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Semilibertà negata: i legami con il clan contano

La Corte di Cassazione conferma il diniego della semilibertà a un detenuto per reati di mafia. Nonostante il riconoscimento della collaborazione impossibile, la condanna della moglie per aver ricevuto sussidi dal clan è stata ritenuta prova di persistente pericolosità sociale, rendendo prematura la concessione del beneficio.

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Pubblicato il 19 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Semilibertà negata: quando i legami con il clan prevalgono sul percorso del detenuto

La concessione della semilibertà rappresenta un passo fondamentale nel percorso di reinserimento sociale di un detenuto, ma è subordinata a una valutazione rigorosa che va oltre la semplice buona condotta in carcere. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, negando il beneficio a un soggetto condannato per gravi reati di tipo mafioso, sulla base di elementi esterni che indicavano una persistente pericolosità sociale, nonostante il suo percorso trattamentale.

I Fatti del Caso: La Richiesta di Semilibertà

Il caso riguarda un detenuto in espiazione di una pena di trent’anni di reclusione per reati gravissimi, tra cui associazione a delinquere di tipo mafioso, estorsioni aggravate, narcotraffico e detenzione di armi. Dopo anni di detenzione, l’uomo aveva richiesto al Tribunale di Sorveglianza l’applicazione di misure alternative, tra cui la semilibertà.

Il Tribunale di Sorveglianza, pur prendendo atto del riconoscimento della condizione di “collaborazione impossibile”, aveva rigettato l’istanza. La decisione si fondava su tre elementi principali:

1. Il detenuto non aveva mai fruito di permessi premio.
2. Non erano emersi chiari segni di ravvedimento (resipiscenza).
3. Il clan di appartenenza risultava ancora operativo e, fatto cruciale, la moglie del detenuto era stata condannata per favoreggiamento per aver ricevuto sostegno economico dal clan durante la detenzione del marito.

Il Ricorso in Cassazione e la Valutazione della Semilibertà

La difesa del detenuto ha impugnato la decisione, sostenendo che il Tribunale avesse omesso di valutare documenti che, a suo dire, dimostravano la disarticolazione del clan e il ruolo secondario del suo assistito. Inoltre, ha sottolineato come la mancata concessione di permessi premio non fosse a lui imputabile.

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha dichiarato il ricorso infondato, confermando la decisione del Tribunale di Sorveglianza e offrendo importanti chiarimenti sui presupposti per la concessione della semilibertà.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha ribadito che l’ammissione alla semilibertà, ai sensi dell’art. 50 dell’ordinamento penitenziario, richiede una duplice indagine. Da un lato, occorre valutare i progressi compiuti dal detenuto nel corso del trattamento individualizzato; dall’altro, è necessario verificare l’esistenza delle condizioni per un suo graduale e sicuro reinserimento nella società.

Nel caso specifico, i giudici hanno ritenuto che la valutazione del Tribunale di Sorveglianza fosse stata corretta e ben motivata. L’elemento decisivo è stato individuato nella condanna della moglie per favoreggiamento. Questo fatto, secondo la Corte, non è un dettaglio trascurabile, ma un indice concreto e attuale della persistenza dei legami del detenuto con l’ambiente criminale di provenienza. La percezione di “sussidi economici” da parte del clan è stata interpretata come un chiaro segnale che tali legami non erano stati recisi, costituendo un grave ostacolo a un giudizio prognostico favorevole sul reinserimento sociale.

La Corte ha specificato che il giudizio sulla pericolosità sociale deve partire dalla gravità dei reati commessi e dalla posizione ricoperta nel sodalizio criminale. In questo contesto, elementi negativi specifici, come i legami familiari ancora attivi con il clan, assumono un peso preponderante. La fruizione di permessi premio, sebbene non un prerequisito assoluto, si inserisce in questa valutazione progressiva come strumento per testare l’affidabilità del condannato.

Conclusioni

La sentenza riafferma un principio cardine dell’esecuzione penale: per accedere alla semilibertà, non è sufficiente un comportamento formalmente corretto all’interno del carcere. È indispensabile una valutazione complessiva che tenga conto di tutti gli elementi, interni ed esterni, capaci di delineare un quadro completo della personalità del condannato e delle sue reali prospettive di reinserimento. La persistenza di legami, anche indiretti, con il contesto criminale di origine, come dimostrato dalla condotta di un familiare stretto, costituisce una prova oggettiva di pericolosità sociale che può legittimamente precludere l’accesso ai benefici penitenziari, rendendo la richiesta prematura.

È sufficiente il riconoscimento della “collaborazione impossibile” per ottenere la semilibertà?
No, non è sufficiente. La legge richiede comunque una valutazione complessiva e concreta dei progressi nel percorso di trattamento e, soprattutto, delle condizioni che garantiscano un graduale reinserimento nella società, escludendo la persistenza di pericolosità sociale.

La condotta dei familiari può influire sulla concessione della semilibertà al detenuto?
Sì. Nel caso esaminato, la condanna della moglie per aver ricevuto sussidi economici dal clan di appartenenza del marito è stata considerata un elemento decisivo. È stata interpretata come un indice concreto della persistenza dei legami del detenuto con l’ambiente criminale, fattore che ha fondato un giudizio prognostico negativo.

La mancata fruizione di permessi premio impedisce automaticamente la concessione della semilibertà?
No, non la impedisce automaticamente. La Corte chiarisce che la semilibertà può essere deliberata anche senza un previo accesso a misure meno impegnative. Tuttavia, la fruizione di permessi premio è un elemento che si inserisce nella valutazione progressiva della personalità e dell’affidabilità del detenuto, e la sua assenza può essere considerata nel giudizio complessivo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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