Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 37405 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 37405 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 19/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA a BIELLA COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA a BIELLA avverso la sentenza in data 01/12/2023 della CORTE DI APPELLO DI BOLO- visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
sentita la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi;
sentita l’AVV_NOTAIO che, GLYPH nell’interesse di NOME, ha illustrato i motivi d’impugnazione e ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
NOME e NOME, per il tramite dei rispettivi procuratori speciali e con separati ricorsi, impugnano la sentenza in data 01/12/2023 della Corte di appello di Bologna, che ha confermato la sentenza in data 09/02/2023 del Tribunale di Rimini, che li aveva condannati per il reato di rapina aggravata. La Corte di appello, rispetto alla sentenza di primo grado, ha eliminato soltanto la pena accessoria dell’interdizione legale.
Deducono:
NOME.
GNA;
1.1. Violazione di legge e vizio di omessa motivazione in relazione al mancato riconoscimento della sanzione sostitutiva della detenzione domiciliare.
Il ricorrente osserva che “nonostante la difesa dell’imputato NOME, munita di procura speciale, abbia richiesto nelle proprie conclusioni la sostituzione della pena detentiva con la sanzione sostitutiva della detenzione domiciliare, la Corte di appello, oltre a non concederla, non ne ha motivato il diniego”.
Aggiunge che il giudice ha omesso di statuire in merito al diniego della sanzione sostitutiva e che non è stato adempiuto l’obbligo di motivazione “non essendoci alcun riferimento alle ragioni di fatto e di diritto che hanno condotto il giudice a propendere per il diniego all’COGNOME della detenzione domiciliare sostituiva, nonostante i presupposti per il suo riconoscimento”.
1.2. Violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen..
Secondo il ricorrente “il giudicante avrebbe dovuto valutare con maggiore scrupolo le dichiarazioni delle persone offese e, sulla base delle stesse, avrebbe dovuto disconoscere l’attenuante” di che trattasi, essendo presenti tutti i requisiti richiesti per la sua configurabilità.
NOME COGNOME.
2.1. Violazione di legge e Vizio di motivazione in relazione all’art. 110 cod. pen..
Il ricorre riassume la vicenda processuale e, all’esito, sostiene che, sotto il profilo della motivazione, la Corte di appello «non illustra compiutamente la ragione per la quale la condotta delittuosa sia stata considerata unitaria e come in tale ipotesi l’inizio dell’agito criminoso coincida con la (asserita) sottrazione alla p.o. COGNOME, unica condotta materiale attribuita all’odierno ricorrente e di cui questa difesa ha contestato (e contesta) l’illiceità oltre alla possibilità di considerarla il contributo causale all’azione predatoria».
Osserva come la prova della partecipazione all’azione predatoria venga fondata soltanto sulle sensazioni riferite dalle vittime, che hanno ritenuto che COGNOME avesse bloccato una delle vittime standogli seduto a fianco su una panchina.
Aggiunge che i giudici fanno proprie le suggestioni delle vittime, senza alcuno sforzo critico.
Aggiunge che COGNOME non riferisce di violenze e/o di minacce, così che non si comprende perché la condotta di COGNOME sia stata ritenuta illecita.
Denuncia, ancora, un vuoto motivazionale nella parte in cui i giudici non spiegano come fosse possibile un accordo delittuoso tra persone che non si conoscevano. Ulteriori osservazioni vengono rivolte quanto al difetto di motivazione in relazione all’elemento psicologico.
Sotto il profilo del vizio di violazione di legge, il ricorrente osserva che la mera apprensione dell’accendino e la mera presenza del ricorrente sul luogo degli
accadimenti non possono costituire prova del concorso nel delitto di rapina, non potendosi così configurarsi un contributo apprezzabile siccome richiesto a tal fine.
A sostegno dell’assunto viene richiamata la sentenza n. 1457 del 2017 pronunciata dalla Corte di appello di Milano nei confronti di NOME.
2.3. Violazione di legge e vizio di omessa motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen..
Anche in questo caso si muove dall’osservazione della inidoneità probatoria della mera apprensione dell’accendino e alla mera presenza del ricorrente sul luogo degli accadimenti.
Si assume, dunque, che anche l’attenuante in questione è stata negata sulla base delle mere desunzioni operate dalle persone offese in relazione alle condotte asseritamente poste dall’imputato, senza alcun vaglio critico da parte della Corte di appello, pur in presenza dei requisiti richiesti per la configurabilità dell’attenuante in questione.
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 81 cod. pen..
Il motivo si rivolge al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i fatti dell’odierno giudizio e quelli definitivamente giudicati con sentenza n. 176 del 2023 del Tribunale di Rimini.
Secondo la difesa, la Corte di appello ha erroneamente negato la continuazione tra tali fatti, ove si consideri che le modalità esecutive delle rapine sono sostanzialmente sovrapponibili e che in entrambi i casi l’agire delittuoso è stato mosso dalla volontà di appropriarsi di denaro e di cellulari di gruppi di giovani in vacanza a Riccione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME è fondato nel suo primo motivo d’impugnazione, inammissibile con riguardo al secondo motivo di ricorso.
1.1. Proprio tale secondo motivo di ricorso va esaminato per primo, atteso che la questione della riconoscibilità dell’attenuante, attenendo al trattamento sanzionatorio in senso lato, precede in via logica quello della sanzione sostitutiva.
Ciò premesso, va rilevato come il motivo sia generico per indeterminatezza perché privo dei requisiti prescritti dall’art. 581, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. in quanto, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata logicamente corretta (si vedano in particolare i fogli 23 e 24 della sentenza impugnata), non indica gli elementi che sono alla base della censura formulata, non consentendo al giudice dell’impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato.
Da qui l’inammissibilità del motivo relativo al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen..
1.2. Con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente si duole della totale
assenza di motivazione in relazione alla possibilità di applicare una sanzione sostitutiva rispetto alla pena detentiva, per come previsto dall’art. 20-bis cod. proc. pen. e per come richiesta con la formulazione delle conclusioni in sede di discussione orale.
Dall’esame degli atti, consentita in ragione della natura processuale della questione, emerge che -in effetti- all’udienza del 01/12/2023, la difesa di COGNOME, in sede di conclusioni, chiedeva applicarsi una sanzione sostituiva.
Tanto si rinviene annotato nel verbale di udienza, al quale risultano altresì allegati (a) la procura speciale rilasciata da COGNOME al proprio difensore per chiedere l’applicazione della sanzione sostitutiva e (b) una dichiarazione di tale COGNOME NOME che, nella qualità di legale rappresentante della società “RAGIONE_SOCIALE“, riferiva dell’esistenza di un contratto di collaborazione lavorativa con l’imputato.
Va altresì rilevato che la richiesta di applicazione della sanzione sostitutiva è attestata anche nell’intestazione della sentenza oggi impugnata, ove sono riportate le conclusioni delle parti e, con riguardo alla posizione di NOME viene annotato che il difensore depositava procura speciale conferita dall’imputato per avanzare la richiesta in questione.
Va, quindi, osservato che la richiesta, così come rinvenuta, deve ritenersi tempestiva, a mente del principio di diritto più volte affermato da questa Corte, secondo il quale «In tema di pene sostitutive, ai sensi della disciplina transitoria contenuta nell’art. 95 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all’applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis cod. pen., è necessaria una richiesta in tal senso dell’imputato, da formulare non necessariamente con l’atto di gravame, ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell’udienza di discussione in appello» (da ultimo, tra molte, Sez. 6 , Sentenza n. 33027 del 10/05/2023, Rv. 285090 – 01).
Il principio di diritto ora richiamato risulta una specificazione di quanto più in generale ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 22533 del 25/10/2018 (dep. il 2019, Salerno) in ordine alle condizioni in presenza delle quali l’imputato può ritenersi legittimato a censurare in sede di legittimità il silenzio tenuto dalla Corte di appello in ordine a statuizioni che le sarebbe stato consentito disporre d’ufficio, anche discrezionalmente e in difetto di uno specifico motivo di gravame.
Nella sentenza ora menzionata, in particolare, viene affrontato il tema delle condizioni necessarie affinché l’imputato possa dolersi con l’impugnazione del mancato esercizio da parte della Corte di appello dei poteri officiosi riconosciutile dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen..
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A tale proposito è stato osservato che «tale potere-dovere, essendo espressamente attribuito al giudice, “di ufficio”, dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., non postula, per definizione, la necessaria iniziativa o sollecitazione di parte, espressa in una richiesta specifica anche solo in sede di conclusioni nel giudizio di appello. E, tuttavia, l’esercizio di esso va correlato sia al suo fondamento normativo, che lo pone come “eccezione” al generale principio devolutivo che governa il giudizio di appello, sia al contenuto “discrezionale” del suo oggetto, che postula, ai fini dell’applicazione dei benefici come del riconoscimento di attenuanti, valutazioni di puro merito. In breve, il mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere-dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale “non decisione”, non può costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero, nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, neppure con le conclusioni subordinate proposte dall’imputato nel giudizio di primo grado».
Tali condizioni si sono -invero- verificate nel caso in esame, visto che l’imputato ha chiesto l’applicazione della sanzione sostitutiva in sede di conclusioni all’esito della discussione orale e in relazione a tale richiesta si registra una omessa motivazione e una mancata decisione della Corte di appello.
La sentenza va dunque annullata con rinvio alla Corte di appello di Bologna per l’esame della richiesta in questione.
Il ricorso di NOME è inammissibile.
2.1. I motivi d’impugnazione sollevati con il ricorso sono i medesimi esposti con l’atto di appello, affrontati e risolti dalla Corte di appello che:
ha ritenuto la penale responsabilità dell’imputato e il suo concorso nel delitto sulla base delle dichiarazioni di COGNOME, COGNOME e COGNOME e dall’individuazione fotografica effettuata da ciascuno di loro. In tale ambito ha altresì dato risposta alle deduzioni difensive -oggi riproposte- circa il significato probatorio correlata all’apprensione dell’accendino, illustrando le plurime ragioni per cui la versione offerta dalla difesa (ossia di avere intascato distrattamente l’accendino, dopo averlo chiesto ad COGNOME) non potesse ritenersi verosimile, sia perché poggiata su di una lettura parcellizzata delle emergenze probatorie, sia perché -comunque- ininfluente, alla luce della condotta complessivamente e unitariamente realizzata dal ricorrente e dai correi, indubbiamente intesa all’apprensione violenta dei beni delle vittime, per come ampiamente spiegato alla pagina 20 della sentenza impugnata, che ha attribuito al ricorrente il ruolo di “palo”.
Al contempo (alla pagina 21) i giudici hanno spiegato le ragioni per cui il
concorso del ricorrente non potesse ricondursi al paradigma del contributo di minima importanza, in quanto il ruolo di “palo”, sia pur di importanza minore rispetto agli esecutori della sottrazione violenta, facilita la realizzazione dell’attività criminosa, rafforzando dell’opera degli esecutori materiali e garantendo loro l’impunità, in ciò richiamando i principi espressi sul tema dalla giurisprudenza di legittimità (in questi termini, Sez. 5 , Sentenza n. 21469 del 25/02/2021, Stefani, Rv. 281312 – 02);
– ha escluso l’esistenza di un rapporto di continuazione osservando (alle pagine 22 e 23) che le connotazioni di estemporaneità e improvvisazione del reato successivo rende insufficiente e ininfluente l’eventuale presenza di alcuno degli indicatori dell’unicità del disegno criminoso, ossia omogeneità delle violazioni e del bene protetto, contiguità spazio-temporale, singole causali, modalità della condotta, sistematicità e abitudini programmate di vita, programmazione -almeno nelle linee essenziali e al momento della commissione del primo reato- della commissione dei reati successivi.
Sulla base di tale osservazione (conforme a Sez. U, Sentenza n. 28659 del 18/05/2017, COGNOME, Rv. 270074 – 01), i giudici hanno spiegato che i reati per cui si chiedeva il riconoscimento della continuazione risultavano caratterizzati dalla estemporaneità, in quanto commessi in danno di vittime occasionali, separati da un a distanza di un mese l’uno dall’altro, così che entrambi risultavano essere piuttosto sintomatici di una tendenza a delinquere dell’imputato.
2.2. A fronte di una motivazione che si mostra adeguata, logica e non contraddittoria oltre che ancorata alle emergenze fattuali e conforme ai principi di diritto regolanti i temi trattati, i motivi d’impugnazione si risolvono in una valutazione delle risultanze processuali alternativa a quella ritenuta dai giudici di merito.
Tanto conduce all’inammissibilità del ricorso, in quanto i motivi siffatti non sono scrutinabili in sede di legittimità, atteso che il compito demandato dal legislatore alla Corte di cassazione -per quanto qui d’interesse- non è quello di stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti ovvero quello di condividerne la giustificazione. Il compito del giudice di legittimità è quello di verificare la conformità della sentenza impugnata alla legge sostanziale e a quella processuale, cui si aggiunge il controllo sulla motivazione che, però, è restrittivamente limitato alle ipotesi tassative della carenza, della manifesta illogicità e della contraddittorietà. Con l’ulteriore precisazione che la carenza va identificata con la mancanza della motivazione per difetto grafico o per la sua apparenza; che l’illogicità deve essere manifesta -ossia individuabile con immediatezza- e sostanzialmente identificabile nella violazione delle massime di esperienza o delle leggi scientifiche, così configurandosi quando la motivazione sia
disancorata da criteri oggettivi di valutazione, e trascenda in valutazioni soggettive e congetturali, insuscettibili di verifica empirica; la contraddittorietà si configura quando la motivazione si mostri in contrasto -in termini di inconciliabilità assolutacon atti processuali specificamente indicati dalla parte e che rispetto alla struttura argomentativa abbiano natura portante, tale che dalla loro eliminazione deriva l’implosione della struttura argomentativa impugnata.
2.3. Quanto esposto comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso di COGNOME, la sua condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, la sua condanna al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME limitatamente alla richiesta di applicazione di sanzione sostitutiva con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Bologna; dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Dichiara inammissibile il ricorso di NOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così è deciso, 19/09/2024