Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 33844 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 33844 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Locri (RC) il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 10/03/2025 del Tribunale di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO generale NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME è indagato per vari episodi di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319, cod. pen.), perché, nella sua qualità di dipendente in servizio presso l’ufficio dell’Ambasciata italiana a Dhaka, in Bangladesh, competente per il rilascio dei visti d’ingresso in Italia, tra il 2021 ed il 2023 avrebbe ricevuto denaro ed altre utilità dal coindagato NOME COGNOME nonché da altri cittadini bengalesi rimasti non identificati, al fine di seguire, accelerare e favorire le pratiche di rilascio dei visti in favore di costoro e di altri loro connazionali segnalatigli da NOME (capi 2 e 2-bis dell’incolpazione provvisoria).
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, con ordinanza dello scorso gennaio, gli ha applicato gli arresti domiciliari.
Il Tribunale di Roma, con l’ordinanza in epigrafe indicata, ha respinto la sua richiesta di riesame, confermando l’applicazione di tale misura cautelare.
Avverso quest’ultima decisione, egli ricorre con atto del proprio difensore, sulla base di sette motivi.
2.1. In primo luogo, pur formalmente evocandosi una violazione di legge penale e processuale, si censura sostanzialmente la motivazione con la quale il Tribunale ha confermato il giudizio di gravità indiziaria per gli episodi corruttivi con il coindagato NOME (capo 2).
Sarebbe emerso, infatti, che COGNOME non avesse le competenze dirette per il rilascio dei visti, ipotizzate nell’incolpazione, e che il funzionario responsabile del relativo ufficio, NOME COGNOME, agisse autonomamente, favorendo un corruttore diverso da NOME. Inoltre, il Tribunale ipotizza in alternativa un ruolo del COGNOME di intermediario tra corruttore e funzionario competente, che però non trova alcuna conferma e, semmai, è smentito da quanto riferito da COGNOME all’ambasciatore, e successivamente da quest’ultimo agli inquirenti, ovvero che COGNOME si limitasse a chiedere informazioni sullo stato di alcune pratiche.
Ed ancora: l’ordinanza impugnata afferma che quest’ultimo poteva influire, più che sul rilascio del visto, atto sostanzialmente dovuto una volta ottenuto il nulla osta della Prefettura, sui relativi tempi, dando precedenza all’inserimento delle relative pratiche nel sistema. Tuttavia – obietta la difesa – tale condotta non soltanto è diversa da quella oggetto d’incolpazione, ma comunque non risulta dimostrata, pur essendo agevole verificare documentalmente l’eventuale alterazione del dato cronologico. Inoltre, se – come dice il Tribunale – il rilascio del visto era un atto dovuto, non v’è ragione per cui NOME dovesse interessare a tal fine il funzionario COGNOME od il parlamentare COGNOME (dalla cui denuncia è nata l’indagine), essendo sufficiente far pressione sugli impiegati bengalesi dell’ambasciata addetti all’ufficio, per ottenere una più rapida definizione delle relative pratiche.
In definitiva, l’ordinanza si rivela intrinsecamente contraddittoria, poiché ipotizza, peraltro in termini di mera probabilità, due scenari contrastanti: vale a dire che COGNOME fosse complice di COGNOME nel rilascio dei visti; oppure che agisse in proprio, limitandosi ad alterare i dati d’inserimento delle richieste provenienti dalla Prefettura (entrambi, peraltro, in contrasto con l’ipotesi accusatoria originaria).
2.2. Con il secondo motivo, le doglianze difensive si appuntano sui fatti di cui al capo 2-bis) dell’incolpazione, censurando in particolare l’attendibilità attribuita
dal Tribunale alle dichiarazioni del deputato COGNOME, le cui incongruenze sono state liquidate genericamente come marginali e dovute semplicemente a difetti di comprensione nei colloqui da lui intrattenuti con NOME, quando invece tali non sarebbero, alla luce dei plurimi rilievi rassegnati dalla difesa in sede di riesame (e riproposti con il presente ricorso) e della probabile strumentalizzazione della vicenda: da parte di NOME, per accreditarsi presso COGNOME; ma anche da parte di quest’ultimo, per guadagnare credibilità all’interno del suo partito e presso l’elettorato.
Venuta meno, quindi, la rilevanza probatoria di tali dichiarazioni, ritenute dal Tribunale da sole sufficienti a sorreggere l’accusa, il quadro di gravità indiziaria si dissolverebbe, assumendo diverso significato anche i dialoghi ed i messaggi scambiati da COGNOME con il collega e coindagato COGNOME ed emergendo dagli atti solo un generico interessamento del primo sullo stato di alcune pratiche.
2.3. Con il terzo motivo si deduce l’inutilizzabilità dei messaggi tramite l’applicativo “whatsapp”, sequestrati dagli inquirenti e valorizzati ai fini del quadro indiziario, per violazione dell’art. 15, Cost., dell’art. 8, CEDU, e dell’art. 254, cod. proc. pen..
Tali messaggi – si deduce – costituiscono corrispondenza e, pertanto, avrebbero potuto essere sequestrati solo in forza di un decreto del pubblico ministero o di un provvedimento del giudice, specificamente motivati anche con riferimento alla necessità di acquisire tali comunicazioni, in pregiudizio di un diritto di libertà oggetto di protezione costituzionale. Il decreto di perquisizione e sequestro emesso, nel procedimento in esame, dal Pubblico ministero non sarebbe sufficiente, facendo esso riferimento al solo art. 252, cod. proc. pen., e non anche al successivo art. 254, e non menzionando tali specie di messaggi ma soltanto “missive” e “mails”, dovendo perciò intendersi limitato, in assenza dell’anzidetta motivazione specifica, a quel tipo di comunicazioni ormai divenute documento storico, secondo la distinzione operata dalla sentenza n. 170 del 2023 della Corte costituzionale.
Quindi, anche per effetto dell’inutilizzabilità di tale materiale probatorio, il quadro di gravità indiziaria verrebbe meno.
2.4. Il quarto motivo denuncia l’inutilizzabilità dei files audio-video delle registrazioni dei colloqui intrattenuti dall’on. COGNOME con COGNOME e COGNOME, per non essere stato versato in atti il relativo supporto informatico originale, ma soltanto una copia formata dallo stesso parlamentare senza il rispetto dei requisiti di integrità, autenticità ed immodificabilità imposti dal codice dell’amministrazione digitale. Peraltro – sostiene la difesa – la necessità di disporre del supporto originale, nel caso specifico, è resa ancor più manifesta dalle numerose incongruenze delle dichiarazioni del COGNOME, dal suo comportamento durante
le indagini e da vari altri aspetti formali, oltre che di tipo logico, già segnalati al Tribunale del riesame e riproposti in ricorso, non avendoli quei giudici specificamente confutati.
2.5. Il quinto motivo di ricorso denuncia l’inutilizzabilità dei predetti files audio-video anche per violazione dell’art. 68, Cost., trattandosi di intercettazioni di un parlamentare compiute senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza.
Tale disposizione – si argomenta – ha riguardo alle intercettazioni compiute “in qualsiasi forma”, quindi anche a quelle tra presenti, dei quali uno registri all’insaputa degli altri.
2.6. Sempre quei files sarebbero inutilizzabili, inoltre, per la violazione dell’art. 9, legge n. 146 del 2006, per avere l’AVV_NOTAIO COGNOME agito quale agente provocatore al di fuori dei limiti di tale disposizione, avendo egli preso l’iniziativa di sollecitare NOME, essendosi mostrato disponibile a mediare con il funzionario COGNOME e così istigando ulteriormente il tentativo compiuto da NOME in occasione del loro primo incontro.
Sul punto, nulla dice l’ordinanza, quando è proprio nella relativa registrazione che emergerebbero gli indizi valorizzati a carico di COGNOME.
2.7. L’ultima doglianza attiene al profilo delle esigenze cautelari.
Quanto al pericolo di compromissione della prova, evidenzia il ricorso che i fatti risalgono al 2023, che è stato emesso decreto di giudizio immediato e che la motivazione si risolve in semplici clausole di stile.
Riguardo al pericolo di reiterazione criminosa, il Tribunale ha fondato la valutazione negativa della personalità dell’imputato esclusivamente sulle modalità della sua condotta, trascurando che si tratta di soggetto ultracinquantenne ed incensurato e non indicando alcun elemento per ritenere che, presentandosene l’occasione, egli possa tornare a compiere reati analoghi.
Infine, il Tribunale ha omesso di motivare sul pericolo di fuga, sostenendo che sia sufficiente la ricorrenza anche di una sola delle esigenze cautelari tipiche. Invece – obietta la difesa – tale lacuna motivazionale è rilevante, perché, per le precedenti osservazioni, le altre esigenze cautelari non sarebbero ravvisabili, ma anche perché l’idoneità e la proporzionalità della misura adottata vanno valutate anche in relazione al numero ed alla gravità delle esigenze cautelari. E, che non ricorra alcun pericolo di fuga, sarebbe dimostrato dal fatto che COGNOME risiede a Roma, che non ha venduto la sua casa, che i suoi figli e sua moglie studiano e lavorano in Italia e che non ha mai manifestato l’intenzione di allontanarsi da qui.
Il difensore ha depositato un motivo nuovo, richiamando quanto di recente statuito da Sez. 6, n. 13585 del 01/04/2025, Campanile, Rv. 287867, ovvero che
l’accesso ai dati contenuti in un dispositivo informatico a fini di indagine penale richiede, secondo la Direttiva UE 2016/680, come interpretata dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre 2024, in causa C-548/21, il controllo preventivo di un giudice o di un organo amministrativo indipendente: i quali, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, devono essere terzi rispetto all’organo richiedente l’accesso, con l’effetto che tale funzione non può essere esercitata dal Pubblico ministero, avendo lo stesso, a prescindere dal suo statuto di autonomia, natura di parte processuale.
Nello specifico, invece, un provvedimento del giudice manca, né potrebbe reputarsi soddisfacente – come invece prospetta tale decisione in via alternativa il controllo successivo operato dal Tribunale del riesame, richiedendo la Corte di giustizia che detta verifica sia preventiva. Inoltre, nel caso di specie, il Tribunale del riesame, per le ragioni esplicitate in ricorso, avrebbe di fatto omesso il dovuto controllo di legittimità sull’operato del Pubblico ministero.
Ha depositato requisitoria scritta il AVV_NOTAIO generale, chiedendo di rigettare il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Nessuno dei motivi di ricorso merita accoglimento.
Il primo, in tema di gravità indiziaria per il delitto di cui al capo 2), relativo ai rapporti intrattenuti dal ricorrente con NOME COGNOME, è per lo meno infondato.
Si vuole sostenere, in estrema sintesi, che COGNOME non avesse competenze nel procedimento per il rilascio dei visti, non costituendo, perciò, quest’ultimo un atto del suo ufficio, come invece richiede l’art. 319, cod. pen.; e che, inoltre, il suo ruolo d’intermediario presso altri funzionari dell’ufficio competente non troverebbe riscontro probatorio.
Si tratta, però, di deduzioni che s’infrangono contro un quadro probatorio – a cominciare dalle affermazioni autoaccusatorie rese da COGNOME e dallo stesso ricorrente nel corso di conversazioni intercettate o registrate a loro insaputa illustrato nel suo complesso dal Tribunale diffusamente e senza evidenti incongruenze logiche, dal quale emerge nitidamente come il ricorrente, al di là delle mansioni specifiche a lui assegnate, avesse in concreto la possibilità di ingerirsi agevolmente nella trattazione delle pratiche dell’ufficio. Va considerato, peraltro, che l’addebito riguarda delitti che egli avrebbe commesso in concorso con altri funzionari e che, perciò, il requisito normativo della possibilità per il pubblico funzionario d’ingerirsi, anche soltanto di fatto, nella relativa attività d’ufficio (vds.,
tra le tante, Sez. 6, n. 1245 del 08/06/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285886; Sez. 6, n. 17973 del 22/01/2019, COGNOME, Rv. 275935; Sez. 6, n. 23355 del 26/02/2016, D., Rv. 267060) dev’essere valutato in relazione anche alle competenze dei concorrenti, con l’effetto che, nel caso specifico, la pertinenza dell’attività di rilascio dei visti all’ufficio in cui COGNOME ed i suoi coindagati vario titolo operavano si presenta indiscutibile.
Anche quella, poi, dell’asserita diversità della condotta ricostruita dal Tribunale rispetto a quella ipotizzata nella richiesta cautelare costituisce censura priva di fondamento, in fatto ed in diritto.
Anzitutto, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configurino un’incertezza sull’oggetto dell’addebito ed un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205619): e, in ragione della dimensione concorsuale del reato, tale diversità, nel caso specifico, non è affatto ravvisabile.
Ma, ancor prima, sotto un profilo strettamente procedurale, versandosi ancora nella fase investigativa, non si è in presenza di una formale imputazione, ragione per cui l’addebito si presenta fisiologicamente fluido ed il dato di riferimento per la difesa, al di là della descrizione del fatto contenuta o meno in un determinato capo d’incolpazione, è rappresentato esclusivamente dalle risultanze investigative poste a fondamento della misura, così come evidenziate nell’ordinanza .
Il secondo motivo di ricorso, relativo ai reati che COGNOME avrebbe commesso in favore di cittadini bengalesi diversi da COGNOME (capo 2-bis dell’incolpazione), è del tutto inammissibile.
Esso attinge esclusivamente la valutazione della prova compiuta dal Tribunale (segnatamente, delle dichiarazioni del deputato COGNOME), che tuttavia non può interessare il giudice di legittimità. Inoltre, la censura si rivela puramente reiterativa di quella rassegnata in sede di riesame, poiché non si misura (7 ‘
criticamente con le argomentazioni utilizzate dal Tribunale per disattenderla, ritenendo attendibili le dichiarazioni del COGNOME (pagg. 16-18, ord.).
Anche il terzo motivo – in tema d’inutilizzabilità dei messaggi “whatsapp”, perché non specificamente indicati nel decreto di perquisizione e sequestro, nel quale è richiamato l’art. 252, cod. proc. pen., e non il successivo art. 254 – si limita a replicare la corrispondente doglianza formulata con la richiesta di riesame e, comunque, è privo di fondamento giuridico.
L’ordinanza impugnata spiega razionalmente come il decreto di perquisizione e sequestro emesso dal Pubblico ministero, avendo espressamente menzionato “missive” e “mails”, intendesse riferirsi a qualsiasi forma di corrispondenza, anche di natura digitale, non emergendo dal provvedimento, neppure implicitamente, alcuna ragione plausibile per escludere dal relativo ambito forme comunicative diversamente denominate, ma comunque rientranti nel genus della “corrispondenza”, secondo la definizione che ne dà lo stesso legislatore penale all’art. 616, cod. pen., ricomprendendovi «quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica, ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza».
In questo senso, del resto, soccorre la stessa sentenza n. 170 del 2023 della Corte costituzionale, su cui il ricorrente fonda la propria doglianza, nella cui motivazione è detto esplicitamente che lo scambio di messaggi elettronici email, sms, whatsapp e simili – rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15, Cost., dal momento che «quello di “corrispondenza” è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», a prescindere «dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero». Pertanto – prosegue la Corte costituzionale – «posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione whatsapp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi» e costituendo «versioni contemporanee della corrispondenza epistolare e telegrafica». E, ad ulteriore conforto, i giudici delle leggi richiamano anche la conforme giurisprudenza della Corte EDU, che senza incertezze riconduce sotto il cono di protezione dell’art. 8, CEDU, in cui pure si fa riferimento alla «corrispondenza» tout court, i messaggi di posta elettronica (Grande camera, sentenza 5 settembre 2017, Barbulescu c. Romania, 72; Sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, Copland c. Regno Unito, 41), gli sms (Sezione quinta, sentenza 17
dicembre 2020, NOME c. Norvegia, 48) e la nnessaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite Internet (Grande Camera, sentenza Barbulescu, cit., 74).
Così come rilevato dal Tribunale del riesame, dunque, il riferimento testuale operato dal Pubblico ministero, nel proprio decreto, al solo art. 252 e non anche all’art. 254, cod. proc. pen., specificamente riguardante la corrispondenza, costituisce un dato puramente formale e di nessuna rilevanza, una volta che come nessuno discute – siano state comunque rispettate le regole di acquisizione dell’elemento di prova.
5. Il quarto motivo di ricorso non è fondato.
Il mancato riversamento in atti della traccia audio-video originale della registrazione dei colloqui tra COGNOME, COGNOME e COGNOME non incide sull’utilizzabilità di tale dato probatorio, non risultando che il relativo documento sia stato formato od acquisito in violazione di specifiche disposizioni di legge. L’assenza del documento digitale originario potrebbe influire, semmai, sull’affidabilità di quello acquisito agli atti e, quindi, sulla relativa capacità dimostrativa, trattandosi, perciò, di questione sulla prova.
Tutto questo l’ordinanza impugnata lo spiega chiaramente, così come rileva che la difesa non adduce alcun elemento tale da poter dubitare della genuinità del documento sonoro versato in atti (vds. pagg. 8-10): ed il ricorso nulla replica.
Manifestamente infondato e, anche in questo caso, semplicemente reiterativo di quanto già dedotto al Tribunale del riesame è pure il quinto motivo di ricorso, relativo all’inutilizzabilità dei files audio-video delle conversazioni intrattenute dall’AVV_NOTAIO. COGNOME, per violazione dell’art. 68, Cost..
L’ordinanza impugnata, infatti, si diffonde ampiamente sul punto (pagg. 11 s.), spiegando adeguatamente, con puntuali e pertinenti richiami di giurisprudenza di legittimità, perché le registrazioni di conversazioni effettuate da quel deputato non costituiscano intercettazioni e perché, inoltre, la disciplina dell’art. 68, Cost., non possa trovare applicazione qualora – com’è avvenuto nello specifico – sia lo stesso parlamentare a registrare di nascosto i propri colloqui con terze persone.
Il sesto motivo, quello, cioè, dell’inutilizzabilità dei predetti files per avere COGNOME agito quale agente provocatore al di fuori dei limiti imposti dall’art. 9, legge n. 146 del 2006, è inammissibile.
In primo luogo, tale è perché non risulta proposto con la richiesta di riesame, in violazione del generale principio devolutivo delle impugnazioni, né è rappresentativo di una palese violazione di legge, occorrendo a tal fine una
ricostruzione dei fatti più specifica di quella che è dato evincere dall’ordinanza e dal ricorso e che, ovviamente, esula dalle competenze di questa Corte.
In ogni caso, il riferimento è del tutto eccentrico, perché il predetto art. 9 prevede una causa di giustificazione per gli operatori di polizia giudiziaria che, nell’esercizio dei loro compiti istituzionali ed al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ad un catalogo di delitti, tra cui quelli di corruzione, tengano condotte penalmente rilevanti o, comunque, immediatamente strumentali alla realizzazione di reati da parte di terzi. Nello specifico, invece, non solo COGNOME non rivestiva quella qualifica istituzionale, ma nessuno adduce, nemmeno la difesa ricorrente, che egli abbia commesso reati od abbia indotto COGNOME od NOME a commetterli, essendosi legittimamente limitato ad ottenere da costoro una conferma del loro precedente agire illecito e della loro disponibilità a farlo ancora.
Complessivamente infondato è pure l’ultimo motivo di ricorso, in punto di esigenze cautela ri.
La motivazione rassegnata dal Tribunale per questa parte (pagg. 19-25, ord.) è ampia ed evidenzia elementi indiscutibilmente sintomatici di perduranti pericoli di recidiva e di inquinamento probatorio, rilevando, in particolare, come tutti gli indagati siano ancora in servizio e come COGNOME ed il suo collega COGNOME abbiano continuato ad occuparsi delle pratiche dei bengalesi ed a mantenere contatti con NOME pur dopo che la vicenda era venuta a galla ed essi erano stati trasferiti uno in Turchia e l’altro a Dubai.
L’emissione del decreto di giudizio immediato, poi, è circostanza non rappresentata in sede di riesame, né il ricorso indica se essa sia intervenuta successivamente a quest’ultimo, potendo, tuttavia, in tal caso, essere fatta valere con un incidente cautelare ex art. 299, cod. proc. pen., in quanto fatto nuovo, ma non con il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di riesame.
Inammissibile, infine, perché manifestamente infondata e non sorretta da alcun interesse concreto per il ricorrente, è la deduzione riguardante l’omessa motivazione anche sul pericolo di fuga, non avendo egli motivo di dolersi di un aspetto per lui potenzialmente ed in astratto negativo, ma escluso nel caso specifico.
Inammissibile, da ultimo, è il motivo aggiunto, in tema di necessità del controllo preventivo di un giudice per l’accesso ai dati contenuti in un dispositivo informatico ai fini di un’indagine penale.
In primo luogo, infatti, tale censura risulta nuova ed eccentrica rispetto a quella d’inutilizzabilità dei messaggi “whatsapp” dedotta con il ricorso, prospettando una causa d’invalidità del medesimo dato probatorio ma per motivi
completamente differenti e, perciò, incontrando lo sbarramento previsto dall’art. 585, comma 4, cod. proc. pen..
In ogni caso, la doglianza è generica, poiché la difesa non spiega per quale ragione l’eventuale vizio dell’atto, con la conseguente esclusione dei risultati probatori in tesi invalidi od inutilizzabili, determinerebbe il venir meno del quadro di gravità indiziaria (c.d. “prova di resistenza”).
L’impugnazione, in conclusione, dev’esser respinta, con conseguente condanna del proponente a sopportarne le spese (art. 616, cod. proc. pen.).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 10 luglio 2025.