Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 21311 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 21311 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 02/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Pagani (SA) il 08/03/1974
avverso l’ordinanza del 25/11/2024 del Tribunale di Salerno;
letti gli atti del procedimento, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; lette la memoria e le conclusioni del difensore del ricorrente, avvocato NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME indagato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Salerno per i delitti di turbata libertà degli incanti e turbata libertà procedimento di scelta del contraente (artt. 353 e 353-bis, cod. pen.), affida al proprio difensore l’impugnazione dell’ordinanza di quel Tribunale in epigrafe
indicata, che ha respinto la sua istanza di riesame avverso il decreto di sequestro emesso dal Pubblico ministero il 30 ottobre 2024, avente per oggetto le comunicazioni d’interesse investigativo avvenute mediante sms, messaggi in chat e su social network, messaggi vocali, e-mail ed in ogni altra forma, presenti sui dispositivi elettronici a lui sequestrati con separato e precedente provvedimento.
Con un unico ma articolato motivo, il ricorso denuncia violazione di legge e vizi della motivazione resa dal Tribunale, essenzialmente su tre profili.
2.1. Il primo è costituito dall’indeterminatezza degli addebiti contenuti nel decreto di sequestro del Pubblico ministero, limitati all’indicazione dell’articolo d legge violato nonché della data e del luogo di ipotetica commissione dei reati, senza alcuna indicazione degli specifici comportamenti ascritti. Il Tribunale – si deduce – ha cercato di porvi rimedio, integrando tali lacune nella descrizione dei fatti, in tal modo compiendo, però, un’attività non consentitagli.
2.2. In secondo luogo, si deduce l’inammissibile carattere puramente esplorativo del sequestro, disposto dal Pubblico ministero sulla generalità delle comunicazioni contenute nei dispositivi informatici dell’indagato, senza il previo accertamento, in contraddittorio con la difesa, della riferibilità delle stesse al reat quali corpo del medesimo, cose ad esso pertinenti od altrimenti d’interesse investigativo.
Sul punto, si lamenta il sostanziale silenzio dell’ordinanza impugnata.
2.3. Da ultimo, si censura la mancata applicazione diretta della direttiva UE n. 2016/680, nella parte in cui – come stabilito dalla sentenza della CGUE, Grande camera, del 4.10.2024 in causa C-548/21 – essa osta ad una normativa nazionale che autorizzi l’accesso ai dati contenuti in un telefono cellulare senza la preventiva autorizzazione di un giudice o di un organo amministrativo indipendente, tale non potendo essere il Pubblico ministero, secondo quanto statuito dalla stessa CGUE (Grande sezione, sentenza del 2.3.2021 in causa C-746/18).
Sul punto, il Tribunale si è erroneamente limitato a rilevare che l’anzidetto principio dev’essere adattato al diritto nazionale, quando invece quest’ultimo, qualora si ponga in contrasto con quello dell’Unione, non può trovare applicazione.
Ha depositato memoria scritta il Procuratore generale, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
Ha depositato memoria di replica con conclusioni scritte la difesa ricorrente, con la quale ribadisce gli argomenti del ricorso, in particolare la necessaria soccombenza del diritto interno rispetto a quello dell’Unione; contesta, inoltre, l’esistenza di elementi da cui desumere la reale consumazione delle condotte
delittuose ipotizzate e, comunque, la riferibilità di esse al ricorrente; censura, altresì, il riferimento agli sviluppi investigativi che hanno successivamente condotto all’adozione di ulteriori sequestri anche in relazione a delitti associativi operato dal Procuratore generale nella sua requisitoria, poiché del tutto inconferente e relativo a fatti estranei alla presente procedura incidentale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è per lo meno infondato, se non inammissibile per genericità.
Il principio di diritto evocato è corretto e lo ha fatto proprio anche il Tribunal in tema di sequestro probatorio, la motivazione del decreto del Pubblico ministero deve contenere, a pena di nullità, la descrizione della condotta ipotizzata a carico dell’indagato, la sua riconduzione ad una fattispecie incriminatrice, la natura dei beni da vincolare e la loro relazione con tale ipotesi criminosa, non essendo esaustiva l’indicazione della sola norma violata (così, tra molte altre successive, già Sez. 6, n. 37639 del 13/03/2019, Bufano, Rv. 277061).
Nulla esclude, però, che tali dati possano essere indicati anche per relationem, come – stando a quanto di legge nell’ordinanza – risulta essere avvenuto nel caso specifico, in cui il Pubblico ministero ha operato un richiamo recettizio ai propri precedenti decreti d’ispezione, perquisizione e sequestro, contenenti l’indicazione del reato ipotizzato, del luogo e del tempo di commissione dello stesso, nonché delle relative fonti di prova: affermazione, questa del Tribunale, che il ricorso non contraddice.
2. Manifestamente infondato è il secondo motivo.
Nessuna iniziativa puramente esplorativa ha adottato il Pubblico ministero, che ha disposto il sequestro a sèguito di ispezione e lo ha previamente circoscritto ai soli risultati rilevanti con riferimento ad aspetti pertinenti ai re specificamente indicati. Si deve considerare, peraltro, che ispezioni e sequestri probatori costituiscono pur sempre mezzi di ricerca della prova (libro III, titolo II capi I e III, cod. proc. pen.) e, come tali, presentano frequentemente, se non proprio inevitabilmente, un certo grado di approssimazione nell’indicazione dell’oggetto, soprattutto quando si tratti di cercare documenti, la cui pertinenza e necessità ai fini delle indagini non sempre può emergere illico et immediate.
Merita qualche riflessione più approfondita, invece, il terzo motivo di ricorso, con cui il ricorrente chiede l’applicazione diretta del diritto dell’Uni
europea, nell’interpretazione offertane dalla Corte di giustizia dell’Unione con due sentenze specificamente richiamate.
3.1. La prima è quella della Grande camera, n. 171 del 4.10.2024, in causa C-548/21, in cui, per quanto d’interesse ai fini del ricorso, quella Corte ha affermato che:
-qualora l’accesso ai dati personali da parte delle autorità nazionali competenti comporti il rischio di un’ingerenza grave nei diritti fondamentali dell’interessato, è essenziale che tale accesso sia subordinato a un controllo preventivo effettuato da un giudice o da un organo amministrativo indipendente (§ 102);
per quanto riguarda un’indagine penale, un controllo di questo tipo esige che tale giudice o tale organo sia in grado di garantire un giusto equilibrio tra i legittimi interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta all criminalità e, dall’altro lato, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso (§ 103);
tale controllo indipendente deve intervenire prima di qualsiasi tentativo di accesso ai dati di cui trattasi, salvo in casi di urgenza debitamente comprovati, nel qual caso detto controllo deve avvenire in tempi brevi (§ 104);
pertanto, l’art. 4, par. 1, lett. c), della direttiva 2016/680, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 52, par. 1, CDFUE, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che conceda alle autorità competenti la possibilità di accedere ai dati contenuti in un telefono cellulare od altro dispositivo simile, a fini di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati in generale, se tale normativa definisca in modo sufficientemente preciso la natura o le categorie dei reati in questione, garantisca il rispetto del principio proporzionalità e – per quel che specificamente rileva ai fini del presente ricorso subordini l’esercizio di tale possibilità, salvo in casi di urgenza debitamente comprovati, ad un controllo preventivo di un giudice o di un organo amministrativo indipendente (§ 110).
3.2. La seconda decisione richiamata dal ricorrente è quella della Grande sezione del 2 marzo 2021 in causa C-746/18, H.K. c. Estonia, in tema di accesso ai dati del traffico telefonico e telematico, con la quale la Corte di Lussemburgo, peraltro richiamando proprie precedenti decisioni, ha stabilito che:
-è essenziale che l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati sia subordinato ad un controllo effettuato o da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente, nell’ambito di procedure di prevenzione o di accertamento di reati ovvero nel contesto di azioni penali esercitate; tale controllo
dev’essere preventivo e, solo in caso di urgenza debitamente giustificata, può essere successivo ma, comunque, intervenire entro termini brevi (§ 51);
-il requisito di indipendenza dell’autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo impone che essa abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l’accesso ai dati, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale; in particolare, in ambito penale, il requisito di indipendenza implica che l’autorità incaricata di tale controllo, da un lato, non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine penale di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale (§ 54);
-ciò non si verifica nel caso di un Pubblico ministero, che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l’azione penale, assumendo perciò la posizione di parte nel processo (§ 55);
-la circostanza che il Pubblico ministero sia tenuto, conformemente alle norme che disciplinano le sue competenze e il suo status, a verificare gli elementi a carico e quelli a discarico, a garantire la legittimità del procedimento istruttori e ad agire unicamente in base alla legge ed al suo convincimento non può essere sufficiente per conferirgli lo status di terzo rispetto agli interessi in gioco: ne consegue che il Pubblico ministero non è in grado di effettuare il controllo preventivo (§§ 56 e 57);
pertanto, l’art. 15, par. 1, della direttiva 2002/58, letto alla luce degli ar 7, 8, 11 e 52, par. 1, della CDFUE, dev’essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale renda il Pubblico ministero competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai d relativi all’ubicazione di apparecchiature elettroniche ai fini di un’istruttoria penal
Nonostante tali nette affermazioni di principio, il relativo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.
Non v’è spazio, anzitutto, per l’invocata disapplicazione del diritto interno.
Tanto dicasi, in primo luogo, perché la disciplina della direttiva 2016/680, secondo l’anzidetta interpretazione datane dalla Corte di giustizia, non prevede un obbligo chiaro, preciso e incondizionato, necessario affinché le si possa riconoscere effetto diretto nell’ordinamento interno (vds. per questo aspetto, tra altre, Corte cost., sentenza 8 febbraio 2022, n. 67, e, ancor prima, sentenza 8 aprile 1991, n. 168, che richiama la giurisprudenza già allora consolidata della stessa Corte di giustizia, secondo la quale la diretta applicabilità, in tutto od in parte, de prescrizioni delle direttive comunitarie non discende unicamente dalla qualificazione formale dell’atto fonte, ma richiede ulteriormente che la prescrizione
sia incondizionata, sì da non lasciare margine di discrezionalità agli Stati membri nella loro attuazione, e sufficientemente precisa, nel senso che la fattispecie astratta ivi prevista ed il contenuto del precetto ad essa applicabile devono essere determinati con compiutezza, in tutti i loro elementi). Nello specifico, invece, non contenendo l’indispensabile disciplina di dettaglio per la procedura di acquisizione dei dati in questione, l’eventuale applicazione diretta della direttiva verrebbe a creare piuttosto un vuoto normativo.
Ma, a ben vedere, una disapplicazione della disciplina di rito non è possibile, anche perché non sarebbe necessaria.
Il testo della direttiva 2016/680, interpretato nei termini dianzi riportati dall Corte di giustizia dell’Unione, è stato infatti trasfuso, tal quale, nel d.lgs. 18 maggio 2018, n. 51, sicché si tratterebbe, semmai, di comporre il quadro normativo interno, investendone la Corte costituzionale, qualora ciò non fosse possibile in via interpretativa.
Ma, com’è noto, il primo presupposto del sindacato di costituzionalità di una data norma è rappresentato dalla decisività della relativa verifica ai fini della risoluzione della controversia pendente dinanzi al giudice a quo.
Decisività, invece, che, nel caso specifico, non si ravvisa, per una serie di motivi.
6.1. In primo luogo, infatti, il ricorso neppure accenna alle ragioni per cui dovrebbe escludersi che, nel concreto, si versasse in uno di quei «casi di urgenza debitamente comprovati», nei quali la stessa Corte di giustizia ammette la possibilità di un controllo successivo, purché in tempi brevi, da parte del giudice: controllo che – come si dirà tra breve – è intervenuto.
Sotto questo aspetto, dunque, il motivo di ricorso si presenta aspecifico.
6.2. Per altro verso, poi, la difesa non ha compiutamente illustrato quale pregiudizio avrebbe ritratto l’indagato per effetto del censurato decreto del Pubblico ministero.
Si tenga presente che, come stabilito dalla stessa Corte di Giustizia, con sentenza del 20 aprile 2024 in causa C-670/22, relativa alla nota “vicenda RAGIONE_SOCIALE“, una regola di divieto probatorio non può derivare direttamente dalle disposizioni dell’Unione, spettando «in linea di principio, unicamente al diritto nazionale determinare le norme relative all’ammissibilità e alla valutazione, nell’ambito di un procedimento penale, di informazioni e di elementi di prova che sono stati ottenuti con modalità contrarie al diritto dell’Unione» (si richiama, in ta senso, anche la sentenza del 6 ottobre 2020, RAGIONE_SOCIALE, C-511/18, C512/18 e C-520/18).
Poiché, allora, nel nostro ordinamento processuale penale, l’inutilizzabilità di un dato elemento di prova è determinata solamente dalla violazione di uno specifico divieto normativo (art. 191, cod. proc. pen.), essa deve escludersi qualora l’acquisizione di tale elemento da parte del Pubblico ministero sia avvenuta senza la necessaria autorizzazione preventiva del giudice. Si verterebbe, semmai, in questo caso, in un’ipotesi di nullità dell’atto, per violazione delle garanzie difensive, per essere stato precluso all’indagato di svolgere un’efficace difesa (in questo senso, ad esempio, la già citata sentenza “Encrochat”).
Ma un tale vizio dell’atto, in tanto può ravvisarsi, in quanto l’indagato si sia trovato in concreto nell’impossibilità di svolgere adeguate difese: e, anche sotto questo profilo, il ricorso sostanzialmente nulla adduce.
Anzi, va osservato come il ricorrente abbia potuto ottenere, attraverso il giudizio di riesame, un controllo dell’operato del Pubblico ministero da parte di un giudice, successivo, è vero, ma in tempi decisamente ristretti e di piena cognizione, essendo nel potere del Tribunale annullare o riformare il provvedimento impugnato, in senso favorevole all’indagato, anche per ragioni diverse da quelle da lui dedotte con la relativa istanza (artt. 309, comma 9, e 324, comma 7, cod. proc. pen.; in questi termini, Sez. 6, n. 13585 del 01/04/2025, Campanile, non mass.).
Ma non solo.
Si apprende dall’ordinanza impugnata che il Pubblico ministero non ha estratto alcun dato personale dell’indagato dai dispositivi elettronici sequestrati e che, dopo aver disposto che tale attività avvenisse nel contraddittorio della difesa, secondo la procedura di cui all’art. 360, cod. proc. pen., preso atto delle riserve d’incidente probatorio avanzate dalle difese di alcuni indagati, ha avanzato al Giudice per le indagini preliminari richiesta di procedere nelle forme dell’incidente probatorio. Risulta, perciò, di solare evidenza che, in tal modo, ai fini dell’accesso ai propri dati personali da parte delle autorità statali nazionali competenti ed a tutela dei propri diritti fondamentali alla protezione degli stessi ed al rispetto della propria vita privata, l’indagato, di fatto, ha finito per godere di una garanzia ulteriore ed ancor più penetrante rispetto a quella richiesta dal diritto dell’Unione, trattandosi di attività che verrà svolta non soltanto sotto il controllo di un giudice, ma anche nel contraddittorio con la difesa.
Ne discende che, in concreto, nessuna lesione del diritto di difesa può ravvisarsi e, di conseguenza, nessuna invalidità del provvedimento di sequestro.
7. Non più di un cenno, infine, e solo per completezza, merita la censura difensiva riguardante la configurabilità dei reati e la riferibilità di essi al ricorre Essa è inammissibile, per più d’una ragione.
Anzitutto è tale, in quanto rassegnata soltanto con la memoria conclusiva di replica e non con il ricorso.
In secondo luogo, perché è proposta per motivi non consentiti, deducendosi errori di valutazione del materiale probatorio o, al più, vizi della motivazione, in
una materia – come quella dei sequestri – nella quale il ricorso per cassazione è
ammesso soltanto per violazione di legge (art. 325, cod. proc. pen.). Si tratta, invero, di doglianze che riguardano essenzialmente il coinvolgimento del ricorrente
nei fatti di reato per cui si procede, laddove il sequestro può attingere beni anche non appartenenti ad indagati e, dunque, a maggior ragione, a soggetti indagati
ancorché, in ipotesi, non attinti da un quadro di gravità indiziaria, purché
l’apprensione della res
sia giustificata da concrete esigenze investigative non altrimenti tutelabili e che qui sono indiscutibili, visti gli assidui ed opachi conta
del ricorrente con gli altri indagati, compiutamente illustrati nell’ordinanza.
8. In conclusione, il ricorso dev’essere respinto, dovendo perciò l’indagato farsi carico delle relative spese (art. 616, cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 2 aprile 2025.