Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 19818 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
PRIMA SEZIONE PENALE
Penale Sent. Sez. 1 Num. 19818 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/02/2025
– Presidente –
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– Relatore –
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME Salvatore nato a Napoli il 29/03/1967 avverso l’ordinanza del 17/10/2024 del TRIB. LIBERTA’ di Napoli esaminati gli atti, letti il provvedimento e il ricorso; udita la relazione del Consigliere, NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha chiesto la declaratoria d’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Napoli, investito di richiesta di riesame ex art. 309 cod. proc. pen., con l’ordinanza in preambolo ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere, applicata dal Giudice per le indagini preliminari della stessa città, in data 3 ottobre 2024, nei confronti di NOME COGNOME in relazione al delitto di cui sequestro di persona a scopo di estorsione, aggravato ai sensi dell’art. 416-bis 1. cod. pen. dal metodo mafioso, in danno di NOME COGNOME, indicato al capo a) dell’incolpazione provvisoria.
Sulla scorta delle emergenze indiziarie – costituite dalla denuncia sporta da NOME COGNOME, padre della persona offesa NOME, dalle dichiarazioni di questi, di NOME COGNOME nonchØ dall’attività investigativa svolta in esito a detti ascolti – i Giudici della cautela hanno conformemente ricostruito il fatto nei termini indicati nell’imputazione e, segnatamente- per ciò che qui interessa – che l’indagato aveva partecipato (unitamente ad altri soggetti) al sequestro di NOME COGNOME (fatto altresì oggetto di violenta aggressione), per la cui liberazione era stata chiesta a suo padre NOME la somma di 375.000,00 euro.
La violenta aggressione si riteneva inserita nell’ambito di un oneroso e non onorato debito contratto da NOME COGNOME nei riguardi di NOME COGNOME rivendicato però in prima persona da NOME COGNOME quest’ultimo legato al clan di camorra COGNOME, che aveva consentito al creditore “ufficiale” di non partecipare all’azione; di qui la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis 1. cod. pen., sotto il profilo dell’utilizzo del metodo mafioso.
Incontestata la ricostruzione dei fatti, il Tribunale del riesame ne ha confermata la qualificazione giuridica ai sensi dell’art. 630 cod. pen., aggravato ai sensi dell’art. 416-bis 1. cod. pen. dal metodo mafioso, dichiarando di aderire all’orientamento, reputato “maggioritario”, secondo cui «Integra il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenta privazione della libertà personale della parte offesa per un rilevante periodo di tempo al fine di ottenere la corresponsione di una somma di denaro quale prezzo della liberazione, tale condotta escludendo ogni ragionevole intento di far valere un presunto diritto» (Sez. 6, n. 43650 del 11/09/2019, Ganci, Rv. 277561 – 01). Detto orientamento Ł stato preferito rispetto a quello, ritenuto “minoritario”, secondo cui «Ł ben possibile che un sequestro di
persona finalizzato a ottenere in modi arbitrari la soddisfazione di una legittima pretesa economica possa qualificarsi ai sensi dell’art. 393 e 605 cod. pen.» e che «quanto al fatto che la violenza o minacciautilizzate per porre in essere il sequestro possano manifestarsi in termini di particolare intensità, tale profilo influisce sulle caratteristiche della condotta, ma non incide sulla connotazione di ingiustizia del profitto, indispensabile ai fini della configurazione dell’art. 630 cod. pen.» (Sez. 1, n. 47949 del 27/10/2016, K. Rv. 268379 – 01».
Quanto alle esigenze cautelari, il Tribunale del riesame ha ritenuto che le modalità e circostanze del fatto, ivi compresa l’evidente contiguità dell’indagato con ambienti di criminalità organizzata, ne denotassero la spiccata inclinazione al pericolo di recidiva e l’incapacità di autocontrollo, condividendo la scelta operata dal Giudice per le indagini preliminari in punto di adeguatezza della misura di massimo rigore ed escludendo di poter formulare una prognosi positiva del rispetto delle prescrizioni inerenti alle misure meno afflittive.
Avverso l’ordinanza ricorre per cassazione l’indagato, tramite il difensore NOME COGNOME sulla base di un unico, articolato motivo, con il quale denuncia la violazione degli artt. 630, 605 e 393 cod. pen. in punto di ritenuta qualificazione giuridica del fatto come sequestro di persona a scopo di estorsione.
Il ricorrente premette che Ł stata ritenuta accertata la legittimità della pretesa creditoria che l’indagato vantava nei confronti di NOME COGNOME che, difatti, in sede di denuncia ha ammesso che COGNOME, per il tramite di COGNOME, gli aveva corrisposto una cospicua somma di denaro da investire nell’attività di reseller e di autovetture, accumulando debiti a causa di mancate vendite.
Osserva, dunque, che la decisione del Tribunale del riesame si porrebbe in contrasto con i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia, erroneamente ritenendo che vi siano due indirizzi – l’uno minoritario, l’altro maggioritario – in punto di qualificazione giuridica della condotta di privazione della libertà personale finalizzata a ottenere il soddisfacimento di una pretesa economica, aderendo a quello ritenuto prevalente. Al contrario, il ricorrente – dopo aver richiamato l’univoca giurisprudenza di legittimità secondo cui quando il fine perseguito dalla gente, Ł di far valere una pretesa legittima, il reato di ragion fattasi si accompagna, in termini di concorso formale, al delitto di sequestro di persona, mentre quando il fine mira al conseguimento di una pretesa illegittima deve essere configurato il reato di sequestro di persona a fini di estorsione – rileva come, nel caso di specie, la condotta debba essere qualificata ai sensi degli artt. 605 e 393 cod. pen., poichØ la pretesa era assolutamente legittima e la restituzione del debito che la persona offesa aveva contratto nei confronti di COGNOME non era stata posta come sinallagma della liberazione; osserva, sul punto, che NOME COGNOME erastato liberato prima dell’adozione della somma di danaro che, peraltro, non Ł stata richiesta quale prezzo della liberazione.
A conforto di tale ultima affermazione, il ricorrente riproduce uno stralcio della denuncia di NOME COGNOME in cui sono riferite le minacce subite nel senso che in caso di mancata restituzione sarebbero stati uccisi lui, il figlio e tutta la sua famiglia, senza alcun riferimento alla richiesta di denaro come corrispettivo della liberazione.
Il Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME ha chiesto la declaratoria d’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso dev’essere dichiarato inammissibile per le ragioni che s’indicano di seguito.
Non Ł superfluo premettere che con il ricorso si contesta esclusivamente la qualificazione giuridica del fatto, ma non la sussistenza della circostanza aggravante ex art. 416-bis 1. cod. pen. e delle esigenze cautelari.
In fatto Ł, dunque, incontestato che – secondo quanto si legge nell’ordinanza – Pisco e i correi,
dopo avere portato NOME COGNOME all’interno dell’abitazione di NOME COGNOME e averlo privato degli effetti personali, l’hanno violentemente percosso; hanno, quindi, portato al suo cospetto il padre NOME, cui hanno intimato, con violenza fisica e minacce di morte, di procurare, nel giro di qualche ora, la somma necessaria per estinguere il debito contratto dal figlio, asseritamente ammontante a 375.000 euro. COGNOME Ł stato poi trasferito, sempre in stato di cattività, presso altro immobile in e, infine, condotto in un punto prossimo all’ospedale, ove Ł stato abbandonato.
Nell’intenzione degli agenti, la privazione della libertà personale di NOME COGNOME era funzionale a ottenere l’adempimento di un supposto credito, condizionandosi il rilascio del sequestrato al versamento della somma pretesa ed esercitandosi, a tal fine, pressioni minatorie a carico anche del padre della vittima e, mediatamente, degli altri suoi familiari.
Rebus sic stantibus, il ricorso Ł inammissibile poichØ ineccepibili appaiono le conclusioni raggiunte, in ordine alla qualificazione giuridica della condotta dell’indagato, dai Giudici della cautela, che hanno fatto corretta applicazione del principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nel suo consesso piø rappresentativo, ed evocato dallo stesso ricorrente, secondo cui «Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie» (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 – 02»), posto che il primo reato Ł caratterizzato dal dolo generico, mentre il secondo Ł connotato dal dolo specifico, ravvisabile nell’intento di ottenere un profitto, come prezzo della liberazione (Sez. 1, n. 14802 del 07/03/2012, COGNOME, Rv. 252264 – 01).
La tangibile ingiustizia del profitto al cui conseguimento l’iniziativa illecita di Prisco e dei suoi concorrenti era diretta emerge ove si consideri che la pretesa esercitata non avrebbe mai potuto ricevere tutela in sede giudiziaria, in quanto intesa ad ottenere il pagamento del debito da un soggetto, NOME COGNOME estraneo al sottostante rapporto contrattuale (in questo senso, cfr. Sez. 2, n. 16658 del 16/01/2014, COGNOME, Rv. 259555, e Sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, COGNOME, Rv. 264967, entrambe in fattispecie nelle quali era stata usata violenza in danno del padre del debitore, per costringerlo ad adempiere il debito del figlio). ¨, infatti, pacifico che non può discutersi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni qualora, come concretamente accaduto nella vicenda d’interesse, la minaccia sia stata esercitata in pregiudizio di un terzo, quale NOME COGNOME, estraneo al rapporto obbligatorio dal quale scaturisce la pretesa azionata, allo scopo di costringere il debitore ad adempiere, essendo, pertanto, «configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, quando a un’iniziale pretesa di adempimento di un credito effettuata con minaccia o violenza nei riguardi del debitore seguano ulteriori violenze e minacce di terzi estranei verso il nucleo familiare del debitore, sicchØ l’iniziale pretesa arbitraria si trasforma in richiesta estorsiva, sia a causa delle modalità e della diversità dei soggetti autori delle violenze, che per l’estraneità dei soggetti minacciati alla pretesa azionata» (Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, COGNOME, Rv. 172017 – 01; nello stesso senso, cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, COGNOME, Rv. 267123 – 01).
La pretesa qualificazione del fatto ai sensi degli artt. 393 e 605 cod. pen. Ł, d’altro canto, in radice preclusa, nel caso in esame, da una ulteriore e concorrente ragione, che si ricollega all’intervento di NOME COGNOME, autore delle piø efferate violenze fisiche in danno di NOME COGNOME e notorio esponente di una delle consorterie camorristiche insediate su quell’area, ed all’esplicita rivendicazione, da parte di COGNOME, della titolarità del credito (resa palese dalle frasi «Dove stanno i soldi miei ?» e («ora il debito ce l’hai con NOME COGNOME»), circostanze che attestano la correttezza dell’inquadramento del comportamento illecito in chiave francamente estorsiva e, quindi, della qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 630 cod. pen., che discende dalla già ricordata strumentalizzazione della privazione della libertà personale al conseguimento di un profitto ingiusto.
Pertinente, a questo riguardo, appare il richiamo all’indirizzo ermeneutico secondo cui «I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono riguardo all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. Ne consegue che integra gli estremi dell’estorsione aggravata dal cd. “metodo mafioso”, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali in danno dei prossimi congiunti del debitore, formulate da terzi estranei al rapporto obbligatorio, estrinsecantesi nell’evocazione dell’appartenenza di uno di essi ad una organizzazione malavitosa, in tal modo esercitando una forza intimidatoria estrema, indice del fine di procurare al creditore un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto, con corrispondente danno per il debitore, indotto ad accondiscendere passivamente alle avverse pretese senza avvalersi degli ordinari rimedi civilistici» (Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, COGNOME, Rv. 260344 01; il principio Ł stato, poscia, ribadito da Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264628 01).
Il ricorso Ł, però, inammissibile per un’ulteriore e assorbente ragione, ossia il difetto d’interesse del ricorrente.
Se, difatti, Ł ben vero che la diversa qualificazione giuridica del fatto – come art 630 cod. pen ovvero come 605 cod. pen. – Ł in astratto suscettibile di incidere sulla durata della misura cautelare relativamente ai termini di fase, tuttavia la presenza dell’incontestata aggravante determina l’applicazione dell’art. 407, comma 2 lett. a), cod. proc. pen.
Pertanto, l’eventuale accoglimento del ricorso, non produrrebbe alcun concreto effetto favorevole all’indagato, nØ sotto il profilo dell’an, nØ sotto quello del quomodo della misura cautelare (quest’ultimo neppure oggetto di ricorso).
Va qui, invero, ribadito il principio per cui Ł inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione contro un provvedimento de libertate non rivolto a contestare la sussistenza del quadro indiziario e delle esigenze cautelari, ma esclusivamente la qualificazione giuridica del fatto ovvero la configurabilità di determinate circostanze aggravanti, quando da tale diversa qualificazione giuridica ovvero dall’esistenza o meno di tali circostanze non dipenda, per l’assenza di ripercussioni sull’an o sulquomodo della cautela, la legittimità della disposta misura (Sez. 3, n. 6738 del 12/01/2023, NOME COGNOME, Rv. 284357 – 02; Sez. 6, n. 17527 del 22/02/2018, COGNOME, Rv. 272897 – 01; Sez. 3, n. 36731 del 17/04/2014, COGNOME, Rv. 26025601. Fattispecie in cui la Corte ha evidenziato che l’eventuale insussistenza delle aggravanti contestate non avrebbe comunque determinato una riduzione dei termini di durata massima delle misure cautelari).
Per tali ragioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – avuto riguardo alla sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, considerato che non vi Ł ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento della somma di euro 3.000,00, in favore della Cassa delle Ammende.
La cancelleria curerà gli adempimenti di cui all’art. 94 comma 1-ter disp. att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così Ł deciso, 27/02/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME