva o presunta), nessun rilievo
può assumere la circostanza, pure invocata dalle difese, che il Procuratore Generale abbia avuto effettiva conoscenza di un diverso atto (la sentenza impugnata), del cui deposito risulta avere ricevuto comunicazione presso il medesimo indirizzo (pur non legalmente abilitato) di posta elettronica: ciò che rileva ai fini de quibus è, infatti, la carenza assoluta di prova certa dell’acquisita conoscenza del provvedimento di proroga de quo, comunicato al Procuratore Generale ad un indirizzo di posta elettronica per legge non abilitato a ricevere detta comunicazione (argomenta anche da Sez. 2, n. 44781 del 20/11/2024, Lancia, non mass.; da Sez. 2, n. 11795 del 21/02/2024, COGNOME, Rv. 286141 01; da Sez. 4, n. 48804 del 14/11/2023, dep. 2024, COGNOME, non mass.).
1.1.9. Per altro verso, la doglianza della difese risulterebbe pur sempre affetta da carenza della necessaria specificità, nella parte in cui non corrobora, neppure con mere allegazioni, l’implicito assunto che l’indirizzo di posta elettronica presso il quale fu inviata la comunicazione del più volte menzionato provvedimento di proroga dei termini di deposito della sentenza de qua fosse ex lege abilitato a ricevere detta comunicazione.
1.1.10. Deve, pertanto, concludersi che il termine per presentare l’impugnazione de qua non decorreva dal 4 gennaio 2024, bensì dal 17 gennaio 2024, data di comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza, che emerge pacificamente ex actis essere stato conosciuto dal Procuratore Generale.
1.2. Ritenuta la tempestività del ricorso, è possibile passare alla disamina nel merito del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma, che appare fondato limitatamente ai reati di cui ai capi 1), 1-bis), 24).
1.2.1. Deve premettersi che il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272430 – 01).
1.2.2. Ciò premesso, con riguardo al reato di cui al capo 1-bis), appare all’evidenza fondata la specifica censura di carenza della necessaria motivazione “puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata”, non essendosi la Corte di appello puntualmente confrontata con le contrarie e dettagliate argomentazioni del Tribunale (che valorizzavano, in particolare, plurime e specifiche conversazioni intercettate), superate sulla base di una motivazione estremamente sintetica, ai limiti dell’assertività, che non contiene il doveroso riferimento alla valenza probatoria (da riconoscere o da
negare, a seconda delle inverse prospettive) delle risultanze probatorie legittimamente acquisite.
1.2.3. Con riguardo al reato di cui al capo 1), è macroscopico l’equivoco in cui è incorsa la Corte di appello nel ritenere inadeguata la motivazione dell’affermazione di responsabilità rinvenibile alla pagine da 26 a 30 della sentenza di primo grado, laddove essa costituiva mera premessa di un più ampio ed articolato ragionamento probatorio svolto nelle pagine da 206 a 219, previa valorizzazione di copiose ed eterogenee risultanze probatorie con le quali, giocoforza, la Corte di appello ha finito col non confrontarsi.
Di qui, anche in tal caso, la fondatezza della specifica censura di carenza della necessaria motivazione “puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata”.
1.2.4. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma è conseguentemente fondato anche limitatamente alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. relativamente ai reati per i quali è stata esclusa: a tal fine risulta, infatti, decis la già disposta statuizione di cui al punto 1.2.3., poiché l’esclusione della circostanza aggravante de qua era stata fondata dalla Corte di appello proprio sulla previa esclusione della configurabilità del sodalizio di cui al capo 1).
Non può al riguardo essere accolta la censura di difetto di specificità sollevata da numerose difese, per mancata indicazione dei capi cui essa si riferisce, poiché il ricorso contiene in più punti la manifestazione inequivoca della volontà di censurare l’esclusione della predetta circostanza aggravante per tutti i reati in ordine ai quali essa era stata contestata (cfr., per tutti, f. 38 del ricorso, in fine
1.2.5. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma è in via ulteriormente consequenziale fondato anche limitatamente al reato di cui al capo 24), poiché la relativa declaratoria di estinzione per prescrizione è stata decisivamente condizionata dall’esclusione della circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
1.2.6. Deve, in proposito, ricordarsi che, in in materia di reati aggravati ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. in legge n. 203 del 1991, ora art. 416-bis.1 cod. pen., trova applicazione la disciplina della prescrizione disposta dall’art. 160, comma terzo, cod. pen., che, per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., non prevede un termine massimo di prescrizione; ne consegue che in questi casi la prescrizione matura soltanto se, da ciascun atto interruttivo, sia decorso il termine (minimo) di prescrizione fissato dall’art. 157, cod. pen., e, pertanto, in presenza di plurimi atti interruttivi, è potenzialmente suscettibile di ricominciare a decorrere all’infinito (Sez. 2, n. 4822 del 15/11/2022, dep. 2023,
COGNOME, Rv. 284389 – 02; Sez. 2, n. 40855 del 19/04/2017, COGNOME, Rv. 271164 – 01).
1.2.7. Resta assorbito l’ulteriore profilo di doglianza inerente all’esclusione delle recidive contestate a COGNOME NOME e COGNOME NOME (punto che andrà necessariamente rivalutato, in sede di rinvio, all’esito delle valutazioni propedeutiche).
1.3. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma è, nel resto, inammissibile, poiché proposto per motivi non consentiti: invero, con specifico riguardo ai reati di cui ai capi 3), 7), 9), doglianze del ricorrente finiscono col proporre una lettura alternativa del medesimo compendio probatorio valorizzato dalla Corte di appello, fondata su mere ipotesi non corroborate da alcunché, senza documentare travisamenti, anche per omissione, in ipotesi decisivi che possano avere inficiato le non manifestamente illogiche né contraddittorie argomentazioni della Corte di appello, in questo caso certamente “puntuali e adeguate, e che forniscono una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata”.
1.4. In accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma, la sentenza impugnata va, pertanto, annullata limitatamente ai reati di cui ai capi 1), 1-bis), 24), nonché alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. relativamente ai reati per i quali è stata esclusa.
1.4.1. Per effetto di tali statuizioni, risulta precluso l’esame dei motivi d ricorso inerenti al trattamento sanzionatorio proposti dagli imputati cui sono ascritti i reati di cui ai capi 1), 1-bis), 24), nonché reati aggravati dalla finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. per i quali detta circostanza aggravante era stata esclusa dalla Corte di appello.
1.4.2. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma è, nel resto, inammissibile.
2. I ricorsi di NOME COGNOME.
2.1. Il primo motivo del ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME ed il primo motivo del ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME i quali, attenendo entrambi all’affermazione di responsabilità per i reati di tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni dei fratelli NOME COGNOME e NOME COGNOME di cui al capo 5 dell’imputazione e di danneggiamento seguito da incendio in concorso (sempre con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni sempre dei NOME COGNOME di cui al capo 6 dell’imputazione, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno ritenuto il concorso dell’imputata in tali due reati sulla base dei seguenti elementi di prova:
a) nel corso dell’intercettata conversazione che ebbe luogo il 19/02/2015 presso la Casa circondariale di Viterbo tra NOME COGNOME (che si trovava colà ristretto) e la sorella NOME COGNOME (che gli stava facendo visita), era stata quest’ultima che, a fronte della prospettazione, da parte di NOME COGNOME, di effettuare un attentato incendiario intimidatorio alla pasticceria “La Salernitana” che i fratelli COGNOME stavano per aprire in una posizione in cui avrebbe fatto concorrenza alla pasticceria “NOME COGNOME” che era gestita dal padre dell’imputata NOME COGNOME («ma perché non gli buttano la benzina gliela bruciano “a salernitana”»), aveva indicato il nome di “COGNOME“, cioè di NOME COGNOME, come soggetto che sarebbe stato disponibile a eseguire l’attentato («se glielo dico a “COGNOME” lo fa subito»), ribadendo che sarebbero stati i Guiderdone a violare la “competenza territoriale”;
b) il collaboratore di giustizia NOME COGNOME aveva dichiarato che l’ordine di dare fuoco al locale “La Salernitana” era stato da lui scritto su un biglietto che era indirizzato a NOME COGNOME e che era stato portato a costui all’esterno del carcere dalla sorella NOME (che era la compagna di NOME COGNOME);
a seguito di tale ordine, l’attentato incendiario ai danni del locale “La Salernitana” era stato effettivamente compiuto (il 24/04/2015) e, nel corso di un’intercettata conversazione telefonica che ebbe luogo tra Santo COGNOME e NOME COGNOME proprio durante l’esecuzione dello stesso attentato, il COGNOME‘COGNOME disse a NOME COGNOME che «COGNOME s’è scordato una torta», il che veniva inteso dai giudici del merito come una chiara, ancorché criptica, allusione all’attentato incendiario che era stato compiuto dallo stesso “COGNOME“, cioè da NOME COGNOME, alla pasticceria “La Salernitana”.
A proposito di tale motivazione, si deve anzitutto affermare che, con la stessa, i giudici del merito hanno chiaramente individuato il contributo partecipativo positivo, sia morale (nella programmazione dei reati) sia materiale (nel farsi latrice dell’ordine del fratello NOME di eseguire l’incendio del locale dei fratell COGNOME) che è stato svolto dall’imputata, il che rende prive di effettiva valenza le censure della ricorrente in ordine alla qualificazione dello stesso suo ruolo.
La suddetta sintetizzata motivazione è, inoltre, del tutto priva di contraddizioni (sia intrinseche sia rispetto alle risultanze processuali) e di manifeste illogicità, come pure della lamentata (nel ricorso a firma dell’avv. COGNOME) erronea applicazione degli artt. 110, 424 e 629 cod. pen., atteso che, diversamente da quanto è sostenuto dalla ricorrente, non è né contraddittorio né manifestamente illogico ritenere, come hanno fatto i giudici del merito, che
costituisca un contributo partecipativo positivo ai contestati reati di tentata estorsione e di danneggiamento seguito da incendio:
indicare il norme del soggetto (NOME COGNOME) che sarebbe stato disponibile a eseguire – e che avrebbe poi effettivamente eseguito – l’attentato incendiario intimidatorio che era stato prospettato dal fratello NOME COGNOME;
portare all’esterno del carcere al destinatario (NOME COGNOME) l’ordine del fratello NOME COGNOME di eseguire l’attentato.
Quanto alla doglianza secondo cui, poiché il biglietto che conteneva tale ordine era chiuso, l’imputata ne avrebbe ignorato il contenuto, si deve osservare che non è contraddittorio né illogico reputare che, come hanno implicitamente ma chiaramente fatto i giudici del merito, NOME COGNOME fosse invece consapevole di tale contenuto, tenuto conto sia del fatto che era stata lei a indicare al fratello NOME COGNOME l’esecutore materiale dell’attentato incendiario intimidatorio sia del fatto che, alla luce dell’intercettata conversazione telefonica che aveva intrattenuto con il compagno NOME COGNOME contestualmente allo stesso attentato, si doveva ritenere emergere una sua chiara adesione alla condotta delittuosa.
Nonostante quest’ultimo elemento del contenuto della conversazione telefonica intrattenuta con NOME COGNOME contestualmente all’attentato incendiario sia stato valorizzato da entrambi i giudici del merito (pag. 88 della sentenza di primo grado; pag. 43 della sentenza impugnata) – in quanto, evidentemente, ulteriormente dimostrativo dell’adesione di NOME COGNOME alla condotta delittuosa -, la ricorrente, in entrambi i ricorsi da lei proposti, h completamente omesso di confrontarsi con esso, con la conseguenza che i motivi si rivelano, oltre che, come si è detto, manifestamente infondati, anche, almeno in parte, aspecifici.
2.2. In ordine logico, devono ora essere esaminati il terzo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME e il secondo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME i quali motivi, prospettando entrambi la medesima doglianza di mancanza della motivazione con riguardo alla richiesta circostanza attenuante di cui all’art. 114, terzo comma, cod. pen., in relazione all’art. 112, primo comma, n. 3), cod. pen., possono essere esaminati congiuntamente.
2.2.1. La doglianza di mancanza della motivazione con riguardo alla richiesta circostanza attenuante di cui all’art. 114, terzo comma, cod. pen., in relazione all’art. 112, primo comma, n. 3), cod. pen., è fondata.
Con lo specifico ottavo motivo dell’atto di appello a firma dell’avv. COGNOME (pagg. 97-105), NOME COGNOME aveva chiesto l’applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 114, terzo comma, cod. pen., in relazione all’art. 112, primo comma, n. 3), cod. pen., «per essere stata determinata a commettere i
delitti in quanto persona soggetta, per tradizione, cultura ed educazione ricevuta, all’autorità del fratello maggiore COGNOME.
Tale motivo di appello non è stato esaminato dalla Corte d’appello di Roma. Ciò dà luogo a un vizio della motivazione che è rilevante a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., atteso che, nemmeno sulla base della motivazione complessivamente considerata della sentenza impugnata, è possibile ritenere che la prospettazione difensiva sia stata implicitamente rigettata.
2.3. Con il secondo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME è stata, peraltro, prospettata anche l’ulteriore doglianza di mancanza della motivazione con riguardo alla richiesta circostanza attenuante cosiddetta della minima partecipazione di cui al primo comma dell’art. 114 cod. pen.
Tale doglianza è manifestamente infondata.
2.3.1. Si deve in proposito rammentare che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, in tema di ricorso per cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato, atteso che l’eventuale accoglimento di tale doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Sez. 5, n. 27202 del 11/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 256314-01; ne medesimo senso, successivamente, Sez. 3, n. 46588 del 03/10/2019, COGNOME, Rv. 277281-01; Sez. 2, n. 35949 del 20/06/2019, COGNOME, Rv. 276745-01; Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, COGNOME, Rv. 263980-01).
2.3.2. Ciò rammentato, la doglianza, che era stata sollevata con lo specifico dodicesimo motivo dell’atto di appello a firma dell’avv. COGNOME (pagg. 31-32) e che non è stata effettivamente esaminata dalla Corte d’appello di Roma, è manifestamente infondata.
Ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione, non è sufficiente una minore efficacia causale dell’attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che il contributo dato si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter criminoso. Ne deriva che, ai fini dell’applicabilità dell’attenuante in questione, non è sufficiente procedere a una mera comparazione tra le condotte dei vari soggetti concorrenti, ma occorre accertare – attraverso una valutazione della tipologia del fatto criminoso perpetrato in concreto con tutte le sue componenti soggettive, oggettive e ambientali – il grado di efficienza causale, sia materiale, sia psicologica, dei singoli comportamenti, rispetto alla produzione dell’evento, configurandosi la minima partecipazione, di cui all’art. 114 cod. pen., solo quando la condotta del correo abbia inciso sul risultato finale dell’impresa criminosa in maniera del tutto
marginale, cioè tale da poter essere avulsa, senza apprezzabili conseguenze pratiche, dalla serie causale produttiva dell’evento (Sez. 5, n. 21082 del 13/04/2004, Terreno, Rv. 229201-01. Successivamente, tra le moltissime: Sez. 6, n. 34539 del 23/06/2021, I., Rv. 281857-01; Sez. 2, n. 835 del 18/12/2012, Modafferi, Rv. 254051-01).
2.3.3. Richiamati tali principi, affermati dalla Corte di cassazione, da quanto si è esposto in punto di responsabilità al punto 2.1, esaminando il primo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME ed il primo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME risulta palese la manifesta infondatezza della doglianza.
Risulta, infatti, di tutta evidenza come il ruolo che è stato svolto dall’imputata nell’economia del concreto iter criminoso sia stato tutt’altro che trascurabile ma, al contrario, assolutamente necessario, essendo stati, manifestamente, tali sia l’individuazione della specifica persona che avrebbe eseguito l’attentato incendiario intimidatorio (COGNOME), sia portare fuori dal carcere al destinatario (NOME COGNOME) l’ordine del fratello NOME COGNOME di eseguire lo stesso attentato, atteso che tali condotte dell’imputata non potrebbero essere chiaramente avulse dalla serie causale produttiva degli eventi senza apprezzabili conseguenze pratiche sulla stessa, concreta, serie causale.
2.4. Il secondo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME (con il quale è stato lamentato il vizio della motivazione con riguardo alla determinazione della misura della pena base per il più grave reato di tentata estorsione di cui al capo 5 dell’imputazione), il quarto motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME (con il quale è stato lamentato il vizio della motivazione con riguardo al diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche) e il terzo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME (con il quale sono stati lamentati il vizio di violazione di legge il vizio della motivazione con riguardo al diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche nonché con riguardo alla determinazione della misura sia della pena base per il più grave reato di tentata estorsione di cui al capo 5 dell’imputazione sia dell’aumento per la continuazione con il meno grave reato di cui al capo 6 dell’imputazione) sono preclusi in conseguenza dell’annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, con riferimento alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. relativamente ai reati per i quali è stata esclusa.
3. I ricorsi di NOME COGNOME.
3.1. Il primo motivo del ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME e il secondo motivo del ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME i quali, attenendo entrambi all’affermazione di responsabilità per il reato di intermediazione nella cessione di
un quantitativo di sostanza stupefacente del tipo cocaina da parte di NOME COGNOME a NOME COGNOME di cui al capo 23 dell’imputazione, possono essere esaminati congiuntamente – non sono fondati.
Tra le condotte illecite che sono punite dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 vi è anche quella di “intermediazione”, la quale è ricompresa nella condotta del “procurare ad altri” che è puntualmente descritta nella norma incriminatrice, con la quale si intende punire l’attività illecita di chi agisce al fine di provoc l’acquisto, la vendita o la cessione di droga da parte di terzi; attività, peraltro cui responsabile, anche senza espressa previsione, sarebbe comunque punibile a titolo di concorso nell’acquisto, nella vendita o nella cessione (Sez. F., n. 33606 del 21/08/2012, COGNOME, Rv. 253423-01; Sez. 6, n. 37177 del 08/07/2008, Mosca, Rv. 241205-01; Sez. 4, n. 4458 del 02/12/2005, COGNOME, Rv. 23324001).
In tali ipotesi, il reato si perfeziona già nel momento in cui l’agente manifesta la disponibilità a procurare ad altri la sostanza stupefacente, sempre che, però, ne abbia la disponibilità, pur mediata (Sez. 6, n. 46367 del 11/10/2023, S., Rv. 285882-01). Principio, quest’ultimo, che si trae anche dalla sentenza Sebbar delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, cit.), la quale è stata invocata in entrambi i ricorsi del Fragalà.
3.1.1. Nel caso in esame, dalle dichiarazioni che erano state rese dal testimone della polizia giudiziaria NOME COGNOME e dai collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME, nonché dal contenuto di diverse conversazioni intercettate, era emerso che NOME COGNOME aveva fatto da intermediario tra i cedenti della sostanza stupefacente del tipo cocaina NOME COGNOME ed NOME COGNOME e l’acquirente della stessa sostanza NOME COGNOME, membro del clan mafioso catanese dei “Cappello”, anche conducendo e portando a conclusione le trattative con lo stesso COGNOME, il quale, a titolo di acconto sul prezzo concordato di C 150.000,00 (C 30.000,00 per ciascuno dei cinque pacchi di cocaina compravenduti), il 27/10/2015 gli aveva corrisposto la somma di C 130.000,00.
Dagli stessi elementi di prova, era altresì emerso che, intervenuto l’arresto del Sardo (in esecuzione di una misura cautelare emessa nell’ambito di un diverso procedimento penale) poco dopo che egli aveva consegnato gli C 130.000,00 a NOME COGNOME, questi non aveva più provveduto né alla consegna della sostanza stupefacente né, nonostante le richieste del Sardo, alla restituzione della suddetta somma di denaro (tanto da indurre i membri del clan “COGNOME” a rapire il padre di NOME COGNOME NOME COGNOME).
Ciò posto, con i motivi in esame si deduce che l’imputato non avrebbe mai avuto la disponibilità, neppure mediata (in particolare, tramite l’Islami) della sostanza stupefacente di cui aveva concluso la cessione al Sardo, che lo stesso
NOME COGNOME avrebbe voluto, in realtà, sin dall’inizio, truffare, con l conseguente insussistenza del reato.
Il Collegio ritiene che la Corte d’appello di Roma abbia adeguatamente motivato l’esclusione di tale ipotesi e, invece, «la serietà dei propositi» di NOME COGNOME e di NOME COGNOME, con ciò evidentemente intendendo, atteso il contenuto della doglianza che intendeva confutare, anche l’effettiva disponibilità, da parte degli stessi NOME COGNOME e NOME COGNOME, della sostanza stupefacente che avevano ceduto a NOME COGNOME.
La Corte d’appello di Roma ha anzitutto escluso la significatività dell’utilizzo, da parte del collaboratore di giustizia NOME COGNOME, dei termini «truffa» e «truffare», sulla base dei del tutto logici argomenti che, oltre al fatto che era dubbio che il COGNOME sapesse distinguere tecnicamente il concetto di truffa (preordinata) da quello di inadempimento, egli non aveva comunque indicato, se non in termini meramente ipotetici, per quale ragione ritenesse che NOME COGNOME avesse architettato sin dall’inizio un disegno truffaldino nei suoi confronti.
Ciò posto, la Corte d’appello di Roma, ha ritenuto la «serietà dei propositi» di NOME COGNOME e di NOME COGNOME nel senso anzidetto anche dell’effettiva disponibilità, da parte degli stessi, della sostanza stupefacente che avevano ceduto a NOME COGNOME, sulla base dei seguenti elementi di prova e argomentazioni: a) NOME COGNOME era un soggetto attivo nel traffico illecito di sostanze stupefacenti, come era confermato sia dal fatto che NOME COGNOME aveva dichiarato di avere già comprato da lui due o tre «pacchi» proprio di cocaina, sia dal fatto che, nel corso dell’intercettata conversazione tra presenti del 17/03/2016 tra NOME COGNOME (zio di NOME COGNOME) e NOME COGNOME, questi aveva esplicitamente parlato dei traffici di droga che aveva compiuto in collaborazione con appartenenti alla famiglia COGNOME – in particolare, contrapponendo l’inaffidabilità di NOME COGNOME alla serietà di NOME COGNOME, con il quale s dichiarava disposto a lavorare ancora -, dal che si comprendeva come l’COGNOME procurasse la sostanza stupefacente che i COGNOME poi rivendevano, nonché dei numerosi trasporti di stupefacente che aveva effettuato a Catania; b) da ciò si doveva logicamente dedurre come NOME COGNOME avesse effettivamente rapporti con NOME COGNOME e che, tenuto conto di ciò, non avesse difficoltà a concludere un accordo per l’effettiva fornitura di cocaina al Sardo da parte dello stesso COGNOME; c) ciò trovava conferma anche nel fatto che, nel viaggio che aveva effettuato a Catania nell’ottobre del 2015 per concludere l’accordo di compravendita della cocaina con il Sardo, NOME COGNOME si era fatto accompagnare da NOME COGNOME, sodale dell’Islami, il che non poteva spiegarsi logicamente che con la necessità di definire con maggiore precisione i dettagli della fornitura che avrebbe dovuto essere effettuata dall’Islami; d) se, come era stato
sostenuto da NOME COGNOME egli avesse avuto sin dall’inizio l’intenzione di truffare NOME COGNOME, non avrebbe logicamente avuto alcun bisogno di coinvolgere il Memaj e, per suo tramite, l’Islami – al quale avrebbe poi peraltro dovuto ovviamente assicurare un ritorno, del che, però, non vi era traccia negli atti del procedimento -, atteso che egli aveva già fornito della cocaina al COGNOME, era già stato coinvolto in altri traffici di sostanza stupefacente con esponenti della criminalità catanese e poteva anche vantare, con riguardo alla propria “serietà”, la “garanzia” di NOME COGNOME (come era stato riferito dal COGNOME); e) dal contenuto dell’intercettata conversazione progressivo 65716 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME nel corso della quale, a fronte della lamentela di questi per il protrarsi dell trattativa, NOME COGNOME la aveva rassicurato in ordine al buon andamento di essa, ricevendo il benestare dell’Islami a proseguirla, si doveva logicamente trarre la conferma della «serietà dei propositi dei due».
Il Collegio ritiene che tale motivazione della Corte d’appello di Roma a sostegno della «serietà dei propositi» di NOME COGNOME e di NOME COGNOME – nel senso anche dell’effettiva disponibilità, da parte degli stessi, della sostanza stupefacente che avevano ceduto a NOME COGNOME -, e del fatto che, pertanto, NOME COGNOME, di fronte all’imprevedibile fatto dell’arresto del COGNOME pressocché in concomitanza con la consegna di parte del prezzo pattuito, si fosse solo allora convinto a sfruttare l’opportunità che si era venuta così a creare per trattenere il menzionato prezzo senza più provvedere a fare consegnare la cocaina, in quanto fondata su precise risultanze processuali e su congrue argomentazioni, coerenti con le stesse risultanze, sia priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae a censure in questa sede.
Quelle che sono state avanzate dal ricorrente, peraltro, omettono del tutto di confrontarsi con l’argomento, che è stato anch’esso valorizzato dalla Corte d’appello di Roma, che NOME COGNOME aveva affermato di avere già comprato da NOME COGNOME due o tre «pacchi» proprio di cocaina (e non di marijuana), il che conferma come l’imputato avesse già precedentemente ceduto della cocaina proprio al Sardo e fosse pertanto senz’altro nella condizione di procurarsi agevolmente tale sostanza stupefacente.
3.2. In ordine logico, deve ora essere esaminato il primo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME il quale attiene all’affermazione di responsabilità per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico illegali di una pistola calibro 7,65 di cui al capo 11 dell’imputazione.
Tale motivo è manifestamente infondato.
3.2.1. La Corte d’appello di Roma ha fatto corretta applicazione del principio, affermato dalla Corte di cassazione, secondo cui le dichiarazioni, captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, con le quali un soggetto si
autoaccusa della commissione di reati hanno integrale valenza probatoria, non trovando applicazione al riguardo gli artt. 62 e 63 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 37794 del 12/06/2019, Venia, Rv. 277707-01; Sez. 6, n. 16165 del 19/02/2013, COGNOME, Rv. 256008-01).
Ciò posto, la Corte d’appello di Roma ha del tutto logicamente ritenuto che l’affermazione fatta da NOME COGNOME nel corso dell’intercettata conversazione con lo zio NOME COGNOME secondo cui «ieri ci ho sparato, ci sono andato a sparare» e la risposta, data dallo stesso NOME COGNOME alla domanda dello zio «sette e sessantacinque?», «sette e sessantacinque , mi sono messo in mezzo alla strada, ho provato sia la sette che la », comprovassero, senza margini di dubbio, non potendo essere interpretate in alcun altro modo, che NOME COGNOME deteneva illegalmente una pistola calibro 7,65 (noto calibro della armi da fuoco) e l’aveva illegalmente portata in un luogo pubblico («in mezzo alla strada»).
La Corte d’appello di Roma ha anche congruamente risposto alla tesi del ricorrente secondo cui la sua affermazione e la sua risposta sopra citate sarebbero state l’espressione di una mera millanteria di azioni mai effettivamente compiute, argomentando, in modo del tutto logico, come tale tesi, oltre a essere sfornita di qualunque elemento di riscontro, fosse smentita sia dalla reazione tutt’altro che stupita di NOME COGNOME all’affermazione del nipote, sia dal fatto che la mera richiesta di conferma, da parte dello stesso NOME COGNOME, che il nipote stesse parlando della «sette e sessantacinque» dimostrava come NOME COGNOME fosse a conoscenza del fatto NOME COGNOME possedeva una pistola di tale calibro.
Con quest’ultima motivazione, il ricorrente ha anche del tutto omesso di confrontarsi compiutamente.
3.3. Il secondo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME e il terzo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOMEcon i quali è stata lamentata la violazione del divieto di reformatio in peius in punto di applicazione dell’aumento di pena per la recidiva specifica) e il quarto motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOMEcon il quale sono stati lamentati la violazione di legge e il vizio della motivazione con riguardo al diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche e «alla eccessività del trattamento sanzionato, nonché in ordine alla lamentata eccessività degli aumenti disposti a titolo di continuazione») sono preclusi in conseguenza dell’annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, con riferimento alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. relativamente ai reati per i quali è stata esclusa.
4. Il ricorso di NOME COGNOME.
4.1. Il primo motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per i reati di tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni dei fratelli NOME COGNOME e NOME COGNOME di cui al capo 5 dell’imputazione e di danneggiamento seguito da incendio in concorso (sempre con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni sempre dei fratelli COGNOME di cui al capo 6 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
4.1.1. Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno ritenuto il concorso del COGNOME in tali due reati sulla base dei seguenti elementi di prova:
nel corso dell’intercettata conversazione che ebbe luogo il 19/02/2015 presso la Casa circondariale di Viterbo tra NOME COGNOME (che si trovava colà ristretto) e la sorella NOME COGNOME (che gli stava facendo visita), quest’ultima, a fronte della prospettazione, da parte di NOME COGNOME, di effettuare un attentato incendiario intimidatorio alla pasticceria “La Salernitana” che i fratell COGNOME stavano per aprire in una posizione in cui avrebbe fatto concorrenza alla pasticceria “NOME COGNOME” che era gestita dal padre dell’imputata NOME COGNOME («ma perché non gli buttano la benzina gliela bruciano “a salernitana”»), aveva indicato “COGNOME“, cioè NOME COGNOME, come soggetto che sarebbe stato senz’altro disponibile a eseguire l’attentato («se glielo dico a “COGNOME” lo fa subito»);
il collaboratore di giustizia NOME COGNOME aveva dichiarato che l’ordine di dare fuoco al locale “La Salernitana” era stato da lui scritto su un biglietto che era indirizzato a NOME COGNOME e che era stato portato a costui all’esterno del carcere dalla sorella NOME
a seguito di tale ordine, l’attentato incendiario ai danni del locale “La Salernitana” era stato effettivamente compiuto (il 24/04/2015) e: c.1) nel corso di un’intercettata conversazione telefonica che ebbe luogo tra COGNOME e Santo COGNOME la sera di tale attentato incendiario, il COGNOME aveva confermato al COGNOME che stava per scendere; c.2) nel corso di un’intercettata successiva conversazione telefonica che ebbe luogo tra Santo COGNOME e NOME COGNOME proprio durante l’esecuzione del medesimo attentato incendiario, si era sentita la voce del COGNOME – il che confermava che l’incontro tra lo stesso e il COGNOME era avvenuto -, e NOME COGNOME aveva detto a NOME COGNOME che «COGNOME s’è scordato una torta», il che veniva inteso dai giudici del merito come una chiara, ancorché criptica, allusione all’attentato incendiario che era stato materialmente compiuto dallo stesso “COGNOME“, cioè da NOME COGNOME, ai danni della pasticceria “La Salernitana”.
Tale sintetizzata motivazione è del tutto priva di contraddizioni (sia intrinseche sia rispetto alle risultanze processuali) e di manifeste illogicità, atteso ch diversamente da quanto appare ritenere il ricorrente, non è né contraddittorio né
manifestamente illogico ritenere, come hanno fatto i giudici del merito, che il soggetto (NOME COGNOME alias “Muscoletto”) che era stato indicato da NOME COGNOME al fratello NOME COGNOME come disponibile a eseguire l’attentato incendiario intimidatorio che lo stesso NOME COGNOME aveva successivamente ordinato e al quale, nel corso del medesimo attentato, NOME COGNOME che di quell’ordine era stato il destinatario diretto, parlando con NOME COGNOME, aveva fatto riferimento come a chi si era «scordato una torta» («COGNOME s’è scordato una torta»), fosse l’effettivo esecutore materiale dell’attentato alla pasticceria “La Salernitana”, dovendosi ritenere la frase «COGNOME s’è scordato una torta» come una chiara, ancorché criptica, allusione all’esecuzione del medesimo attentato.
Orbene, posto che, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice del merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337-01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, COGNOME, Rv. 268389-01; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784-01), l’interpretazione della citata frase intercettata «COGNOME s’è scordato una torta» come allusione alla materiale esecuzione, da parte del COGNOME alias “COGNOME“, dell’attentato alla pasticceria “La Salernitana” appare del tutto ragionevole e logica, con la conseguente logicità della motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma ha confermato l’affermazione di responsabilità del ricorrente per i reati di tentata estorsione in concorso di cui al capo 5 dell’imputazione e di danneggiamento in concorso di cui al capo 6 dell’imputazione.
A fronte di ciò, lo stesso ricorrente non ha peraltro neppure indicato quali sarebbero state le doglianze che egli avrebbe specificamente dedotto nei confronti di tali elementi di prova a suo carico e alle quali la Corte d’appello di Roma non avrebbe fornito risposta.
4.2. Il secondo motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione per la vendita a terzi in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente del tipo marijuana e hashish di cui al capo 17 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
Ribadito che, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice del merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità
irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite, tali circostanze risultano completamente assenti nel caso di specie.
La Corte d’appello di Roma ha infatti del tutto logicamente e ragionevolmente ritenuto che:
a) quanto all’intercettata conversazione tra presenti delle ore 13:07 del 13/07/2015 tra NOME COGNOME e il Sulejmani: a.1) dall’affermazione di questi «io l’ho odorata zio, dall’odore a me mi sembra buona», si ricavava logicamente, dato l’uso del femminile e la contrapposizione con l’hashish di cui si subito si dirà, che il Sulejmani aveva portato ad NOME COGNOME un campione di marijuana; a.2) dalla domanda «e l’hashish?» rivolta da NOME COGNOME al Sulejmani e dalla richiesta del primo al secondo di farsi consegnare una tavoletta di hashish, risultava un esplicito riferimento anche a tale altra sostanza; a.3) dalla preoccupazione manifestata da NOME COGNOME di avere qualcosa da mostrare e dal generale tenore della conversazione, risultava che l’intenzione di NOME COGNOME e di NOME COGNOME era quella di cedere le menzionate sostanze a un terzo soggetto indeterminato con il quale il COGNOME aveva appuntamento nel pomeriggio di quello stesso giorno (13/07/2015), appuntamento che era finalizzato a mostrare al soggetto acquirente i campioni delle sostanze stupefacenti oggetto di compravendita, più che a consegnare tutta la marijuana e tutto l’hashish compravenduti, dei quali, comunque, il COGNOME e il COGNOME mostravano di avere la disponibilità, ancorché le sostanze fossero custodite da un altro soggetto;
b) quanto all’intercettata conversazione tra presenti delle successive ore 19:29 sempre del 13/07/2015 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME: b.1) da essa risultava che, dopo che i due interlocutori avevano fatto esplicito riferimento alla conversazione che NOME COGNOME aveva avuto poche ore prima con il Sulejmani, il COGNOME informava il COGNOME che il menzionato incontro che si sarebbe dovuto svolgere nel pomeriggio con l’ignoto acquirente delle sostanze stupefacenti era stato spostato al giorno successivo (per la ragione che il Sulejmani si era allarmato per avere visto delle persone che potevano appartenere alle forze dell’ordine); b.2) a tale incontro avrebbe preso parte anche il COGNOME, perché aveva «stu viziu» che ci vuole «essiri in prima persona»; b.3) dalla stessa conversazione risultava altresì che, mentre NOME COGNOME si era mostrato convinto che l’incontro del giorno successivo avrebbe avuto a oggetto solo la conclusione della trattativa, il COGNOME gli aveva spiegato di essere pronto per la consegna della sostanza stupefacente, specificamente, dell’hashish (domanda di NOME COGNOME: «di che cosa stiamo parlando scusa?», risposta del COGNOME‘COGNOME: «del fumo»), confermando di averne la piena disponibilità («oh, c’era») e di dovere solo andarlo a prendere.
Orbene, alla luce del contenuto di tali conversazioni, il Collegio ritiene assolutamente condivisibile l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui «l tenore dei dialoghi è chiarissimo e non lascia spazio ad interpretazioni alternative» rispetto a quella, già esplicitata dal Tribunale di Velletri, che COGNOME aveva detenuto per la vendita e offerto in vendita a un terzo soggetto indeterminato sostanze stupefacenti del tipo marijuana e hashish, pur avendo la stessa Corte d’appello ritenuto di non potere, sulla base del contenuto delle stesse conversazioni, diversamente da quanto aveva reputato il Tribunale di Velletri, individuare il quantitativo delle stesse sostanze che era stato detenuto e offerto in vendita dall’imputato.
A fronte di ciò, le doglianze che sono state prospettate dal ricorrente con il motivo in esame appaiono fondamentalmente generiche, in quanto non si confrontano compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata, e, comunque, palesemente del tutto inidonee a scalfirne le conclusioni.
4.3. Il terzo motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione a fini di spaccio di 20 grammi di sostanza stupefacente del tipo cocaina di cui al capo 19 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
4.3.1. La Corte d’appello di Roma ha del tutto logicamente e ragionevolmente ritenuto che, dall’intercettata conversazione tra presenti del 09/08/2015 tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME – in particolare: dalla domanda che NOME COGNOME aveva rivolto al COGNOME se «quella» che aveva consegnato a “COGNOME“, cioè a NOME COGNOME, fosse stata già tagliata e dalla risposta affermativa del Coppola; dalle affermazioni del medesimo COGNOME di averne acquistato un quantitativo di «dieci» per il prezzo di C 500,00 e di averne ceduto al COGNOME un quantitativo di «dieci e dieci», dalla cui cessione lo stesso COGNOME avrebbe potuto, tagliando ancora la sostanza, ottenere un ricavo di C 2.000,00, spacciando dosi da 0,5 grammi ciascuna al prezzo di C 50,00 l’una -, si doveva ricavare come il COGNOME avesse acquistato dal Coppola, per poi spacciarli, 20 grammi di cocaina.
La Corte d’appello di Roma ha, infatti, ancora una volta del tutto logicamente e ragionevolmente ritenuto che:
a) l’oggetto della conversazione tra NOME COGNOME e il COGNOME fosse la cocaina, come si poteva desumere dal fatto che, in un contesto in cui i due interlocutori stavano discutendo di sostanze stupefacenti, il riferimento a «quella» come una sostanza che può essere tagliata non poteva che indicare logicamente, appunto, la cocaina, il che era confermato anche dal fatto che la somma di C 500,00 che il COGNOME aveva indicato come quella da lui spesa per acquistare 10 grammi di sostanza stupefacente era congrua rispetto ai prezzi di mercato della cocaina;
b) anche se il COGNOME non aveva partecipato alla conversazione sopra indicata, non vi era alcuna ragione per ritenere che il COGNOME non stesse raccontando delle cose vere ad NOME COGNOME tenuto anche conto del fatto che, come era confermato dall’episodio di cui al capo 17 dell’imputazione, la partecipazione del COGNOME, nel medesimo periodo, a condotte di violazione della normativa in materia di disciplina degli stupefacenti era già emersa.
Tale motivazione dell’acquisto, per il successivo spaccio, da parte del Sulejmani, di 20 grammi di cocaina da NOME COGNOME risulta del tutto coerente e logica e, a fronte di ciò, le doglianze che sono state prospettate dal ricorrente con il motivo in esame appaiono fondamentalmente generiche, in quanto non si confrontano compiutamente con la stessa motivazione, e, comunque, palesemente del tutto inidonee a scalfirne le conclusioni.
4.4. Il quarto motivo (con il quale è contestata la determinazione della misura sia della pena base per il più grave reato di tentata estorsione di cui al capo 5 dell’imputazione sia degli aumenti per la continuazione con i meno gravi reati di cui ai capi 6, 17 e 19 dell’imputazione) e il quinto motivo (con il quale si contesta la conferma dell’applicazione della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale) sono preclusi in conseguenza dell’annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, con riferimento alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. relativamente ai rea per i quali è stata esclusa.
4.5. Il sesto motivo, con il quale il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma, nonostante lo avesse assolto dal reato di partecipazione all’associazione di tipo mafioso clan “RAGIONE_SOCIALE“, nel dispositivo della sentenza impugnata, non aveva escluso le circostanze aggravanti di cui agli artt. 416-bis.1 e 628, terzo comma, n. 3), cod. pen., con riferimento ai reati di tentata estorsione in concorso di cui a capo 5 dell’imputazione e di danneggiamento seguito da incendio in concorso di cui al capo 6 dell’imputazione, è assorbito dall’annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, con riferimento al reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1 dell’imputazione e alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
5. Il ricorso di NOME COGNOME.
5.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Roma, nonostante lo avesse assolto dal reato di partecipazione all’associazione di tipo mafioso clan “RAGIONE_SOCIALE“, nel dispositivo della sentenza impugnata, non aveva escluso le circostanze aggravanti di cui agli artt. 416-bis.1 e 628, terzo comma,
n. 3), cod. pen., con riferimento ai reati di tentata estorsione in concorso di cui a capo 5 dell’imputazione, di danneggiamento seguito da incendio in concorso di cui al capo 6 dell’imputazione, di detenzione per la vendita a terzi in concorso di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente del tipo marijuana e hashish di cui al capo 17 dell’imputazione e di detenzione illecita di sostanza stupefacente in concorso di cui al capo 22 dell’imputazione.
5.1.1. A tale proposito, si deve anzitutto rilevare che, con ordinanza del 21/03/2024, la Corte d’appello di Roma ha disposto la correzione del dispositivo della sentenza impugnata nel senso che, nella parte di esso che riguarda l’imputato NOME COGNOME, dopo le parole «ai capi d’imputazione 5, 6», siano aggiunte le parole «escluse le circostanze aggravanti di cui agli articoli 416-bis, comma 1, e 628, n. 3, c.p.».
Ciò rilevato, si deve comunque osservare che, anche per il resto, il motivo è assorbito dall’annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, con riferimento al reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1 dell’imputazione e alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
5.2. Il secondo motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per i reati di tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni dei fratelli NOME COGNOME e NOME COGNOME di cui al capo 5 dell’imputazione e di danneggiamento seguito da incendio in concorso (sempre con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) ai danni sempre dei fratelli COGNOME di cui al capo 6 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno ritenuto il concorso del COGNOME in tali due reati sulla base dei seguenti elementi di prova:
a) nel corso dell’intercettata conversazione che ebbe luogo il 19/02/2015 presso la Casa circondariale di Viterbo tra NOME COGNOME (che si trovava colà ristretto) e la sorella NOME COGNOME (che gli stava facendo visita), quest’ultima, a fronte della prospettazione, da parte di NOME COGNOME, di effettuare un attentato incendiario intimidatorio alla pasticceria “La Salernitana” che i fratell COGNOME stavano per aprire in una posizione in cui avrebbe fatto concorrenza alla pasticceria “NOME Caprice” che era gestita dal padre dell’imputata NOME COGNOME («ma perché non gli buttano la benzina gliela bruciano “a salernitana”»), aveva indicato “COGNOME“, cioè NOME COGNOME, come soggetto che sarebbe stato senz’altro disponibile a eseguire l’attentato («se glielo dico a “COGNOME” lo fa subito»);
b) il collaboratore di giustizia NOME COGNOME aveva dichiarato che l’ordine di dare fuoco al locale “La Salernitana” era stato da lui scritto su un biglietto che era
indirizzato proprio a Santo DCOGNOME («il bigliettino l’ho mandato a Santo D’Agata»; pag. 90 della sentenza di primo grado) e che era stato portato a costui all’esterno del carcere dalla sorella NOME;
c) a seguito di tale ordine, l’attentato incendiario ai danni del locale “La Salernitana” era stato effettivamente compiuto (il 24/04/2015), e: c.1) nel corso di un’intercettata conversazione telefonica che ebbe luogo tra NOME COGNOME e Santo COGNOME la sera di tale attentato incendiario, il COGNOME aveva confermato al COGNOME che stava per scendere; c.2) nel corso di un’intercettata successiva conversazione telefonica che ebbe luogo tra NOME COGNOME e NOME COGNOME proprio durante l’esecuzione del medesimo attentato incendiario, si era sentita la voce del COGNOME – il che confermava che l’incontro tra lo stesso e il COGNOME era avvenuto -, e NOME COGNOME aveva detto a NOME COGNOME che «COGNOME s’è scordato una torta», il che veniva inteso dai giudici del merito come una chiara, ancorché criptica, allusione all’attentato incendiario che era stato materialmente compiuto dallo stesso “COGNOME“, cioè da NOME COGNOME, ai danni della pasticceria “La Salernitana”.
Tale sintetizzata motivazione è del tutto priva di contraddizioni (sia intrinseche sia rispetto alle risultanze processuali) e di manifeste illogicità, atteso ch diversamente da quanto appare ritenere il ricorrente, non è né contraddittorio né manifestamente illogico ritenere, come hanno fatto i giudici del merito, che il soggetto, NOME COGNOME, al quale NOME COGNOME aveva ordinato di appiccare il fuoco alla pasticceria “La Salernitana” dei fratelli COGNOME («ho detto di dare fuoco a questo locale», «il bigliettino l’ho mandato a Santo DCOGNOME»; pag. 90 della sentenza di primo grado), incaricando della consegna di tale biglietto la sorella NOME COGNOME (che era la compagna del COGNOME), e che, parlando con la stessa NOME COGNOME nel corso dell’avvenuto attentato incendiario, aveva fatto riferimento a NOME COGNOME, alias “COGNOME“, come a chi si era «scordato una torta» («COGNOME s’è scordato una torta»), avesse effettivamente ricevuto il menzionato ordine di NOME COGNOME e avesse effettivamente organizzato l’attentato incendiario che gli era stato ordinato di effettuare, il quale era sta materialmente eseguito da NOME COGNOME dovendosi ritenere la frase «Muscoletto s’è scordato una torta», pronunciata dal COGNOME, come una chiara, ancorché criptica, allusione all’esecuzione del medesimo attentato.
Ribadito ancora una volta che, in materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice del merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite, l’interpretazione della citata frase intercettata «COGNOME s’è scordato
una torta» come allusione alla materiale esecuzione, da parte del COGNOME alias “COGNOME“, dell’attentato alla pasticceria “La Salernitana” che il COGNOME aveva organizzato appare del tutto ragionevole e logica, con la conseguente logicità della motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma ha confermato l’affermazione di responsabilità del ricorrente per i reati di tentata estorsione in concorso di cu al capo 5 dell’imputazione e di danneggiamento in concorso di cui al capo 6 dell’imputazione.
A fronte di ciò, lo stesso ricorrente ha solo genericamente lamentato che la Corte d’appello di Roma non avrebbe dato riscontro alle sue doglianze secondo cui: a) «non si ha contezza né della ricezione né tanto meno della esecuzione» dell’ordine di NOME COGNOME, benché tale doglianza appaia trascurare l’ovvia considerazione che l’attentato che era stato ordinato da NOME COGNOME era stato effettivamente eseguito in conformità ai suoi ordini («dare fuoco a questo locale»); b) il contenuto delle intercettate conversazioni del COGNOME con NOME COGNOME e con NOME COGNOME sarebbe stato privo di efficacia probante, senza, tuttavia, effettivamente misurarsi con la tutt’altro che illogica interpretazione che, del contenuto di tali conversazioni, era stata data prima dal Tribunale di Velletri e, poi, dalla Corte d’appello di Roma.
5.3. Il terzo motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione per la vendita a terzi in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente del tipo marijuana e hashish di cui al capo 17 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Roma ha del tutto logicamente e ragionevolmente ritenuto che:
quanto all’intercettata conversazione tra presenti delle ore 13:07 del 13/07/2015 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME: a.1) dall’affermazione di questi «io l’ho odorata zio, dall’odore a me mi sembra buona», si ricavava logicamente, dato l’uso del femminile e la contrapposizione con l’hashish di cui si subito si dirà, che il Sulejmani aveva portato ad NOME COGNOME un campione di marijuana; a.2) dalla domanda «e l’hashish?» rivolta da NOME COGNOME al COGNOME e dalla richiesta del primo al secondo di farsi consegnare una tavoletta di hashish, risultava un esplicito riferimento anche a tale altra sostanza; a.3) dalla preoccupazione manifestata da NOME COGNOME di avere qualcosa da mostrare e dal generale tenore della conversazione, risultava che l’intenzione di NOME COGNOME e di NOME COGNOME era quella di cedere le menzionate sostanze a un terzo soggetto indeterminato con il quale il COGNOME aveva appuntamento nel pomeriggio di quello stesso giorno (13/07/2015), appuntamento che era finalizzato a mostrare al soggetto acquirente i campioni delle sostanze stupefacenti
oggetto di compravendita, più che a consegnare tutta la marijuana e tutto l’hashish compravenduti, dei quali, comunque, il COGNOME e il COGNOME mostravano di avere la disponibilità, ancorché le sostanze fossero custodite da un altro soggetto;
b) quanto all’intercettata conversazione tra presenti delle successive ore 19:29 sempre del 13/07/2015 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME: b.1) da essa risultava che, dopo che i due interlocutori avevano fatto esplicito riferimento alla conversazione che NOME COGNOME aveva avuto poche ore prima con il Sulejmani, il COGNOME informava il COGNOME che il menzionato incontro che si sarebbe dovuto svolgere nel pomeriggio con l’ignoto acquirente delle sostanze stupefacenti era stato spostato al giorno successivo (per la ragione che il Sulejmani si era allarmato per avere visto delle persone che potevano appartenere alle forze dell’ordine); b.2) a tale incontro avrebbe preso parte anche il COGNOME, perché aveva «stu viziu» che ci vuole «essiri in prima persona»; b.3) dalla stessa conversazione risultava altresì che, mentre NOME COGNOME si era mostrato convinto che l’incontro del giorno successivo avrebbe avuto a oggetto solo la conclusione della trattativa, il COGNOME gli aveva spiegato di essere pronto per la consegna della sostanza stupefacente, specificamente, dell’hashish (domanda di NOME COGNOME: «di che cosa stiamo parlando scusa?», risposta del COGNOME‘COGNOME: «del fumo»), confermando di averne la piena disponibilità («oh, c’era») e di dovere solo andarlo a prendere.
Orbene, alla luce del contenuto di tali conversazioni, il Collegio ritiene assolutamente condivisibile l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui «l tenore dei dialoghi è chiarissimo e non lascia spazio ad interpretazioni alternative» rispetto a quella, già esplicitata dal Tribunale di Velletri, che il COGNOME aveva detenuto per la vendita e offerto in vendita a un terzo soggetto indeterminato sostanze stupefacenti del tipo marijuana e hashish, pur avendo la stessa Corte d’appello ritenuto di non potere, sulla base del contenuto delle stesse conversazioni, diversamente da quanto aveva reputato il Tribunale di Velletri, individuare il quantitativo delle stesse sostanze che era stato detenuto e offerto in vendita dall’imputato.
A fronte di ciò, le doglianze che sono state prospettate dal ricorrente con il motivo in esame appaiono fondamentalmente generiche, in quanto non si confrontano compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata, e, comunque, palesemente del tutto inidonee a scalfirne le conclusioni.
5.4. Il quarto motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente acquistata da NOME COGNOME di cui al capo 22 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Roma ha fondato l’affermazione di responsabilità dell’imputato per tale reato sul contenuto, in particolare:
a) di un’intercettata conversazione del 17/03/2016 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME nel corso della quale quest’ultimo si era lamentato della poca correttezza del COGNOME, il quale era venuto meno a un appuntamento per una consegna di droga, costringendo l’COGNOME a tenere «la roba» (pag. 183 della sentenza di primo grado) in macchina;
b) di un’intercettata conversazione del 18/03/2016 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME nel corso della quale il COGNOME aveva rimproverato al COGNOME di non averlo messo al corrente di rapporti che aveva intrattenuto con il fornitore della droga NOME COGNOME (dei quali egli aveva appreso solo da quest’ultimo; pag. 183-184 della sentenza di primo grado) e di poca serietà in tali rapporti.
Tale motivazione della detenzione illecita, da parte dell’imputato, di sostanza stupefacente per averla acquistata dal fornitore NOME COGNOME risulta, contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, oltre che non apparente, del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, e non è resa contraddittoria né illogica per via del fatto che, come è stato riconosciuto anche dalla Corte d’appello di Roma, non era stato possibile determinare la qualità, la quantità e il principio attivo della stessa sostanza, atteso che tale impossibilità evidentemente non esclude che, come emergeva dal contenuto delle indicate conversazioni, il COGNOME avesse detenuto illecitamente della sostanza stupefacente e comportava soltanto che, come ha correttamente fatto la Corte d’appello di Roma, la condotta dell’imputato dovesse essere ricondotta nell’ambito della meno grave fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e che la contestata circostanza aggravante dell’ingente quantità di cui all’art. 80, comma 2, dello stesso decreto, dovesse essere esclusa.
Quanto alla doglianza del ricorrente di «travisamento della prova», essa risulta del tutto generica, atteso che il COGNOME ha del tutto omesso di specificare in che cosa sarebbe consistita la non controvertibile difformità tra il senso intrinseco delle conversazioni intercettate e quello che ne aveva tratto la Corte d’appello di Roma.
6. Il ricorso di NOME COGNOME.
6.1. I primi due motivi – i quali, attenendo, rispettivamente, il primo, all’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente di cui al capo 22 dell’imputazione, limitatamente alla detenzione in concorso con il padre NOME COGNOME e il secondo alla violazione di legge e alla mancanza della motivazione con riguardo alla richiesta di riqualificazione dei fatti di cui allo stesso capo 22 come mero tentativo del delitto di cui all’art. 73 de
d.P.R. n. 309 del 1990, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
6.1.1. Il Collegio ritiene che la Corte d’appello di Roma abbia correttamente reputato che le conversazioni intercettate confermassero «senza alcun dubbio» che i due imputati NOME COGNOME e suo figlio NOME COGNOME avevano detenuto illecitamente della sostanza stupefacente del tipo marijuana, destinata alla consegna a terzi.
In particolare, il Collegio reputa effettivamente inequivoco, in tale senso, il contenuto:
a) di una prima conversazione che ebbe luogo il 15/03/2016 in casa di NOME COGNOME tra lo stesso NOME COGNOME e suo figlio (qui ricorrente) NOME COGNOME, nel corso della quale i due parlavano chiaramente di marijuana («erba»), della consegna di tale sostanza stupefacente a tale NOME da parte di NOME COGNOME (domanda di NOME COGNOME: «a chi gliene devi dare cinque? A NOME?», risposta di NOME COGNOME: «a NOME») e dalla quale emergeva incontrovertibilmente che i due disponevano effettivamente della stessa sostanza (NOME COGNOME: «questi sono due pacchi da due, uno va tagliato a metà e poi una volta che ho pagato lui dimmi te perché io più di una volta un pacco, ma gliela facciamo venire a prendere a loro non è che non gli portiamo niente [J);
b) di una seconda conversazione che ebbe luogo sempre il 15/03/2016 e sempre in casa di NOME COGNOME nel corso della quale lo stesso NOME COGNOME e il figlio NOME COGNOME si accordavano per un trasporto di «erba» che NOME COGNOME avrebbe dovuto effettuare, dovendo consegnare anche un campione (NOME COGNOME: «un pezzetto»; NOME COGNOME: «un ciuffo»; NOME COGNOME: «una bella cima»; NOME COGNOME: «una cima, una di quelle che stanno là dentro»; NOME COGNOME: «una delle migliori, almeno facciamo bella figura»).
L’interpretazione di tali conversazioni nel senso che i due imputati NOME COGNOME e suo figlio NOME COGNOME avevano detenuto illecitamente della sostanza stupefacente del tipo marijuana, destinata alla consegna a terzi, appare, all’evidenza, del tutto ragionevole e logica, con la conseguente logicità della motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma ha ritenuto la responsabilità di NOME COGNOME per il reato, consumato e non meramente tentato, di detenzione illecita di sostanza stupefacente di cui al capo 22 dell’imputazione, limitatamente alla detenzione in concorso con il padre NOME COGNOME il che escludeva anche logicamente, ancorché implicitamente, che lo stesso reato si potesse ritenere meramente tentato.
A fronte di ciò, le doglianze del ricorrente appaiono sostanzialmente dirette, da un lato, a ottenere una diversa interpretazione e valutazione del contenuto delle menzionate conversazioni tra presenti – il che, attesa l’evidenziata assenza di qualsiasi illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite, non può essere fatto in sede di legittimità – e, dall’altro lato, a sostener un’inammissibile parcellizzazione delle condotte dell’imputato.
6.2. Il terzo motivo (con il quale è contestata sia la conferma del diniego delle circostanze attenuanti generiche sia la determinazione della misura della pena) è precluso in conseguenza dell’annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, con riferimento alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. relativamente ai reati per i quali stata esclusa.
7. Il ricorso di NOME COGNOME.
7.1. Il primo motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, in parte consumata e in parte tentata, ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 2 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
7.1.1. Il Collegio ritiene che la Corte d’appello di Roma abbia correttamente reputato che le conversazioni e gli SMS intercettati e la stessa deposizione testimoniale della persona offesa NOME COGNOME confermassero il carattere minaccioso delle richieste che l’imputato NOME COGNOME aveva fatto al COGNOME di consegnargli del denaro (che non fu effettivamente corrisposto a causa della crisi finanziaria in cui versavano le due imprese di falegnameria della persona offesa), di eseguire un “lavoro” (la realizzazione di una staccionata, effettivamente realizzata) e di consegnargli un mobile (effettivamente consegnato), in entrambi tali ultimi due casi senza corrispondere alcun prezzo.
7.1.2. Si deve in proposito rammentare, preliminarmente, che, tema di estorsione, ai fini della configurabilità del reato, sono indifferenti la forma o il mod della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo. La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità a integrare l’elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittim vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi un’effettiva intimidazione del soggetto passivo (Sez. 2, n. 2702 del 18/11/2015,
dep. 2016, COGNOME, Rv. 265821 – 01; Sez. 6, n. 3298 del 26/01/1999, COGNOME, Rv. 212945-01).
7.1.3. Rammentati tali principi, affermati dalla Corte di cassazione, il Collegio ritiene che in modo del tutto logico e ragionevole i giudici del merito abbiano reputato che, tenuto conto delle concrete circostanze oggettive – in particolare: della personalità sopraffattrice di NOME COGNOME (i cui gravi precedenti penali erano ben noti al Roncon); delle condizioni ambientali in cui egli operava; dell’ingiustizia delle sue pretese -, il contenuto delle seguenti conversazioni e messaggi SMS si dovesse ritenere integrare una condotta minacciosa diretta a procurarsi l’ingiusto profitto costituito dalla consegna di somme di denaro (come detto, non effettivamente corrisposte) e dall’esecuzione di un “lavoro” (effettivamente eseguito) e dalla consegna di un mobile (effettivamente consegnato) senza alcun corrispettivo:
la conversazione del 27/02/2015 nel corso della quale NOME COGNOME, passando dall’inflessione romana a quella siciliana, intimava al COGNOME di andare a trovarlo “bussando con i piedi” («bussa che piedi quannu arrivi domani»), cioè, considerato il noto significato dell’espressione, portandogli del denaro o altri doni;
la conversazione sempre del 27/02/2015 nel corso della quale il COGNOME ribadiva al COGNOME che dovrà “bussare con i piedi”;
la conversazione del 03/03/2015, nel corso della quale, essendo emerse le richieste del Fragalà al Roncon sia di esecuzione del “lavoro”, che la persona offesa assicura svolgerà gratis, sia di corresponsione di denaro, l’imputato aveva espressamente detto che gli piaceva parlare «una volta sola»;
i messaggi SMS inviati dall’imputato alla persona offesa il 27/03/2015 («caro NOME ora stai proprio esagerando per come mi stai trattando. Attendo una tua chiamata») e il 28/03/2015 («mo’ mi hai rotto il cazzo mo’ te vengo a prende pure dentro casa pulcinella»), messaggio, quest’ultimo, la cui portata minacciosa appare inequivocabile;
la conversazione del 01/04/2015, nel corso della quale il COGNOME rendeva palese di avere ricevuto una richiesta di denaro, assicurava che avrebbe eseguito il “lavoro” che gli era stato richiesto, affermava di essere uscito «barcollando» dalla casa di NOME COGNOME (dove si era recato qualche giorno prima) e diceva espressamente «qua non si tratta di amicizia, qua la cosa è diversa qua è un qualche cosa che va oltre, e non voglio neanche dirla al telefono sta cosa», frase, questa, che esclude espressamente che le richieste di denaro e di esecuzione del “lavoro” senza corrispettivo fossero state avanzate a titolo di amicizia e che allude, piuttosto, chiaramente, alla natura estorsiva delle stesse richieste;
la conversazione del 02/04/2015 tra NOME COGNOME e il fratello NOME COGNOME avvenuta presso il carcere di Viterbo (dove NOME COGNOME era detenuto),
nel corso della quale NOME COGNOME nel descrivere l’incontro che lo zio NOME COGNOME aveva avuto con il «falegname» (cioè con il COGNOME), raccontava al fratello come questi fosse stato autenticamente convocato a casa di NOME COGNOME, che gli aveva chiesto la realizzazione della «staccionata» e che, appena il COGNOME era entrato in casa sua, lo aveva colpito con uno schiaffo;
g) le ulteriori conversazioni dalle quali risultava sia l’esecuzione del “lavoro sia la consegna del mobile.
7.1.4. La Corte d’appello di Roma ha altresì evidenziato, in modo parimenti del tutto logico e ragionevole, come anche la deposizione testimoniale della persona offesa NOME COGNOME pur manifestando una pavida edulcorazione della vicenda, avesse comunque espresso in modo inequivocabile la paura che le minacce estorsive dell’imputato gli avevano provocato («probabilmente se fosse stato il farmacista del paese non gli avrei risposto così, essendo COGNOME NOME, comunque una persona particolare, ho preferito dirgli guarda, mi dispiace, non posso accedere alle casse»). A proposito di tale deposizione, il Tribunale di Velletri aveva anche logicamente evidenziato come il COGNOME non fosse riuscito a spiegare il proprio operato «fuori da ottiche di soggezione e timore» tali da coartarne la volontà.
7.1.5. L’interpretazione delle indicate conversazioni e degli indicati SMS, nonché della deposizione testimoniale della persona offesa NOME COGNOME nel senso che NOME COGNOME aveva minacciato lo stesso COGNOME per costringerlo sia a consegnargli del denaro (non effettivamente corrisposto) sia a eseguire un “lavoro” (effettivamente seguito) e a consegnargli un mobile (effettivamente consegnato) senza corrispondere il relativo prezzo, con la conseguente evidente ingiustizia del profitto procuratosi dall’imputato, appare, all’evidenza, come si è detto, del tutto ragionevole e logica, con la conseguente logicità della motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma ha confermato l’affermazione di responsabilità dell’imputato per il reato di estorsione in parte consumata (quanto al “lavoro” eseguito e al mobile consegnato) e in parte tentata (quanto al denaro) di cui al capo 2 dell’imputazione, ciò che escludeva anche logicamente, ancorché implicitamente, che il fatto di cui a tale capo 2 potesse essere qualificato come mera violenza privata.
A fronte di ciò, le doglianze del ricorrente appaiono sostanzialmente dirette a ottenere una diversa interpretazione e valutazione del contenuto delle menzionate conversazioni e SMS nonché delle dichiarazioni testimoniali della persona offesa, il che, attesa l’evidenziata assenza di qualsiasi illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui le suddette conversazioni e i suddetti SMS sono stati recepiti e con cui le suddette dichiarazioni sono state valutate, non può essere fatto in sede di legittimità.
7.2. Il secondo motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per il reato di tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 4 dell’imputazione, è fondato, nei termini e nei limiti che seguono.
7.2.1. Richiamato quanto si è detto al punto 7.1 con riguardo alle condizioni per ritenere la connotazione minacciosa di una condotta e la sua idoneità a integrare l’elemento strutturale dei delitti che si commettono mediante minaccia, il Collegio reputa esente da vizi la motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma ha ritenuto la connotazione, appunto, minacciosa delle frasi che erano state rivolte da NOME COGNOME alla persona offesa NOME COGNOME nel corso dell’incontro tra i due del 24/11/2015 – il cui contenuto era stato riferito d COGNOME a NOME COGNOME in una successiva intercettata conversazione sempre del 24/11/2015 -, al fine di costringere il COGNOME a corrispondere al COGNOME la somma, da questi pretesa, di C 30.000,00.
In particolare, si deve ritenere non contraddittorio né illogico reputare, come ha fatto la Corte d’appello di Roma, che le frasi rivolte dal COGNOME al COGNOME «tu fai le cose tue io faccio le cose mie te lo dico chiaro chiaro» e, a fronte dell rimostranza del COGNOME «lei mi sta facendo una prepotenza», «io prepotenze non ne ho mai fatte a nessuno, io parlo per il quieto vivere di tutti», integrassero una minaccia, ancorché larvata e, purtuttavia, efficace, atteso che, con le stesse frasi, si paventavano conseguenze, evidentemente negative per il Giovenali, se non avesse pagato al COGNOME la somma di C 30.000,00 da lui pretesa.
Tale condotta del COGNOME è stata correttamente ritenuta dalla Corte d’appello di Roma, ancorché implicitamente, come idonea e diretta in modo non equivoco a costringere il COGNOME a corrispondere al COGNOME la menzionata la somma di C 30.000,00.
7.2.2. Il motivo è invece fondato là dove, con esso, si contesta la motivazione della sentenza impugnata in punto di ritenuta ingiustizia del profitto e, soprattutto, di sussistenza del dolo di tentata estorsione.
A quest’ultimo proposito, si deve rammentare che le Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027-02) hanno ormai chiarito che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violen alle persone (art. 393 cod. civ.) e di estorsione – questi, in effetti, i due term del problema di qualificazione giuridica che viene qui in rilievo – si differenzian tra loro non in relazione al quantum di violenza esercitata o alla gravità della minaccia, ma in relazione all’elemento psicologico (il quale va accertato secondo le ordinarie regole probatorie). Ciò nel senso che, nel primo delitto, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta e arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare
un suo diritto, ovvero di esercitare una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo delitto, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
In ordine a tale aspetto, la motivazione della Corte d’appello di Roma appare contraddittoria, atteso che la stessa Corte, da un lato, ha ritenuto la sussistenza, in capo ad NOME COGNOME, del dolo di tentata estorsione e, dall’altro lato, ha affermato che il COGNOME aveva rappresentato sia a Santo D’Agata (primo capoverso della pag. 39 della sentenza impugnata) sia direttamente ad NOME COGNOME (quarto capoverso della pag. 39 della sentenza impugnata; pagg. 68-70 della sentenza di primo grado, nelle quali è trascritta la conversazione tra i due) di ritenere di vantare effettivamente un credito di C 30.000,00 nei confronti della persona offesa NOME COGNOME il che militava invece nel senso dell’esclusione del dolo di tentata estorsione e della configurabilità, piuttosto, del dolo del reat di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e, quindi, per quanto si è detto, di quest’ultimo reato.
Ciò tanto più con riguardo alla posizione di NOME COGNOME atteso che, posto egli era solo il soggetto terzo incaricato dell’esazione, sarebbe stato tanto più necessario verificare se la correlativa pretesa gli fosse stata rappresentata come fondata dal suo asserito titolare NOME COGNOME (Sez. 2, n. 46097 del 25/10/2023, Tresa, non massimata).
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente al reato di cui al capo 4 dell’imputazione, con rinvio per un nuovo giudizio su tale capo a un’altra sezione della Corte d’appello di Roma.
7.3. Il terzo motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per i reati di detenzione e porto illegali in concorso (con NOME COGNOME, giudicato separatamente) di un’arma da guerra e del relativo munizionamento di cui al capo 12 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
7.3.1. È, anzitutto, manifestamente infondata la doglianza con la quale il ricorrente ha dedotto che non sarebbe stata dimostrata la disponibilità, in capo a sé, dell’arma da guerra e del relativo munizionamento che erano stati sequestrati a Blerim Sulejmani il 27/10/2015.
Come è stato congruamente evidenziato dalla Corte d’appello di Roma, dal contenuto dell’intercettata conversazione tra NOME COGNOME e NOME COGNOME che ebbe luogo lo stesso 27/10/2015 prima del menzionato sequestro, era infatti emerso in modo incontrovertibile come la suddetta arma e il relativo munizionamento fossero detenuti e custoditi dal COGNOME per conto del COGNOME (COGNOME: «mi serve che mi porti quel coso», COGNOME: «ci penso io zio, l’ho preso, l’ho portato io, l’ho custodito io. Quando ti serve?»); «coso» che era stato
individuato con certezza nell’arma (COGNOME: «caricatore ce n’è uno?», COGNOME: «sì»; COGNOME: «però le pallottole ci sono», COGNOME: «sì ci sono»; COGNOME: «ok, uso un caricatore solo», COGNOME: «è pieno di pallottole»). Con le conseguenze che NOME COGNOME si doveva ritenere potere disporre dell’arma e del munizionamento in qualsiasi momento, chiedendo semplicemente al COGNOME di portarglieli, come era successo, sicché egli concorreva senz’altro con lo stesso COGNOME nella detenzione dell’arma e del relativo munizionamento (Sez. 1, n. 6796 del 22/01/2019, Susino, Rv. 274806-01; Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259479-01; Sez. 1, n. 45940 del 15/11/2011, COGNOME, cit.).
7.3.2. In secondo luogo, è manifestamente infondata anche la doglianza con la quale il ricorrente ha invocato l’assorbimento del delitto di detenzione illegale nel delitto di porto illegale dell’arma e del munizionamento.
In tema di reati concernenti le armi, il delitto di porto illegale assorbe pe continenza quello di detenzione, escludendone il concorso materiale, solo quando la detenzione dell’arma inizi contestualmente al porto della medesima in luogo pubblico e sussista altresì la prova che l’arma non sia stata in precedenza detenuta (Sez. 1, n. 27343 del 04/03/2021, COGNOME, cit., secondo cui, in mancanza di alcuna specificazione da parte dell’imputato circa la contemporaneità delle due condotte, il giudice di merito non è tenuto a effettuare verifiche, potendo attenersi al criter logico della normale anteriorità della detenzione rispetto al porto; Sez. 6, n. 46778 del 09/07/2015, Coscione, Rv. 265480-01; Sez. 1, n. 18410 del 09/04/2013, Vestita, Rv. 255687-01).
Posto tale principio, nel caso in esame, dal contenuto della menzionata intercettata conversazione tra il COGNOME e il COGNOME era emerso in modo anche in questo caso incontrovertibile che la detenzione dell’arma e del relativo munizionamento non era iniziata contestualmente al porto degli stessi in luogo pubblico ma che i medesimi erano stati detenuti prima di tale porto, del quale il COGNOME, avendo chiesto al COGNOME di portarglieli a casa, era stato, come è stato correttamente affermato dal Tribunale di Velletri, il mandante (pag. 152 della sentenza di primo grado).
7.4. Il quarto motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione illegale di due pistole di cui al capo 15 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
7.4.1. La Corte d’appello di Roma ha confermato la condanna di NOME COGNOME per la detenzione illecita di due pistole, armi comuni da sparo, in particolare: 1) quella che gli era stata consegnata da NOME COGNOME il 16/07/2015; 2) la sua «personale» (come il COGNOME la definisce nell’intercettata conversazione del 09/08/2015 con NOME COGNOME).
Le contestazioni del ricorrente appaiono attenere alla prima di tali due pistole.
A tale proposito, si deve osservare come la Corte d’appello di Roma abbia congruamente motivato con riguardo alla detenzione anche di tale pistola (una Beretta calibro 9), argomentando che la «pur suggestiva» tesi sostenuta dalla difesa di NOME COGNOME (cioè che «NOME COGNOME si fosse allontanata per recuperare dei soldi da consegnare al COGNOME e che NOME COGNOME abbia inventato la storia della pistola per tacitare la moglie, che proprio di tali dazioni denaro si era lamentata»; pag. 52 della sentenza impugnata), era smentita dal fatto che, «qualche mese dopo» (il riferimento è al 02/02/2016), NOME COGNOME era stata trovata in possesso di una pistola Beretta calibro 9 che stava riportando al padre NOME COGNOME su sua richiesta, nonché dalla considerazione che lo stesso NOME COGNOME aveva «sostenuto di avere consegnato un’arma alla figlia solamente il giorno stesso in cui egli ricevette la visita di NOME COGNOME (pagine 158 e 159 della sentenza impugnata)» (primo paragrafo della pag. 52 della sentenza impugnata).
Il ricorrente non si è compiutamente confrontato con tale motivazione di rigetto della sua tesi e, in particolare, con il fatto che, oltre alla sua pis «personale», egli aveva senz’altro detenuto anche l’altra e diversa pistola, di marca Beretta, che era stata sequestrata alla figlia NOME Arma, questa, che il COGNOME non poteva definire «sua personale» né, come aveva pure fatto nel corso della menzionata conversazione con NOME COGNOME del 09/08/2015, «immacolata», non potendo egli assicurare che la pistola che gli era stata consegnata dal COGNOME il 16/07/2015 non fosse stata previamente utilizzata in imprese illecite.
7.5. Il quinto motivo, che attiene all’affermazione di responsabilità per il reato di detenzione per la vendita a terzi in concorso (con NOME COGNOME e con NOME COGNOME) di un’imprecisata quantità di sostanza stupefacente del tipo marijuana e hashish di cui al capo 17 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
7.5.1. La Corte d’appello di Roma ha del tutto logicamente e ragionevolmente ritenuto che:
a) quanto all’intercettata conversazione tra presenti delle ore 13:07 del 13/07/2015 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME: a.1) dall’affermazione di questi «io l’ho odorata zio, dall’odore a me mi sembra buona», si ricavava logicamente, dato l’uso del femminile e la contrapposizione con l’hashish di cui si subito si dirà, che il Sulejmani aveva portato ad NOME COGNOME un campione di marijuana; a.2) dalla domanda «e l’hashish?» rivolta da NOME COGNOME al COGNOME e dalla richiesta del primo al secondo di farsi consegnare una tavoletta di hashish, risultava un esplicito riferimento anche a tale altra sostanza; a.3) dalla preoccupazione manifestata da NOME COGNOME di avere qualcosa da mostrare
e dal generale tenore della conversazione, risultava che l’intenzione di NOME COGNOME e di NOME COGNOME era quella di cedere le menzionate sostanze a un terzo soggetto indeterminato con il quale il COGNOME aveva appuntamento nel pomeriggio di quello stesso giorno (13/07/2015), appuntamento che era finalizzato a mostrare al soggetto acquirente i campioni delle sostanze stupefacenti oggetto di compravendita, più che a consegnare tutta la marijuana e tutto l’hashish compravenduti, dei quali, comunque, il COGNOME e il COGNOME mostravano di avere la disponibilità, ancorché le sostanze fossero custodite da un altro soggetto;
b) quanto all’intercettata conversazione tra presenti delle successive ore 19:29 sempre del 13/07/2015 tra NOME COGNOME e NOME COGNOME: b.1) da essa risultava che, dopo che i due interlocutori avevano fatto esplicito riferimento alla conversazione che NOME COGNOME aveva avuto poche ore prima con il Sulejmani, il COGNOME informava il COGNOME che il menzionato incontro che si sarebbe dovuto svolgere nel pomeriggio con l’ignoto acquirente delle sostanze stupefacenti era stato spostato al giorno successivo (per la ragione che il Sulejmani si era allarmato per avere visto delle persone che potevano appartenere alle forze dell’ordine); b.2) a tale incontro avrebbe preso parte anche il COGNOME, perché aveva «stu viziu» che ci vuole «essiri in prima persona»; b.3) dalla stessa conversazione risultava altresì che, mentre NOME COGNOME si era mostrato convinto che l’incontro del giorno successivo avrebbe avuto a oggetto solo la conclusione della trattativa, il COGNOME gli aveva spiegato di essere pronto per la consegna della sostanza stupefacente, specificamente, dell’hashish (domanda di NOME COGNOME: «di che cosa stiamo parlando scusa?», risposta del COGNOME: «del fumo»), confermando di averne la piena disponibilità («oh, c’era») e di dovere solo andarlo a prendere. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Orbene, alla luce del contenuto di tali conversazioni, il Collegio ritiene assolutamente condivisibile l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui «MI tenore dei dialoghi è chiarissimo e non lascia spazio ad interpretazioni alternative» rispetto a quella, già esplicitata dal Tribunale di Velletri, c NOME COGNOME aveva anch’egli detenuto per la vendita e offerto in vendita a un terzo soggetto indeterminato sostanze stupefacenti del tipo marijuana e hashish, pur avendo la stessa Corte d’appello ritenuto di non potere, sulla base del contenuto delle stesse conversazioni, diversamente da quanto aveva reputato il Tribunale di Velletri, individuare il quantitativo delle stesse sostanze che er stato detenuto e offerto in vendita dall’imputato.
A fronte di ciò, le doglianze che sono state prospettate dal ricorrente con il motivo in esame appaiono fondamentalmente generiche, in quanto non si confrontano compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata, e,
comunque, palesemente del tutto inidonee a scalfirne le conclusioni in ordine alla consumazione, da parte del COGNOME, del reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, in concorso con NOME COGNOME e con NOME COGNOME.
7.6. Il sesto motivo, il quale attiene all’affermazione di responsabilità per i reato di acquisto, per la successiva rivendita, in concorso di 15 chilogrammi di hashish di cui al capo 18 dell’imputazione, è manifestamente infondato.
7.6.1. Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno congruamente argomentato come, dal contenuto delle intercettate conversazioni tra NOME COGNOME ed NOME COGNOME, fosse emerso il pieno coinvolgimento del COGNOME nell’acquisto dello stupefacente che il COGNOME aveva prima saggiato – durante l’incontro, da lui preannunciato al COGNOME (pag. 168 della sentenza di primo grado; pag. 61 della sentenza impugnata), che aveva avuto con NOME COGNOME la mattina del 04/09/2015 -, e che, poi, avrebbe dovuto essergli consegnato dal COGNOME il pomeriggio dello stesso 04/09/2015 (il che non era avvenuto solo a causa dell’arresto del COGNOME e del sequestro, nei suoi confronti, dei 15 chilogrammi di hashish).
Il menzionato preannuncio dell’incontro con il COGNOME, nel corso del quale il COGNOME avrebbe saggiato la sostanza stupefacente, le conversazioni nel corso delle quali il COGNOME aveva discusso con il COGNOME dei prezzi che avrebbero potuto praticare per la droga (pag. 172 della sentenza di primo grado), i continui aggiornamenti, sempre da parte del COGNOME al COGNOME, in ordine alla vicenda delittuosa sia prima del sequestro dei 15 chilogrammi di hashish sia dopo lo stesso sequestro (come risulta dall’intercettata conversazione tra i due del 05/09/2015), sono stati non illogicamente reputati elementi tali da fare ritenere che il COGNOME non fosse un mero ascoltatore dei racconti del COGNOME ma fosse anch’egli coinvolto – e, per tale ragione, come si è detto, continuamente aggiornato nell’acquisto dello stupefacente destinato alla rivendita (come dimostrato dalle discussioni sui prezzi praticabili).
Tale motivazione risulta non illogica, e neppure contraddittoria né violativa di norme di legge, e, a fronte di ciò, le doglianze del ricorrente appaiono sostanzialmente dirette a propiziare una diversa valutazione degli elementi probatori, ritenuta preferibile sulla base di mere congetture, il che non è consentito in sede di legittimità.
7.7. Il settimo motivo, con il quale sono stati dedotti i vizi di violazione e erronea applicazione dell’art. 80 del d.P.R. n. 309 del 1990 nonché il vizio di mancanza della motivazione con riguardo alla circostanza aggravante dell’ingente quantità della sostanza stupefacente di cui al capo 18 dell’imputazione, è fondato.
7.7.1. Con il ventiduesimo motivo del suo atto di appello (pagg. 82-83), certamente specifico e quindi doverosamente valutabile, NOME COGNOME aveva
chiesto l’esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990, con riguardo al fatto di cui al capo 18 dell’imputazione.
Tale motivo di appello non è stato esaminato dalla Corte d’appello di Roma. Ciò dà luogo a un vizio della motivazione che è rilevante a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., atteso che, nemmeno sulla base della motivazione complessivamente considerata della sentenza impugnata, è possibile ritenere che la prospettazione difensiva sia stata implicitamente rigettata.
7.8. L’ottavo motivo, il quale attiene all’affermazione di responsabilità per i reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente di cui al capo 22 dell’imputazione, limitatamente alla detenzione in concorso con il figlio NOME COGNOME e alla mancata riqualificazione dei fatti di cui allo stesso capo 22 come mero tentativo del delitto di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, manifestamente infondato.
7.8.1. Come si è già detto esaminando il primo e il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME (punto 6.1), il Collegio ritiene che la Corte d’appello di Roma abbia correttamente reputato che le conversazioni intercettate confermassero «senza alcun dubbio» che i due imputati NOME COGNOME e suo figlio NOME COGNOME avevano detenuto illecitamente della sostanza stupefacente del tipo marijuana, destinata alla consegna a terzi.
In particolare, il Collegio reputa effettivamente inequivoco, in tale senso, il contenuto:
a) di una prima conversazione che ebbe luogo il 15/03/2016 in casa di NOME COGNOME tra lo stesso NOME COGNOME (qui ricorrente) e suo figlio NOME COGNOME, nel corso della quale i due parlavano chiaramente di marijuana («erba»), della consegna di tale sostanza stupefacente a tale NOME da parte di NOME COGNOME (domanda di NOME COGNOME: «a chi gliene devi dare cinque? A NOME?», risposta di NOME COGNOME: «a NOME») e dalla quale emergeva incontrovertibilmente che i due disponevano effettivamente della stessa sostanza (NOME COGNOME: «questi sono due pacchi da due, uno va tagliato a metà e poi una volta che ho pagato lui dimmi te perché io più di una volta un pacco, ma gliela facciamo venire a prendere a loro non è che non gli portiamo niente
b) di una seconda conversazione che ebbe luogo sempre il 15/03/2016 e sempre in casa di NOME COGNOME nel corso della quale lo stesso NOME COGNOME e il figlio NOME COGNOME si accordavano per un trasporto di «erba» che NOME COGNOME avrebbe dovuto effettuare, dovendo consegnare anche un campione (NOME COGNOME: «un pezzetto»; NOME COGNOME: «un ciuffo»; NOME COGNOME: «una bella cima»; NOME COGNOME: «una cima, una di quelle
che stanno là dentro»; NOME COGNOME: «una delle migliori, almeno facciamo bella figura»).
L’interpretazione di tali conversazioni nel senso che i due imputati NOME COGNOME e suo figlio NOME COGNOME detenevano illecitamente della sostanza stupefacente del tipo marijuana, destinata alla consegna a terzi, appare, all’evidenza, del tutto ragionevole e logica, con la conseguente logicità della motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma ha ritenuto la responsabilità di NOME COGNOME per il reato, consumato, di detenzione illecita di sostanza stupefacente di cui al capo 22 dell’imputazione, limitatamente alla detenzione in concorso con il figlio NOME COGNOME il che escludeva anche logicamente, ancorché implicitamente, che lo stesso reato si potesse ritenere meramente tentato.
A fronte di ciò, le doglianze del ricorrente appaiono sostanzialmente dirette, da un lato, a ottenere una diversa interpretazione e valutazione del contenuto delle menzionate conversazioni tra presenti – il che, attesa l’evidenziata assenza di qualsiasi illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite, non può essere fatto in sede di legittimità – e, dall’altro lato, a sostene un’inammissibile parcellizzazione delle condotte dell’imputato.
7.9. Il nono motivo (con il quale sono stati lamentati la violazione di legge e il vizio della motivazione con riguardo ad alcuni aspetti del trattamento sanzionatorio) e il decimo motivo (con il quale sono stati lamentati la violazione di legge e il vizio della motivazione con riguardo alla conferma del diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche) sono preclusi in conseguenza dell’annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma, con riferimento alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. relativamente ai reati per i quali è stata esclusa.
8. I ricorsi di NOME COGNOME.
I ricorsi di NOME COGNOME sono in parte fondati.
8.1. Il secondo motivo del ricorso dell’avv. COGNOME è privo della necessaria specificità.
Come afferma anche la Corte di appello, in relazione all’analogo motivo di gravame, nella sentenza impugnata, manca del tutto la disamina delle possibili ripercussioni dell’eccepito vizio, e della conseguente espunzione dai materiali utilizzabili dei tabulati de quibus, sulla complessiva tenuta dell’impianto argomentativo che sorregge la contestata affermazione di responsabilità, fondato su plurime ed eterogenee risultanze probatorie ulteriori.
E’ senz’altro noto, in proposito, che, nell’ipotesi in cui con il ricorso p cassazione si lamentino vizi processuali di elementi a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 3, n. 39603 de 03/10/2024, Izzo, Rv. 287024 – 02; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, COGNOME e altro, Rv. 269218 – 01).
8.1.1. Di qui, l’irrilevanza di tutte le questioni e richieste accessorie present nel ricorso dell’avv. COGNOME
8.2. Il terzo motivo del ricorso dell’avv. COGNOME è manifestamente infondato.
8.2.1. In difetto di una espressa previsione di retroattività delle nuove disposizioni introdotte dal d. Igs. n. 150 del 2022 con riguardo alle conseguenze delle eventuali violazioni della disciplina in tema di iscrizione nei registri del av, notizie d . rato (che neppure le difese indicano specificamente), trova nel caso di % (AgoAL. speci)la ormativa previgente, in relazione alla quale la giurisprudenza di questa Corte è ben ferma nel ritenere che l’omessa o ritardata iscrizione del nome dell’indagato nel registro previsto dall’art. 335 cod. proc. pen. non determina alcuna invalidità delle indagini stesse, ma consente semmai al giudice di rideterminare il termine iniziale delle indagini preliminari, in riferimento momento in cui si sarebbe dovuta iscrivere la notizia di reato, con la conseguenza che la tardiva iscrizione può incidere sulla utilizzabilità delle indagini finali, ma n sulla utilizzabilità di quelle svolte prima della iscrizione (Sez. 5, n. 1410 d 21/09/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 236029 – 01; Sez. 5, n. 41131 del 08/10/2003, COGNOME, Rv. 227054 – 01).
Le stesse Sezioni Unite (Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, COGNOME, Rv. 244376 – 01) hanno chiarito, in argomento, che il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel regist delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che a G.i.p. sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicché gli eventuali ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nome della persona cui il reato è attribuito, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall’art. 407, comma terzo, cod. proc. pen., fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del P.M. che abbia ritardato l’iscrizione (conforme, Sez. 6, n. 4844 del 14/11/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275046 – 01).
8.2.2. Non attinenti al caso in esame, come emergente dallo stesso motivo di ricorso, sono:
Sez. 5, n. 32767 del 15/07/2021, Capaldo, Rv. 281870 – 01, riguardante un caso di mancata autorizzazione alla riapertura delle indagini preliminari a seguito di archiviazione;
Sez. 6, n. 40 del 22/09/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284104 – 01, riguardante il fenomeno di successione di leggi nel tempo verificatosi in materia di acquisizione dei tabulati telefonici in presenza di una disciplina transitoria ad hoc, introdotta dall’art. 1-bis d.l. n. 132 del 2021, conv., con modificazioni, in legge n 178 del 2021;
Sez. 4, n. 2854 del 11/01/2023, FCA ITALY S.P.A., Rv. 284012 – 01, riguardante diversa normativa e, peraltro, superata da Sez. U, n. 38481 del 25/05/2023, D., Rv. 285036 – 01.
8.2.2. Trattandosi di una questione di diritto correttamente risolta, pur se, in ipotesi, come lamenta la difesa, senza espressa motivazione, dalla Corte di appello, non è rilevante, e risulta quindi indeducibile, la carenza di motivazione: come ancora una volta già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 – 05), infatti, i vizi di motivazione indicati dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non sono mai denunciabili con riferimento alle questioni di diritto, quando la soluzione adottata dal giudice sia giuridicamente corretta.
8.3. Il quinto motivo del ricorso dell’avv. COGNOME è in parte manifestamente infondato, in parte privo della necessaria specificità.
8.3.1. Il motivo risulta manifestamente infondato nella parte in cui lamenta la violazione del presunto divieto per gli agenti di polizia giudiziaria di testimoniare sul contenuto di intercettazioni.
Invero, risulta da tempo superato il risalente orientamento per il quale la deposizione testimoniale sul contenuto di intercettazioni telefoniche (pur non inutilizzabile, giacché la sanzione processuale dell’inutilizzabilità discende da espressi divieti di acquisizione probatoria ex art. 191 cod. proc. pen. inutilizzabilità generali -, ovvero da una specifica previsione – che nel caso non è rinvenibile nell’ordinamento – della sanzione in relazione a un’acquisizione difforme dai modelli legali – inutilizzabilità speciali -), in quanto diretta a introdurre processo i risultati delle intercettazioni in una maniera difforme da quella desumibile dalla disciplina di cui al capo IV del titolo III del codice di procedur penale, posta a garanzia dei diritti della difesa – deve ritenersi affetta da nullità ordine generale ex art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., la cui rilevabilità è soggetta alle preclusioni previste dal capoverso dell’art. 182 e dall’art. 180 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 20824 del 10/01/2013, COGNOME Rv. 256496 – 01; Sez. 6, n. 402 del 12/10/1998, dep. 1999, Aliu, Rv. 213328 – 01).
L’orientamento più recente ed in atto dominante, che il collegio condivide e ribadisce, ritiene, al contrario, che il contenuto delle conversazioni intercettate può essere provato anche mediante deposizione testimoniale, non essendo necessaria la trascrizione delle registrazioni nelle forme della perizia, atteso che la prova è costituita dalla bobina o dalla cassetta, che l’art. 271, comma 1, cod. proc. pen. non richiama la previsione dell’art. 268, comma 7, cod. proc. pen. tra le disposizioni la cui inosservanza determina l’inutilizzabilità e che la mancata trascrizione non è espressamente prevista né come causa di nullità, né è riconducibile alle ipotesi di nullità di ordine generale tipizzate dall’art. 178 co proc. pen. (Sez. 5, n. 34736 del 21/06/2022, COGNOME, Rv. 283545 – 01, con la precisazione, in motivazione, che oggetto di testimonianza possono essere soltanto intercettazioni legittimamente acquisite agli atti, non anche intercettazioni per altro verso inutilizzabili; Sez. 3, n. 2507 del 28/10/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282696 – 01; Sez. 1, n. 41632 del 03/05/2019, Chan, Rv. 277139 – 01).
8.3.2. Il motivo risulta privo della necessaria specificità nella parte in cu sembrerebbe dolersi del fatto che gli agenti di polizia giudiziaria de quibus avrebbero introdotto elementi desunti da brogliacci, ma non presenti nell’acquisita perizia trascrittiva, non indicando compiutamente le specifiche e presunte anomalie oggetto di doglianza: invero, tenuto conto della presenza in atti di una particolarmente voluminosa perizia trascrittiva, sarebbe stato necessario consentire la dettagliata verifica delle circostanze allegate, onde accertare se si discutesse di episodi emergenti da brogliacci e perizia, in ipotesi ricostruiti da testimoni di PG con difformità rispetto a quanto emergente dalla perizia, ovvero del tutto esulanti dall’acquisito compendio intercettivo, sui quali non sarebbe stato, peraltro, vietato rendere dichiarazioni testimoniali.
8.3.3. Prima di esaminare l’ulteriore doglianza formulata nel medesimo motivo, deve ricordarsi che questa Corte è ferma nel ritenere che gli appartenenti alla polizia giudiziaria possono essere autorizzati a consultare, in aiuto alla memoria, documenti da loro non formalmente redatti o sottoscritti, purché abbiano partecipato alle operazioni, agli scambi o ai rapporti cui gli stessi si riferiscono (Sez. 5, n. 22115 del 22/03/2022, COGNOME, Rv. 283438 – 02; Sez. 2, n. 3317 del 26/11/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 249039 – 01).
8.3.4. Ciò premesso, il motivo risulta manifestamente infondato nella parte in cui pretende di ritenere illegittima la consultazione, da parte del singolo teste di PG di volta in volta esaminato, di atti di indagine dallo stesso non sottoscritti, e privo della necessaria specificità nella parte in cui non indica compiutamente le specifiche operazioni cui ciascuno dei testimoni de quibus non avrebbe preso parte
e su cui avrebbe cionondimeno testimoniato previa (questa volta indebita) consultazione di atti dallo stesso non sottoscritti.
8.4. Il primo motivo di entrambi i ricorsi ed il quarto motivo del ricorso dell’avv. COGNOME sono fondati.
Detti motivi, in premessa dettagliatamente riportati, risultano in concreto del tutto non esaminati dalla Corte di appello, non rinvenendosene specifica ed adeguata confutazione nel corpo della sentenza impugnata (cfr. f. 61 ss.).
8.5. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata, con rinvio a diversa sezione della Corte di appello di Roma, affinché siano colmate le evidenziate lacune motivazionali.
8.5.1. Il sesto ed il settimo motivo del ricorso dell’Avv. COGNOME risultan conseguentemente assorbiti.
9. Il ricorso di NOME COGNOME.
9.1. Il primo, il secondo e il terzo motivo – i quali, attenendo tut all’affermazione di responsabilità per il reato di tentata estorsione in concorso (con NOME COGNOME) ai danni di NOME COGNOME di cui al capo 4 dell’imputazione, possono essere esaminati congiuntamente -, sono fondati, nei termini e nei limiti che seguono.
9.1.1. Richiamato quanto si è detto al punto 7.1 con riguardo alle condizioni per ritenere la connotazione minacciosa di una condotta e la sua idoneità a integrare l’elemento strutturale dei delitti che si commettono mediante minaccia, il Collegio reputa esente da vizi la motivazione con la quale la Corte d’appello di Roma ha ritenuto la connotazione, appunto, minacciosa:
delle frasi che erano state direttamente rivolte da NOME COGNOME alla persona offesa NOME COGNOME il cui contenuto era stato riferito dal COGNOME a Santo D’Agata e da questi ad NOME COGNOME in una successiva intercettata conversazione del 08/07/2015;
delle frasi che erano state rivolte da NOME COGNOME sempre alla persona offesa NOME COGNOME nel corso dell’incontro tra i due del 24/11/2015, il cui contenuto era stato riferito dal COGNOME a NOME COGNOME in una successiva intercettata conversazione sempre del 24/11/2015. Frasi che erano finalizzate a costringere il COGNOME a corrispondere al COGNOME la somma, da questi pretesa, di C 30.000,00.
In particolare, si deve ritenere non contraddittorio né illogico reputare, come ha fatto la Corte d’appello di Roma, che:
le frasi rivolte dal COGNOME al COGNOME «ti sei messo la Sicilia contro, ora viene Santo e ti spara in testa» integrassero una minaccia esplicita e determinata;
b) le frasi rivolte dal COGNOME al Giovenali «tu fai le cose tue io faccio le cos mie te lo dico chiaro chiaro» e, a fronte della rimostranza del Giovenali «lei mi sta facendo una prepotenza», «io prepotenze non ne ho mai fatte a nessuno, io parlo per il quieto vivere di tutti», integrassero una minaccia, ancorché larvata e, purtuttavia, efficace atteso che, con le stesse frasi, si paventavano conseguenze, evidentemente negative per il Giovenali, se non avesse pagato al COGNOME la somma di C 30.000,00 da lui pretesa.
Tale condotta del COGNOME è stata correttamente ritenuta dalla Corte d’appello di Roma, ancorché implicitamente, come idonea e diretta in modo non equivoco a costringere il COGNOME a corrispondere al COGNOME la menzionata somma di C 30.000,00.
9.1.2. Il motivo è invece fondato là dove, con esso, si contesta la motivazione della sentenza impugnata in punto di ritenuta ingiustizia del profitto e, soprattutto, di sussistenza del dolo di tentata estorsione.
A quest’ultimo proposito, si è già rammentato (al punto 7.2) che le Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027-02) hanno ormai chiarito che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 cod. civ.) e di estorsione – questi, in effetti, i due termini del problema di qualificazione giuridica che viene qui in riliev – si differenziano tra loro non in relazione al quantum di violenza esercitata o alla gravità della minaccia, ma in relazione all’elemento psicologico (il quale va accertato secondo le ordinarie regole probatorie). Ciò nel senso che, nel primo delitto, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta e arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di esercitare una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo delitto, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
In ordine a tale aspetto, come pure si è già detto al punto 7.2, la motivazione della Corte d’appello di Roma appare contraddittoria, atteso che la stessa Corte, da un lato, ha ritenuto la sussistenza, in capo a NOME COGNOME, del dolo di tentata estorsione e, dall’altro lato, ha affermato che il COGNOME aveva rappresentato sia a Santo COGNOME (primo capoverso della pag. 39 della sentenza impugnata) sia direttamente ad NOME COGNOME (quarto capoverso della pag. 39 della sentenza impugnata; pagg. 68-70 della sentenza di primo grado, nelle quali è trascritta la conversazione tra i due) di ritenere di vantare effettivamente un credito di C 30.000,00 nei confronti della persona offesa NOME COGNOME il che militava invece nel senso dell’esclusione del dolo di tentata estorsione e della configurabilità, piuttosto, del dolo del reato di esercizio arbitrario delle propr
ragioni con violenza alle persone e, quindi, per quanto si è detto, di quest’ultimo reato.
9.1.3. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata nei confronti di NOME COGNOME con rinvio per un nuovo giudizio a un’altra sezione della Corte d’appello di Roma.
9.2. L’esame del quarto motivo (con il quale si contesta la mancata esclusione della circostanza aggravante cosiddetta del metodo mafioso) e del quinto motivo (con il quale si contesta il diniego delle circostanze attenuanti generiche) è assorbito dall’accoglimento, nei termini e nei limiti che si sono detti, dei precedenti motivi.
La preclusione all’esame dei motivi degli imputati ricorrenti (anche di quelli nel resto soccombenti) inerenti al trattamento sanzionatorio, conseguente all’accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma quanto ai reati di cui ai capi 1), 1-bis), 24) ed alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. relativamente ai reati per i quali è stata esclusa, impone di ritenere che non sono maturate, nei confronti di alcuno di essi, le condizioni che potrebbero legittimare la pronuncia delle statuizioni accessorie di cui all’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
in accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma, annulla la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi 1), 1-bis), 24), nonché alla circostanza aggravante della finalità agevolativa di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. relativamente ai reati per i quali stata esclusa. Per effetto di tale ultima statuizione, dichiara precluso l’esame dei motivi di ricorso degli imputati inerenti al trattamento sanzionatorio. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma.
Annulla la sentenza impugnata:
nei confronti di COGNOME NOME;
nei confronti di COGNOME NOME limitatamente al reato di cui al capo 4) ed al reato di cui al capo 18), relativamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 80 d.P.R. n. 309 del 1990;
nei confronti di COGNOME NOME limitatamente alla circostanza attenuante di cui agli artt. 114, comma terzo, e 112, comma primo, n. 3, cod. pen.;
nei confronti di Palma SergioCOGNOME
Rinvia per nuovo giudizio sui predetti capi e punti ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Dichiara irrevocabili le affermazioni di responsabilità di COGNOME NOME in relazione al reato di cui al capo 18) e di COGNOME NOME in relazione al reato di
cui al capo 5).
Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi di COGNOME NOME e COGNOME
NOME
Rigetta nel resto il ricorso di COGNOME Salvatore.
Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi di COGNOME, COGNOME Simone e
NOME COGNOME.
Così deciso il 07/01/2025.