Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 36861 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 36861 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a MELZO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 28/02/2024 del TRIB. LIBERTA’ di MILANO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette/sentite le conclusioni del PG NOME COGNOME
udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con l’ordinanza di cui in epigrafe il tribunale di Milano, adito ex art. 310, c.p.p., ha dichiarato inammissibile l’appello proposto da COGNOME NOME sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, disposta in aggravamento dell’originaria misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria dalla corte di appello di Milano in data 5.2.2024, in quanto nelle more è divenuta irrevocabile, in data 6.2.2024, la sentenza con cui la corte di appello di Milano, in data 12.5.2023, aveva condannato il COGNOME alla pena di anni tre mesi sei di reclusione, in relazione ai reati di cui agli artt. 110, 624-bis, 625 co. 1, n.5 e 7; 110, 337; 110, 648, co. 2, c.p., sicché, ad avviso del giudice dell’impugnazione cautelare, essendo ormai il titolo custodiale costituito dalla sentenza irrevocabile, deve ritenersi preclusa la competenza funzionale del suddetto tribunale, limitata alla sola vicenda cautelare.
2. Avverso l’ordinanza del tribunale del riesame, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il COGNOME, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto, pendendo ancora i termini per la proposizione dell’appello cautelare, l’imputato era legittimato a impugnare il provvedimento di aggravamento, nonostante il passaggio in giudicato, sussistendo un suo preciso interesse al riguardo, in quanto, ove la suddetta impugnazione fosse stata accolta, sarebbe tornata in vita l’originaria misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, per poi venire meno proprio in virtù del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, trattandosi di misura diversa dalla custodia cautelare in carcere, avendo diritto il COGNOMECOGNOME dì conseguenza, ai sensi dell’art. 656, co. 5, c.p.p., anche in ragione del presofferto, pari a mesi sei e giorni quattrodici di reclusione, alla sospensione dell’esecuzione della pena, con la possibilità di chiedere la concessione di misure alternative al carcere.
I richiami giurisprudenziali del tribunale del riesame, rileva il ricorrente, non sono pertinenti, perché si riferiscono a casi in cui, in considerazione dell’entità delle condanne e della natura dei reati, i ricorrenti non
avrebbero mai potuto riacquistare la libertà ovvero chiedere l’applicazione di misure alternative.
Sotto altro profilo, osserva il COGNOME che con l’appello cautelare si contestavano vizi particolarmente gravi e peculiari del provvedimento impugnato, consistenti, da un lato, in una vistosa violazione del principio della domanda cautelare, in quanto la corte territoriale, a fronte di una richiesta del pubblico ministero di modifica delle modalità di esecuzione della misura cautelare in atto, trasformando l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria dell’imputato da bisettimanale, in quotidiano, aveva disposto de plano l’aggravamento della misura, in violazione della disciplina di cui all’art. 299, co. 4, c.p.p., che impone il contraddittorio tra le parti, andando, dunque, ben oltre la richiesta della pubblica accusa; dall’altro, nella clamorosa sproporzione tra la supposta trasgressione della mancata presentazione del COGNOME alla polizia giudiziaria del 24.12.2023 e l’applicazione della più grave misura della custodia in carcere.
Nella parte finale del ricorso il Qutnci sollecita il Collegio affinché sollevi la questione di legittimità costituzionale degli artt. 127, co. 9, 310 e 568, c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24, Cost., nella parte in cui tali disposizioni processuali non consentono all’imputato sottoposto a misura non custodiale, nei cui confronti sia emessa un’ordinanza di aggravamento di natura custodiale, di adire il giudice dell’impugnazione cautelare, nel caso in cui la sentenza di condanna sia passata in giudicato prima della scadenza dei termini per proporre il gravame.
Con requisitoria scritta del 26.4.2024, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, AVV_NOTAIO, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
Il ricorso va rigettato, essendo sorretto da motivi infondati.
In particolare è infondata la tesi difensiva che individua un preciso interesse dell’imputato ad adire, ex art. 310, c.p.p., il giudice dell’impugnazione cautelare, allo scopo di attivare, ove l’impugnazione fosse stata accolta, il meccanismo processuale che gli avrebbe consentito di godere del beneficio della dell’esecuzione della pena, con la
conseguente possibilità di chiedere la concessione di misure alternative al carcere.
Invero, come è stato affermato da un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel periodo intercorrente fra il passaggio in giudicato della sentenza e l’inizio della fase di esecuzione della pena, spetta al giudice dell’esecuzione la competenza a decidere sulle questioni relative alle misure cautelari personali ancora in corso, detentive e non detentive, con ordinanza “de plano” emessa ai sensi dell’art. 667, comma 4, c.p.p., suscettibile di opposizione davanti allo stesso giudice (cfr. Sez. 6, n. 25504 del 10/02/2017, Rv. 270059; Sez. 6, n. 14753 del 31/01/2018, Rv. 272983), in quanto, come correttamente rilevato dal giudice dell’appello cautelare, una volta passata in giudicato la sentenza di condanna, ogni decisione in tema di misure cautelari non può trovare soluzione nell’ambito dell’ordinario circuito processuale delle impugnazioni cautelari, la cui attivazione presuppone la non definitività della pronuncia di merito.
D’altro canto, non può non rilevarsi come, nell’invocare la previsione dell’art. 656, co. 5, c.p.p., il ricorrente non colga nel segno.
Se è vero, infatti, che, ai sensi dell’art. 656, co. 5, c.p.p., ove “la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni, quattro anni nei casi previsti dall’articolo 47 ter, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, o sei anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione”, è altrettanto vero che lo stesso art. 656, co. 9, lett. b), esclude in radice la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena “nei confronti di coloro che, per il fatto oggetto della condanna, si trovano in stato di custodia in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva”.
Tale era incontestabilmente la condizione del COGNOME, posto che, nel momento in cui la sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti divenne definitiva, in data 6.2.2024, a suo carico era già stata emessa,
in data 5.2.2024, l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il cui eventuale annullamento da parte del tribunale adito ex art. 310, c.p.p., va escluso.
Invero, le critiche articolate dal COGNOME nell’appello cautelare, come esposte nel ricorso, appaiono manifestamente infondate, rendendo, pertanto, del tutto priva di concreta rilevanza, nel caso in esame, anche la prospettata questione di legittimità costituzionale.
La corte di appello, infatti, come si evince dalla lettura degli atti, consentita in questa sede, essendo stato dedotto un error in procedendo, con la menzionata ordinanza del 5.2.2024 ha disposto la sostituzione della misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria con quella della custodia in carcere, facendo riferimento innanzitutto all’accertata violazione da parte dell’imputato, in data 24.12.2024, delle prescrizioni inerenti alla meno grave misura cautelare impostagli, dimostratasi, pertanto, nella valutazione operata dal giudice di merito, inadeguata a salvaguardare le esigenze cautelari, anche tenuto conto del fatto che il COGNOME, come segnalato dai CC. della Stazione di Gorgonzola, era stato denunciato per il delitto di furto aggravato in concorso, commesso il 31 gennaio 2024, dunque per un reato della stessa natura di uno dei reati per i quali egli è stato condannato con la sentenza della corte di appello milanese passata in giudicato.
In tal modo la corte territoriale ha fatto buon governo dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in sede di interpretazione dell’art. 276, co. 1, c.p.p. (norma espressamente fatta salva proprio dal disposto dell’art. 299, co. 4, c.p.p.), che attribuisce al giudice, in caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare, il potere di sostituirla con altra più grave, tenuto conto dell’entità, dei motivi e delle circostanze della violazione.
Come chiarito, infatti, dalla giurisprudenza della Suprema Corte, la previsione di cui all’art. 276, c.p.p., – nel prevedere la sostituzione o il cumulo della misura cautelare già disposta con altra più grave, nel caso di trasgressione alle prescrizioni imposte – attribuisce al giudice un
potere discrezionale che deve essere esercitato mediante la valutazione della gravità e delle circostanze della violazione al fine di verificare se la trasgressione abbia reso manifesta l’inidoneità della misura in atto a salvaguardare le esigenze cautelari, mentre l’applicazione dell’art. 299, co. 4, c.p.p., che prevede, nel caso di aggravamento delle esigenze cautelari, la sostituzione “in peius” della misura applicata ovvero l’inasprimento delle modalità di applicazione può dipendere anche da fatti non direttamente collegati alla condotta attuale del soggetto nei confronti del quale la misura è applicata (cfr. Sez. 5, n. 3175 del 08/11/2018, Rv. 275260, nonché Sez. 6, n. 58435 del 04/12/2018).
Proprio la natura sanzionatoria della procedura prevista dall’art. 276, c.p.p., che prescinde dalla richiesta del pubblico ministero, potendo, pertanto, l’aggravamento della misura cautelare essere disposto d’ufficio dal giudice anche a seguito della semplice segnalazione della trasgressione delle prescrizioni inerenti alla misura meno grave precedentemente applicata da parte degli organi di polizia giudiziaria (cfr. Sez. 3, n. 41770 del 28/10/2010, Rv. 248743; Sez. 5, n. 489 del 02/07/2014, Rv. 262209), rende manifestamente infondato il rilievo difensivo formulato nell’appello cautelare sulla mancata corrispondenza tra quanto richiesto dal pubblico ministre e la sostituzione della precedente misura cautelare disposta dalla corte di appello.
Al rigetto del ricorso, segue la condanna del COGNOME, ai sensi dell’art.
616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. . Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, co. 1 ter, disp. att., c.p.p.
Così deciso in Roma il 16.5.2024.