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Scambio elettorale: la Cassazione chiarisce il reato

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un politico sottoposto ad arresti domiciliari per il reato di scambio elettorale politico-mafioso. La Corte ha chiarito che, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente che il politico accetti la promessa di voti da parte di un soggetto appartenente a un’associazione mafiosa, senza che sia necessario dimostrare un esplicito accordo sull’utilizzo del metodo mafioso per la raccolta del consenso. La sentenza sottolinea come la qualità di affiliato del promittente sia di per sé idonea a inquinare il processo elettorale.

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Pubblicato il 24 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Scambio Elettorale Politico-Mafioso: Quando la Sola Promessa di Voti Integra il Reato

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, è tornata a pronunciarsi sul delicato tema del scambio elettorale politico-mafioso, delineando con precisione i contorni di un reato che mira a tutelare la libera formazione della volontà democratica. La pronuncia chiarisce che, per la configurabilità del delitto previsto dall’art. 416-ter c.p., è sufficiente che il candidato politico accetti la promessa di voti proveniente da un soggetto riconosciuto come appartenente a un sodalizio mafioso, anche in assenza di un patto esplicito sull’uso del metodo mafioso.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine da un’ordinanza del Tribunale del Riesame che confermava la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di un consigliere comunale e assessore. L’accusa era quella di aver stretto un patto illecito con un presunto esponente di un’associazione di tipo ‘ndranghetista. Secondo l’ipotesi accusatoria, il politico avrebbe accettato la promessa di un pacchetto di voti, ottenuti grazie all’influenza del suo interlocutore sul territorio, in cambio di benefici e utilità, come un impiego di volontariato che avrebbe consentito all’affiliato di ottenere la liberazione.

I Motivi del Ricorso e la Tesi Difensiva

La difesa del politico ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due argomenti principali. In primo luogo, ha sostenuto un’erronea applicazione della legge penale, evidenziando che il presunto promittente, pur avendo precedenti, non aveva mai riportato una condanna definitiva per associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.). Di conseguenza, secondo la difesa, non si poteva dare per scontata la sua appartenenza al clan. Inoltre, si affermava che l’interlocutore avesse agito uti singulus (come singolo individuo) e che mancasse la prova di un accordo esplicito sulle modalità mafiose da utilizzare per il procacciamento dei voti. In secondo luogo, il ricorrente contestava la necessità della misura cautelare, data la sua avvenuta e irrevocabile dimissione da tutte le cariche pubbliche, fatto che, a suo dire, avrebbe interrotto ogni legame con il contesto criminale.

La Decisione della Cassazione e il reato di scambio elettorale politico-mafioso

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, confermando la decisione del Tribunale del Riesame. Il punto centrale della sentenza ruota attorno all’interpretazione dell’art. 416-ter c.p., come modificato dalla legge n. 43 del 2019. I giudici hanno stabilito che la norma punisce due distinte condotte alternative:

1. L’accettazione della promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti ad associazioni mafiose.
2. L’accettazione della promessa di procurare voti mediante le modalità tipiche del metodo mafioso (intimidazione, assoggettamento, omertà).

Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto che ricorresse la prima ipotesi. L’appartenenza del promittente al sodalizio criminale era stata adeguatamente motivata dai giudici di merito attraverso una serie di elementi indiziari (intercettazioni, indagini su attività illecite come lo spaccio gestito per conto del clan, ecc.), rendendo irrilevante l’assenza di una condanna definitiva per il reato associativo.

Le Motivazioni

Nelle motivazioni, la Cassazione ha spiegato che la ratio della norma è quella di prevenire qualsiasi forma di contatto e contaminazione tra politica e criminalità organizzata. Quando la promessa di voti proviene da un soggetto intraneo al sodalizio mafioso, il pericolo per la democrazia è insito nell’accordo stesso. L’appartenenza del promittente a un clan è di per sé garanzia di una capacità di condizionamento del voto che prescinde dalla necessità di un esplicito richiamo al metodo mafioso. Il solo fatto di stringere un patto con un mafioso per ottenere voti configura il reato, perché il politico accetta implicitamente che il consenso elettorale venga raccolto attraverso la forza di intimidazione che emana dall’associazione criminale.

Riguardo alle esigenze cautelari, la Corte ha ritenuto che le dimissioni dalle cariche politiche non fossero sufficienti a escludere il pericolo di reiterazione del reato. I giudici hanno valorizzato gli elementi che indicavano la persistenza di contatti continui e costanti tra il politico e il suo referente mafioso anche dopo le elezioni, dimostrando un legame non episodico ma radicato. Questo collegamento, secondo la Corte, evidenziava il rischio concreto che l’indagato potesse continuare a interagire con l’ambiente criminale, rendendo ancora necessaria la misura degli arresti domiciliari.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio di diritto fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata: il delitto di scambio elettorale politico-mafioso è un reato di pericolo a consumazione anticipata. Non è necessario attendere la raccolta dei voti, né tantomeno provare che sia stata usata la violenza o la minaccia. L’accordo stesso, il patto scellerato tra il politico e l’esponente del clan, è ciò che la legge punisce. Per la giustizia, è sufficiente dimostrare che il politico fosse consapevole della caratura criminale del suo interlocutore e abbia accettato la sua promessa, inquinando alla radice il processo democratico.

È necessario provare l’uso specifico del metodo mafioso per configurare il reato di scambio elettorale politico-mafioso?
No. Secondo la sentenza, quando la promessa di voti proviene da un soggetto appartenente a un’associazione mafiosa, non è necessario dimostrare che l’accordo prevedesse esplicitamente l’uso del metodo mafioso. La sola qualità di affiliato del promittente è sufficiente a integrare il reato.

La promessa di voti da parte di un soggetto non ancora condannato per associazione mafiosa può integrare il reato?
Sì. La sentenza chiarisce che l’appartenenza di un soggetto a un’associazione mafiosa può essere provata attraverso una serie di indizi gravi, precisi e concordanti (come intercettazioni o altre risultanze investigative), anche in assenza di una sentenza di condanna definitiva per il reato di cui all’art. 416-bis c.p.

Le dimissioni da una carica politica sono sufficienti a far cessare le esigenze cautelari per questo tipo di reato?
No, non automaticamente. La Corte ha stabilito che le dimissioni non sono di per sé decisive se esistono elementi concreti che dimostrano la permanenza di un collegamento tra l’indagato e il contesto criminale, come contatti continui e costanti anche dopo le elezioni. In tal caso, il pericolo di reiterazione del reato può persistere.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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