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Scambio elettorale politico-mafioso: la Cassazione

Un candidato politico, accusato di scambio elettorale politico-mafioso per aver offerto denaro e promesso favori a esponenti di un clan in cambio di voti, si è visto confermare la misura degli arresti domiciliari. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 43186/2024, ha rigettato il suo ricorso, chiarendo la portata del reato dopo la riforma del 2019. La Corte ha stabilito che per configurare il delitto è sufficiente la promessa di “qualunque altra utilità”, anche non immediatamente monetizzabile, e che il patto può intercorrere anche con un singolo esponente del clan, non essendo necessario che il vantaggio sia destinato all’intera associazione.

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Pubblicato il 11 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Scambio elettorale politico-mafioso: la Cassazione e la Riforma del 2019

Introduzione

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 43186 del 2024, è tornata a pronunciarsi sul delitto di scambio elettorale politico-mafioso, fornendo chiarimenti cruciali sulla sua configurabilità alla luce delle modifiche introdotte dalla legge n. 43 del 2019. La decisione analizza un caso in cui un candidato sindaco era accusato di aver stretto un patto con esponenti di un clan per ottenere sostegno elettorale. Questa pronuncia consolida un’interpretazione più ampia della norma, abbassando la soglia di punibilità e rafforzando gli strumenti di contrasto all’infiltrazione mafiosa nella politica.

I Fatti del Caso: un Patto per i Voti

La vicenda riguarda un candidato alla carica di sindaco durante le elezioni comunali del giugno 2022. Secondo l’accusa, il politico avrebbe stretto un accordo con noti esponenti di un clan mafioso locale. L’intesa prevedeva una duplice controprestazione in cambio del loro impegno a procacciare voti:
1. La dazione di una somma di 500 euro.
2. La promessa di intercedere presso un magistrato di sua conoscenza per ottenere la scarcerazione anticipata del figlio di uno degli esponenti del clan.

Sulla base di questi elementi, il Tribunale del riesame aveva confermato la misura degli arresti domiciliari nei confronti del candidato, ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza. Il politico ha quindi proposto ricorso in Cassazione, contestando la configurabilità stessa del reato e la sussistenza delle esigenze cautelari.

L’evoluzione del reato di scambio elettorale politico-mafioso

Il fulcro della decisione della Cassazione risiede nell’analisi dell’art. 416-ter del codice penale, come modificato nel 2019. La Corte ha sottolineato come la riforma abbia notevolmente ampliato lo spettro delle condotte penalmente rilevanti, superando molta della giurisprudenza formatasi sul testo precedente.

L’interpretazione della Corte di Cassazione

La Corte ha chiarito che, a seguito della novella legislativa, il reato non si configura più solo quando il procacciamento di voti avviene con il “metodo mafioso” (intimidazione, assoggettamento), ma anche quando proviene semplicemente “da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’art. 416-bis cod. pen.”.
In altre parole, il legislatore ha spostato l’attenzione dalle modalità dell’accordo al profilo soggettivo dei suoi protagonisti. Il semplice fatto che un politico si rivolga a un membro di un’associazione mafiosa per ottenere voti è sufficiente a integrare il reato, data la probabilità che tale soggetto utilizzi la sua forza intimidatrice per orientare il consenso elettorale.

L’irrilevanza della destinazione del denaro

La difesa aveva sostenuto che i 500 euro non erano destinati all’intero clan, ma rappresentavano un mero rimborso spese per un singolo individuo. La Cassazione ha respinto questa argomentazione, affermando che la legge non richiede che il vantaggio sia diretto all’intera consorteria. Anche se la prestazione viene erogata a favore di un singolo affiliato che agisce per conto del clan, il reato è configurato.

La nozione di “qualunque altra utilità”

Un altro punto cruciale riguarda la promessa di adoperarsi per la scarcerazione. La difesa sosteneva che tale promessa non costituisse una “utilità” rilevante, in quanto non immediatamente quantificabile in termini economici. La Corte ha evidenziato come la riforma del 2019 abbia sostituito l’espressione “altra utilità” con “qualunque altra utilità”, con l’intento di includere qualsiasi tipo di vantaggio, anche di natura non patrimoniale. La promessa di intercessione per un beneficio così significativo come la liberazione anticipata rientra pienamente in questa nozione ampliata, essendo un interesse di rilievo sia per il singolo detenuto che per l’intero sodalizio criminale.

Le esigenze cautelari

Infine, la Corte ha ritenuto infondate anche le censure relative alle esigenze cautelari. Il pericolo di reiterazione del reato è stato considerato concreto, non solo sulla base di un precedente procedimento a carico del politico per corruzione elettorale aggravata (sebbene concluso per prescrizione), ma anche in considerazione della sua persistente attività politica e dell’imminenza di nuove competizioni elettorali. Il risentimento manifestato in seguito dagli esponenti del clan nei confronti del politico non è stato ritenuto sufficiente a escludere il pericolo che quest’ultimo potesse stringere accordi simili con altri interlocutori in futuro.

Le motivazioni
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso basandosi su un’interpretazione evolutiva dell’art. 416-ter c.p. post-riforma 2019. I giudici hanno stabilito che il focus della norma si è spostato dalla modalità di raccolta del voto (il “metodo mafioso”) alla qualità soggettiva del procacciatore. È sufficiente che il patto avvenga con un soggetto appartenente a un’associazione mafiosa, poiché ciò crea un pericolo concreto per la libera formazione del consenso democratico. La nozione di controprestazione è stata ampliata a “qualunque altra utilità”, includendo benefici non patrimoniali come la promessa di favori per ottenere una scarcerazione. Inoltre, non è necessario che il vantaggio sia destinato all’intero clan, essendo sufficiente che venga percepito da un singolo affiliato. Infine, la Corte ha confermato la sussistenza del pericolo di recidiva, valorizzando la proclività del ricorrente al mercimonio del voto, desunta anche da precedenti vicende giudiziarie.

Le conclusioni
La sentenza rappresenta un importante punto fermo nell’interpretazione del delitto di scambio elettorale politico-mafioso. La Corte di Cassazione, accogliendo lo spirito della riforma del 2019, ha confermato una linea di maggiore rigore, rendendo più difficile per i politici stringere patti illeciti con la criminalità organizzata. La decisione chiarisce che qualsiasi forma di accordo che preveda un do ut des tra un candidato e un membro di un clan, a prescindere dalla natura specifica dell’utilità e dal suo destinatario finale, costituisce reato. Questo approccio mira a recidere alla radice ogni possibile contatto tra politica e mafia in ambito elettorale, tutelando la libertà e la genuinità del voto.

Cosa si intende per “qualunque altra utilità” nel reato di scambio elettorale politico-mafioso?
Dopo la riforma del 2019, l’espressione “qualunque altra utilità” include qualsiasi tipo di vantaggio, anche non immediatamente quantificabile in termini economici. La sentenza chiarisce che anche la promessa di adoperarsi per ottenere la scarcerazione anticipata di un soggetto rientra in questa categoria, superando la precedente interpretazione che limitava l’utilità ai soli beni traducibili in un valore di scambio economico immediato.

Per configurare il reato, il patto deve essere stretto con l’intera associazione mafiosa?
No. La Corte di Cassazione ha specificato che non è necessario che la promessa o la dazione di denaro/utilità sia effettuata a favore dell’intero clan. Il reato si configura anche se l’accordo intercorre con un singolo esponente dell’associazione, che agisce nell’interesse e per conto di essa, e anche se il vantaggio è destinato unicamente a quest’ultimo o alla sua famiglia.

È necessario provare che i voti sarebbero stati raccolti con metodi intimidatori?
No. La sentenza chiarisce che, a seguito della riforma del 2019, il reato si perfeziona per il solo fatto che il procacciamento di voti provenga da soggetti appartenenti ad associazioni mafiose. La legge presume il pericolo che tali soggetti, per la loro stessa natura e status criminale, orientino il voto con modalità che condizionano la libertà degli elettori, senza che sia necessaria la prova di uno specifico accordo sull’uso del “metodo mafioso”.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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