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Segreto d’ufficio: quando il giornalista non è complice

La Corte di Cassazione ha annullato un’ordinanza di perquisizione e sequestro a carico di un giornalista indagato per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio. La Corte ha stabilito che la semplice pubblicazione di una notizia riservata non è sufficiente a configurare il reato, essendo necessaria una condotta attiva di istigazione o induzione nei confronti della fonte. La sentenza ribadisce la tutela delle fonti giornalistiche e i limiti invalicabili degli strumenti investigativi che mirano a scoprirle.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Segreto d’ufficio: Pubblicare una Notizia non Rende il Giornalista Complice

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11498 del 2025, ha tracciato una linea netta sulla questione del concorso del giornalista nel reato di rivelazione di segreto d’ufficio. La pronuncia stabilisce un principio fondamentale: la mera pubblicazione di una notizia, seppur coperta da segreto, non è sufficiente per considerare il giornalista un complice. Occorre qualcosa di più: un’azione concreta volta a istigare o indurre la fonte a violare i propri doveri.

I Fatti del Caso

Un giornalista è stato indagato per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio dopo aver pubblicato un articolo su un noto periodico nazionale. L’articolo riportava dettagli relativi al suicidio di un’allieva presso una scuola per sottufficiali delle forze dell’ordine. Secondo l’accusa, tali dettagli provenivano da atti d’indagine coperti da segreto, forniti da pubblici ufficiali non identificati.

La Procura della Repubblica ha emesso un decreto di perquisizione e sequestro dei dispositivi informatici del giornalista, con l’obiettivo di individuare la fonte della notizia. Il Tribunale, in sede di riesame, ha confermato il provvedimento, spingendo la difesa del giornalista a ricorrere in Cassazione.

La Questione del Segreto d’Ufficio e il Ruolo del Giornalista

Il cuore della controversia legale risiede nella definizione dei confini della responsabilità penale del giornalista. Il reato di rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p.) è un ‘reato proprio’, che può essere commesso solo da un pubblico ufficiale (l’ intraneus). Il giornalista, in quanto soggetto esterno (extraneus), può risponderne solo a titolo di concorso (art. 110 c.p.).

La domanda fondamentale è: quale condotta deve tenere l’ extraneus per essere considerato un concorrente nel reato? È sufficiente che riceva passivamente la notizia e la pubblichi, esercitando il proprio diritto di cronaca, oppure è necessaria una partecipazione attiva alla violazione del segreto?

La Tutela delle Fonti Giornalistiche

Un altro aspetto cruciale è la protezione delle fonti, un pilastro della libertà di stampa sancito dall’art. 200 del codice di procedura penale. Questa norma tutela il segreto professionale del giornalista, consentendo a un giudice di ordinare la rivelazione della fonte solo in casi eccezionali: quando la notizia è indispensabile per la prova di un reato e la sua veridicità può essere accertata solo tramite l’identificazione della fonte stessa. Nel caso di specie, la difesa ha sostenuto che la perquisizione e il sequestro indiscriminato dei dati rappresentavano un aggiramento di tale garanzia.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del giornalista, annullando senza rinvio l’ordinanza del Tribunale e il decreto di sequestro. La decisione si fonda sulla totale assenza del cosiddetto fumus commissi delicti, ovvero la parvenza di reato, a carico del giornalista.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha ripercorso i due orientamenti giurisprudenziali sul tema. Un primo filone, più estensivo, riteneva sufficiente la semplice divulgazione della notizia segreta da parte dell’ extraneus per configurare il concorso. Tuttavia, la Cassazione ha aderito all’orientamento più consolidato e garantista, che richiede una condotta attiva da parte del giornalista.

Secondo la Corte, per ravvisare la responsabilità del giornalista è necessario dimostrare un suo ruolo attivo nell’acquisizione della notizia, che si manifesti attraverso ‘determinazione, istigazione o induzione’ nei confronti del pubblico ufficiale. Il semplice fatto di ricevere e pubblicare l’informazione non integra il concorso nel reato, poiché tale condotta rientra nell’esercizio del diritto di cronaca.

I giudici hanno sottolineato che, in assenza di prove di un ruolo attivo del giornalista, la perquisizione finalizzata a svelare la fonte diventa illegittima. Essa si trasforma in un’indebita pressione sul segreto professionale, violando le garanzie costituzionali e convenzionali (CEDU) a tutela della libertà di espressione e di informazione. Nel caso specifico, l’indagine originaria riguardava un suicidio, un fatto non costituente reato, e l’identificazione della fonte non avrebbe aggiunto alcun elemento utile all’accertamento delle modalità del decesso.

Le Conclusioni

La sentenza rappresenta un punto fermo a tutela della libertà di stampa e del segreto professionale dei giornalisti. La Cassazione chiarisce che l’attività investigativa non può trasformarsi in uno strumento per scoprire le fonti fiduciarie di un giornalista, a meno che non emergano elementi concreti di una sua partecipazione attiva nella commissione del reato. Stabilisce un principio di proporzionalità: il diritto di cronaca può essere limitato solo in presenza di esigenze investigative superiori e concrete, non per una generica ricerca di responsabili di una fuga di notizie. Questa decisione rafforza le garanzie per chi svolge la professione giornalistica, ribadendo che informare il pubblico non può, di per sé, essere considerato un’attività criminale.

Un giornalista che pubblica una notizia coperta da segreto d’ufficio è sempre complice del reato?
No. Secondo la Corte di Cassazione, non è sufficiente la mera ricezione e pubblicazione della notizia. Per configurare il concorso nel reato è necessario che il giornalista abbia svolto un ruolo attivo, come determinazione, istigazione o induzione nei confronti del pubblico ufficiale che ha rivelato il segreto.

Quando è legittima una perquisizione per scoprire le fonti di un giornalista?
Una perquisizione è legittima solo se esistono concreti elementi che facciano sospettare un ruolo attivo del giornalista nella commissione del reato (fumus commissi delicti). Inoltre, secondo l’art. 200 c.p.p., un giudice può ordinare di rivelare una fonte solo se ciò è indispensabile per la prova del reato e non ci sono altri modi per accertare la veridicità dei fatti. Non può essere usata come strumento esplorativo per aggirare il segreto professionale.

La semplice ricezione di una notizia riservata è sufficiente per configurare un concorso nel reato di rivelazione di segreto d’ufficio?
No. La sentenza chiarisce che il giornalista che si limita a ricevere una notizia, anche se coperta da segreto, e a pubblicarla, non concorre nel reato. La sua condotta è penalmente irrilevante se non si accompagna a un contributo morale o materiale (istigazione, accordo) alla condotta del pubblico ufficiale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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