Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 20686 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 20686 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a NAPOLI il 26/04/1998
avverso l’ordinanza del 15/10/2024 del TRIB. RAGIONE_SOCIALE‘ di NAPOLI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG, COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, e quelle degli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME in difesa del ricorrente, che ne hanno, invece, chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 15 ottobre 2024 il Tribunale del riesame di Napoli, procedendo ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., ha confermato quella con cui il locale Giudice per le indagini preliminari ha applicato, tra gli altri, a NOME COGNOME la misura cautelare della custodia in carcere in relazione ai reati di sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato e lesioni personali pluriaggravate.
Il procedimento penale nell’ambito del quale sono stati emessi i menzionati provvedimenti attiene alla condotta illecita perpetrata da NOME, in concorso con altri soggetti, ai danni di NOME COGNOME, privato, tra il pomeriggio del 2 settembre 2024 e le prime ore del giorno seguente, della libertà personale e raggiunto, nella medesima circostanza, da colpi inferti con mazze da baseball ed una piccola mazza, che gli hanno cagionato lesioni al capo, agli arti, ad entrambe le mani ed al ginocchio sinistro.
Tale iniziativa criminosa ha tratto origine dal debito maturato da COGNOME nei confronti di NOME COGNOME insieme al quale aveva avviato un’attività commerciale, in vista della cui esazione COGNOME, spalleggiato dai correi, ha posto in essere il sequestro di persona per coinvolgere, quindi, il padre della vittima, pure sottoposto a vessazioni, minacce e percosse, finalizzate ad ottenere il versamento dell’ingente somma della quale COGNOME ed i complici sostenevano di essere creditori.
Giudice per le indagini preliminari e Tribunale del riesame hanno concordemente qualificato il principale fatto oggetto di addebito ai sensi dell’art. 630 cod. pen., aggravato perché compiuto con metodo mafioso, e, ritenuta l’insussistenza di elementi atti a superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere ed apprezzando, anzi, la, presenza, in positivo, di un elevato e concreto rischio di recidiva, hanno stimato necessaria l’applicazione della misura di massimo rigore.
NOME COGNOME propone, con il ministero degli avv.ti NOME COGNOME ed NOME COGNOME ricorso per cassazione affidato a tre motivi, con il primo dei qual deduce violazione di legge con riferimento alla qualificazione del fatto ascrittogli al capo a) della provvisoria imputazione, che egli ritiene integrare i reati previsti dagli artt. 605 e 393 cod. pen. anziché quello di sequestro di persona a scopo di estorsione.
Sottolinea, al riguardo, che, secondo il preferibile indirizzo ermeneutico, «Il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione si distingue da quello
di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, posto in essere in concorso con il sequestro di persona, non già in base alla intensità della violenza o della minaccia che connota la condotta, bensì in ragione del fine perseguito dal suo autore che, nel primo caso, è volta al conseguimento di un profitto ingiusto, e, nell’altro, alla realizzazione, con modi arbitrari, di una pretes giuridicamente azionabile» (così, tra le altre, Sez. 6, n. 58087 del 13/09/2017, COGNOME, Rv. 271963 – 01).
Il richiamato canone ermeneutico imporrebbe, a giudizio del ricorrente, la qualificazione del fatto in termini di esercizio arbitrario delle proprie ragioni co violenza alla persona, in concorso con il delitto di sequestro di persona «semplice», in considerazione della legittimità della pretesa azionata da Madonna, sia pure con metodi non consentiti, che egli avrebbe potuto senz’altro tutelare anche rivolgendosi, al pari di qualunque altro creditore, all’autorità giudiziaria.
Con il secondo motivo, il ricorrente si duole, nell’ottica del vizio di motivazione, delle conclusioni raggiunte, in ordine all’impiego, nella vicenda in esame, del c.d. «metodo mafioso», dai giudici della cautela, i quali hanno illogicamente esaltato, a tal fine, l’intervento di NOME COGNOME che, tuttavia, colloca, a suo modo di vedere, in un frangente distinto e successivo rispetto a quello in cui NOME ha condotto NOME COGNOME in un immobile, così elidendone la libertà di movimento e determinazione, in un contesto scevro, in origine, da qualsivoglia accento anche latamente evocativo del crimine organizzato.
Rileva, in proposito, che la vittima, nel momento in cui egli, già suo amico e socio, la aveva condotta presso quell’abitazione e la aveva ivi coattivamente trattenuta, era convinta di dover fronteggiare un fatto delittuoso opera di comuni delinquenti, per poi aggiungere che il subentro di NOME COGNOME, accompagnato dall’eloquente affermazione («ora il debito ce l’hai con NOME COGNOME») dell’interessamento nella vicenda di soggetto di nota caratura mafiosa, perché militante nella clan COGNOME, non è sufficiente ad accreditare, sul piano indiziario, la sussistenza dell’aggravante, dovendosi considerare, vieppiù, l’assenza di prova in ordine alla provenienza da COGNOME eo dalla consorteria di appartenenza della somma investita da NOME il quale, invece, aveva a tale scopo destinato gli introiti dell’attività imprenditoriale che egli svolge insieme alla madre.
Con il terzo ed ultimo motivo, Madonna eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta necessità di applicare e mantenere, a suo carico, la misura di massimo rigore, contraddetta da elementi – quali la pregressa incensuratezza e l’atteggiamento di piena e leale collaborazione tenuto già dall’interrogatorio di garanzia – che rendono senz’altro adeguati e proporzionati gli arresti domiciliari, se del caso assistiti da strumenti elettronici
contro
llo, in quanto idonei a prevenire sia il pericolo di reiterazione della condotta criminosa che quelli di fuga o di inquinamento probatorio.
Disposta la trattazione scritta, il Procuratore generale ha chiesto, il 10 febbraio 2025, dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, mentre il ricorrente, con atto del 21 febbraio 2025, ha insistito per l’accoglimento dei motivi di impugnazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel complesso, infondato e, pertanto, passibile di rigetto.
Preliminarmente, è opportuno ricordare che, in tema di misure cautelari personali, il giudizio di legittimità relativo alla verifica di sussistenza o meno de gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari deve riscontrare, nei limiti della devoluzione, la violazione di specifiche norme di legge o la mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato: in particolare, il controllo di legittimità non può intervenire nella ricostruzione dei fatti, né sostituire l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza dei dati probatori.
Di conseguenza, non possono ritenersi ammissibili le censure che, pur formalmente investendo la motivazione, si risolvono, in realtà, nella sollecitazione a compiere una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito: ove sia, dunque, denunciato il vizio di motivazione del provvedimento cautelare in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, la Corte di legittimità deve controllare essenzialmente se il giudice di merito abbia dato adeguato conto delle ragioni che l’hanno convinto della sussistenza della gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato e verificare la congruenza della motivazione riguardante lo scrutinio degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che devono governare il vaglio delle risultanze probatorie (sull’argomento, cfr. Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, COGNOME, Rv. 215828; Sez. 1, n. 50466 del 15/06/2017, COGNOME, non massimata; Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, COGNOME, Rv. 255460).
Nel caso di specie, il Tribunale del riesame ha debitamente illustrato, con motivazione completa ed esaustiva, le ragioni che lo hanno indotto, da un canto, a qualificare il fatto descritto al capo a) dell’imputazione provvisoria ai sensi dell’art. 630 cod. pen. e, dall’altro, a stimare, in accordo con il Giudice per l
indagini preliminari, la sussistenza, nella sua declinazione oggettiva, dell’aggravante ex art. 416-bis.1 cod. pen..
Sotto il primo profilo, il Tribunale del riesame ha esposto, in termini che, dal punto di vista fattuale, non sono contestati, che NOME ed i correi, dopo avere portato NOME COGNOME all’interno dell’abitazione di NOME COGNOME ed averlo privato degli effetti personali e violentemente percosso, hanno portato al suo cospetto il padre NOME, al quale hanno intimato, con violenza fisica e minacce di morte, di procurare, nel giro di qualche ora (e, precisamente, entro le 23:00 di quella sera), la somma necessaria per estinguere il debito contratto dal figlio, asseritamente ammontante a 375.000 euro.
Successivamente, stando a quanto riportato nell’ordinanza impugnata, NOME COGNOME è stato trasferito, sempre in stato di cattività, presso altro immobile in Castelvolturno e, infine, condotto in un punto prossimo all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli, ove è stato abbandonato.
Consegue alla superiore esposizione che, nell’intenzione degli agenti, la privazione della libertà personale di NOME COGNOME era funzionale ad ottenere l’adempimento di un supposto credito, condizionandosi il rilascio del sequestrato al versamento della somma pretesa ed esercitandosi, a tal fine, pressioni minatorie a carico anche del padre della vittima e, mediatamente, degli altri suoi familiari.
Rebus sic stantibus, ineccepibili appaiono le conclusioni raggiunte, in ordine alla qualificazione giuridica della condotta di NOME COGNOME dai giudici della cautela, che hanno fatto corretta applicazione del principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nel suo consesso più rappresentativo, ed evocato dallo stesso ricorrente, secondo cui «Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie» (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 – 02»), posto che il primo reato è caratterizzato dal dolo generico, mentre il secondo è connotato dal dolo specifico, ravvisabile nell’intento di ottenere un profitto, come prezzo della liberazione (Sez. 1, n. 14802 del 07/03/2012, COGNOME, Rv. 252264 01).
A fronte dell’obiezione del ricorrente, secondo cui l’azione criminosa realizzata con il suo concorso era diretta al mero conseguimento di un obiettivo lecito, quale l’adempimento dell’obbligazione che NOME COGNOME aveva spontaneamente assunto nei suoi confronti, occorre ribadire, in fatto, che i malviventi furono chiari nel condizionare la liberazione del sequestrato, medio tempore condotto con la forza in un luogo sconosciuto al padre, al versamento di quanto preteso: nitido si palesa, sul punto, il racconto di NOME COGNOME laddove ricorda (cfr. pag. 11 dell’ordinanza impugnata), che i malviventi intimarono al padre di procurarsi,
entro poche ore, la provvista occorrente per estinguere il debito promettendogli che, dopo il pagamento, gli avrebbero restituito la libertà.
In diritto, va rilevato, in ossequio a consolidato e condiviso indirizzo ermeneutico, che «Integra il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenta privazione della libertà personale della parte offesa per un rilevante periodo di tempo al fine di ottenere la corresponsione di una somma di denaro quale prezzo della liberazione, tale condotta escludendo ogni ragionevole intento di far valere un presunto diritto» (Sez. 6, n. 43650 del 11/09/2019, COGNOME, Rv. 277561 – 01; Sez. 6, n. 47533 del 14/11/2013, COGNOME, Rv. 257391 – 01; Sez. 1, n. 14802 del 07/03/2012, Sulger, Rv. 252263 – 01).
Coglie dunque nel segno, in proposito, il Tribunale del riesame laddove segnala che «nel sequestro di persona a scopo di estorsione, la richiesta di pagamento di una somma di denaro – indipendentemente dalla natura legittima della sua pretesa – diviene ingiusta sol perché costituisce l’unica condizione alla quale è subordinata la liberazione di un soggetto privato della libertà personale per un periodo di tempo giuridicamente rilevante, con la conseguenza che il “profitto” deve ritenersi “ingiusto”, in quanto costituisce il prezzo della liberazione del sequestrato», ed aggiunge che «in definitiva, è proprio la segnalata corrispettività tra prezzo e libertà a caratterizzare la figura delittuosa in esame, istituendo quel rapporto di ‘mercificazione’ della libertà personale intorno al quale ruota il modello dell’incriminazione».
La tangibile ingiustizia del profitto al cui conseguimento l’iniziativa illecita Madonna e dei suoi concorrenti era diretta emerge, altresì, ove si consideri che la pretesa esercitata non avrebbe mai potuto ricevere tutela in sede giudiziaria, in quanto intesa ad ottenere il pagamento del debito da un soggetto, NOME COGNOME estraneo al sottostante rapporto contrattuale (in questo senso, cfr. Sez. 2, n. 16658 del 16/01/2014, COGNOME, Rv. 259555, e Sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, COGNOME, Rv. 264967, entrambe in fattispecie nelle quali era stata usata violenza in danno del padre del debitore, per costringerlo ad adempiere il debito del figlio).
È, infatti, pacifico che non può discutersi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni qualora, come concretamente accaduto nella vicenda di interesse, la minaccia sia stata esercitata in pregiudizio di un terzo, quale NOME COGNOME estraneo al rapporto obbligatorio dal quale scaturisce la pretesa azionata, allo scopo di costringere il debitore ad adempiere, essendo, pertanto, «configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando ad un’iniziale pretesa di adempimento di un credito effettuata con minaccia o violenza nei riguardi del debitore seguano ulteriori violenze e minacce di terzi
estranei verso il nucleo familiare del debitore, sicché l’iniziale pretesa arbitraria s trasforma in richiesta estorsiva, sia a causa delle modalità e della diversità dei soggetti autori delle violenze, che per l’estraneità dei soggetti minacciati alla pretesa azionata» (Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, COGNOME, Rv. 172017 – 01; nello stesso senso, cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, COGNOME, Rv. 267123 – 01).
La pretesa qualificazione del fatto ai sensi degli artt. 393 e 605 cod. pen. è, d’altro canto, in radice preclusa, nel caso in esame, da una ulteriore e concorrente ragione, che si ricollega all’intervento di NOME COGNOME, autore delle più efferate violenze fisiche in danno di NOME COGNOME e notorio esponente di una delle consorterie camorristiche insediate su quell’area, ed all’esplicita rivendicazione, da parte di COGNOME, della titolarità del credito (resa palese dalle frasi «Dove stanno i soldi miei ?» e («ora il debito ce l’hai con NOME COGNOME»), circostanze che attestano la correttezza dell’inquadramento del comportamento illecito in chiave francamente estorsiva e, quindi, della qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 630 cod. pen., che discende dalla già ricordata strumentalizzazione della privazione della libertà personale al conseguimento di un profitto ingiusto.
Pertinente, a questo riguardo, appare il richiamo all’indirizzo ermeneutico secondo cui «I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. Ne consegue che integra gli estremi dell’estorsione aggravata dal cd. “metodo mafioso”, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali in danno dei prossimi congiunti del debitore, formulate da terzi estranei al rapporto obbligatorio, estrinsecantesi nell’evocazione dell’appartenenza di uno di essi ad una organizzazione malavitosa, in tal modo esercitando una forza intimidatoria estrema, indice del fine di procurare al creditore un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto, con corrispondente danno per il debitore, indotto ad accondiscendere passivamente alle avverse pretese senza avvalersi degli ordinari rimedi civilistici» (Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, COGNOME, Rv. 260344 – 01; il principio è stato, poscia, ribadito da Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264628 – 01).
Parimenti infondata è, come sopra anticipato, la censura vedent sull’applicazione dell’aggravante speciale prevista dall’ad. 416-bis.1 cod. nella sua declinazione oggettiva.
In proposito, il Tribunale del riesame, dopo aver delineato, attraverso ampio e pertinente riferimento alla produzione della giurisprudenza di legittimi le coordinate ermeneutiche di riferimento, ha rilevato che, nel caso in esa Madonna risulta essersi rivolto a COGNOME, fratello della madre della sua fidanz per ottenere la restituzione del credito vantato nei confronti di NOME COGNOME proprio in ragione della notoria appartenenza di COGNOME al clan COGNOME oltre che, plausibilmente, della provenienza, in tutto o in parte, da quel sodalizio del de investito nell’iniziativa economica intrapresa in sinergia con la vittima.
Egli, per tale via, si è reso autore, secondo la valutazione dei giudici cautela, di una condotta tipica della criminalità camorristica, adusa a convoc innanzi ad una persona «di rispetto» il debitore riluttante ad onorare l’imp assunto, costituito, nel caso concreto, dalla restituzione a Madonna di qua investito nell’affare non coronato da successo, onde non può dubitarsi de sussistenza, nella fattispecie, dell’aggravante contestata, nel suo ver metodologico.
Il Tribunale del riesame non ha mancato, del resto, di segnalare l’attitud evocativa dell’esistenza e dell’operatività di un sodalizio mafioso di ult elementi che connotano la vicenda, quali la convocazione del debitore in un specifico luogo sorvegliato da numerose persone con funzione di sorveglianza, la perquisizione del debitore, con prelievo degli effetti personali e, non ultima, sottoposizione ad un violento pestaggio.
Il ragionamento sviluppato dal Tribunale del riesame è senz’altro tetrago alle doglianze del ricorrente, che si appuntano sulla non immediata percezione, parte della vittima, della cointeressenza nella vicenda di NOME COGNOME e tuttavia, trovano smentita nelle parole di NOME COGNOME, pienamente riscont anche in ordine alla partecipazione protagonistica di COGNOME alle fasi sa dell’azione criminosa, da quelle di NOME COGNOME.
Deve, pertanto, essere disattesa – alla luce di quanto emerge dall’ordinanz impugnata – una ricostruzione dei fatti, quale quella propugnata dal ricorrent che li circoscrive nella cornice della diatriba tra i soci e delle pressioni essere da uno di loro, al di fuori di qualsivoglia condizionamento di na ambientale e dell’impiego del modus operandi proprio delle compagini ex art. 416bis cod. pen., circostanze delle quali COGNOME ha sicuramente avuto piena pressoché immediata contezza, come si evince, a tacer d’altro, dalle frasi ri al suo indirizzo dall’autorevole esponente camorristico il quale, onde evita
benché minimo fraintendimento sui ruoli assunto da ciascuno dei protagonisti, si è occupato in prima persona del violentissimo pestaggio del debitore.
Manifestamente infondato è, da ultimo, il motivo articolato in ricorso – e specificamente ripreso da Madonna nella memoria conclusiva – in tema di esigenze cautelari e scelta della misura.
Il Tribunale del riesame ha, invero, spiegato, con dovizia di argomenti (cfr. pagg. 20-21 dell’ordinanza impugnata), che le efferate modalità di commissione dei reati e la accertata contiguità di Madonna ad ambienti di criminalità organizzata sono sintomatiche di una propensione al delitto tanto elevata da rendere inadeguata la misura degli arresti domiciliari, pure se assistita da strumenti elettronici di controllo (atti a segnalare la trasgressione delle prescrizioni ma non anche ad inibirle, nella loro materialità), che esporrebbe la collettività al rischi che l’indagato, profittando della relativa libertà di movimento garantitagli dalla misura domiciliare, commetta ulteriori, gravi reati.
Tali considerazioni valgono a soddisfare l’esigenza, rimarcata, di recente, dalla giurisprudenza di legittimità, che il giudice della cautela profonda adeguato impegno, anche laddove si applichi la presunzione relativa di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere, nell’indicare le ragioni che lo inducono a ritenere inadeguata la misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico (Sez. 3, n. 12485 del 28/01/2025, COGNOME, Rv. 287813 – 03).
Le censure del ricorrente si rivelano, del pari, prive di pregio nella parte in cui egli imputa al Tribunale del riesame di avere indebitamente sottostimato l’incidenza, in ottica cautelare, dell’assenza di precedenti penali e del positivo atteggiamento serbato a seguito della sottoposizione a regime restrittivo, così trascurando che dalla vigenza, per il titolo di reato, della presunzione relativa di esclusiva adeguatezza della più rigorosa tra le misure coercitive discende l’onere, per chi vi sia sottoposto, di allegare circostanze dimostrative della concreta possibilità di salvaguardare le esigenze di cautela mediante l’applicazione di misura meno afflittiva, ciò che, nel caso di specie, il Tribunale del riesame ha motivatamente escluso.
Dal rigetto del ricorso discende la condanna di Madonna al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma
I- ter,
disp. att. cod. proc. pen..
Così deciso il 27/02/2025.