Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 2644 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 2644 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 22/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato in ALBANIA il 19/04/1994 avverso l’ordinanza del 08/07/2024 del TRIB. LIBERTA’ di Bari visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Bari – in accoglimento dell’appello del Pubblico ministero – ha annullato l’ordinanza del 27/07/2023 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Foggia, che aveva rigettato una domanda cautelare nei confronti di NOME COGNOME e, per l’effetto, ha applicato a quest’ultimo la misura della custodia cautelare in carcere, con riferimento:
al reato di cui agli artt. 423, 425 primo comma n. 1 cod. pen., per aver appiccato il fuoco a due autoveicoli presenti all’interno della Caserma dei Carabinieri Forestali di Peschici, laddove si era introdotto munito di tavolette accendi fuoco, cosicché le fiamme si propagavano ai locali dell’edificio stesso, annerendo la facciata della struttura e danneggiandola, nonché interrompendo la erogazione di energia elettrica, visto che attingevano l’impianto elettrico e scioglievano il contatore;
al reato di cui agli artt. 110 e 253 cod. pen., per aver reso temporaneamente inservibile, mediante la condotta sopra descritta, la Caserma Forestale “Parco”, qualificabile come opera militare e adibita al servizio delle forze armate dello Stato, in ragione dell’appartenenza dell’ex Corpo Forestale dello Stato all’Arma dei Carabinieri.
Ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo dell’avv. NOME COGNOME deducendo quattro motivi, che vengono di seguito enunciati entro i limiti strettamente necessari per là motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, viene denunciata violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 292 cod. proc. pen. Lamenta la difesa che il Tribunale si sia conformato, in maniera sostanzialmente acritica, alla richiesta di applicazione di misura cautelare formulata dalla Pubblica Accusa.
2.2. Con il secondo motivo, viene denunciata violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 546 cod. proc. pen., 423 e 425 cod. pen. Sostiene il ricorrente essere configurabile il delitto di cui all’art. 424 cod. pen. e non quello ritenuto nella ordinanza impugnata, ex art. 423 cod. pen.; ciò in quanto l’indagato aveva in animo esclusivamente di danneggiare le autovetture, non intendendo egli cagionare un fuoco di rilevanti proporzioni.
2.3. Con il terzo motivo, viene denunciata violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 546 cod. proc. pen. 253 cod. pen.; sostiene la difesa, infatti, doversi riqualificare il reato sub 3) ai sensi dell’art. 420 cod. pen.
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2.4. Con il quarto motivo, viene denunciata violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 274 e 275 cod. proc. pen. Si duole la difesa della insussistenza delle ritenute esigenze cautelari, in ragione dell’assenza di ulteriori condotte – successive al fatto per il quale si procede – ascrivibili al Dalipaj.
3. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Basandosi sulla lineare ed esaustiva ricostruzione storica e oggettiva contenuta nell’impugnato provvedimento, non appaiono fondate le censure difensive, in ordine alla assenza di uno specifico vaglio degli elementi di fatto, decisivi in relazione alle singole posizioni. La motivazione adottata dal Tribunale, che ha valorizzato la conoscenza – da parte dell’indagato – dei luoghi, del posizionamento delle auto, della presenza di materiale infiammabile e, infine, ha sottolineato l’orario notturno in cui si è svolta l’azione, appare priva di vizi di ordine logico-giuridico. Parimenti immune da censure, poi, è la motivazione inerente al delitto di cui all’art. 253 cod. pen., essendo stati aggrediti beni direttamente impiegati per gli interessi primari dell’Arma dei Carabinieri.
Quanto infine alle esigenze cautelari, il Tribunale ne ha ritenuto la sussistenza in ragione della gravità dei fatti, della personalità dell’indagato e, in particolare, dopo aver adeguatamente valutato la pericolosità soggettiva dello stesso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei limiti e nei sensi che si vanno a precisare.
2. La ricostruzione fenomenica sussunta nell’impugnato provvedimento, già sintetizzata in parte narrativa, può essere integrata nel modo che segue. Un soggetto, allo stato rimasto ignoto, incaricava tal NOME COGNOME di appiccare un incendio, all’interno di una caserma della Forestale ubicata in Peschici; COGNOME, a sua volta, dava mandato per il compimento del gesto delittuoso ad NOME COGNOME e – a tal fine – lo riforniva di cd. diavolina (materiale infiammabile) e di alcuni vestiti, che gli lasciava in un luogo convenuto, sito a circa settanta metri dall’obiettivo.
COGNOME veniva seguito dalle telecamere di videosorveglianza installate in zona, mentre prelevava quanto lasciatogli e – dando esecuzione al mandato ricevuto – appiccava il fuoco, indossando gli indumenti che gli erano stati lasciati dal complice, per poi allontanarsi indisturbato. Il Tribunale del riesame menziona anche l’esistenza di una intercettazione, costituente ulteriore elemento gravante
sul ricorrente (si tratta di una conversazione intercorsa con la compagna, in cui COGNOME ammetterebbe le proprie responsabilità, affermando però di non aver immaginato potessero scatenarsi conseguenze tanto rilevanti).
2.1. Il Tribunale di Bari ha accolto l’appello inoltrato dal Pubblico ministero, avverso l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Foggia, che ne aveva disatteso la richiesta cautelare e, per l’effetto, ha annullato la decisione reiettiva e ha adottato una ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, nei confronti di NOME COGNOME. Tale provvedimento restrittivo della libertà personale è stato emesso in relazione ai reati di incendio doloso e di sabotaggio .
2.2. Il Giudice per le indagini preliminari, nel provvedimento che ha respinto la domanda cautelare di cui sopra, aveva ritenuto integrato non il reato di incendio, bensì un fatto di danneggiamento, riconducibile alla previsione di cui all’art. 635 secondo comma n. 1 cod. pen., ovvero di danneggiamento seguito da incendio, ex art. 424 cod. pen. Il Tribunale del riesame – nel riformare tale decisione – ha rimarcato l’avvenuta distruzione di due autovetture, di un computer, di impianti video, di una tettoia, di un contatore e di un impianto elettrico, evidenziando anche come una palazzina sia stata resa inservibile per diverso tempo; nell’impugnato provvedimento viene anche ricordato come sia stato necessario – al fine di domare le fiamme – l’intervento dei Vigili del Fuoco, stante anche l’ubicazione dello stabile in pieno centro cittadino.
Il primo motivo non merita condivisione alcuna, impregiudicati gli effetti determinati dall’accoglimento delle ulteriori doglianze seguenti e dal rilievo dei profili assorbiti.
Con esso, la difesa lamenta come il Tribunale del riesame si sia limitato a conformarsi alla richiesta di applicazione di misura (anzi, addirittura al contenuto dell’informativa di reato). Si duole la difesa, quindi, della asserita carenza di una autonoma valutazione, ad opera del Tribunale del riesame, il quale avrebbe in pratica operato un richiamo “per incorporazione”, rispetto alla richiesta del Pubblico ministero.
3.1. Giova allora precisare che, secondo i principi di diritto ripetutamente enunciati da questa Corte – in sede di appello proposto dal Pubblico ministero, avverso la decisione di rigetto di domanda cautelare – la riforma del provvedimento del Giudice per le indagini preliminari, che produca un esito sfavorevole per l’indagato non impone una motivazione rafforzata.
È sufficiente, infatti, che il giudice dell’appello cautelare compia una valutazione totale, autonoma e completa, in ordine agli elementi addotti dalle parti nel contraddittorio pieno, instaurando un fattivo confronto con le argomentazioni poste a fondamento della impugnata decisione; ciò in quanto – diversamente da quanto richiesto nel giudizio di merito – non è necessaria la dimostrazione, oltre ogni ragionevole dubbio, della insostenibilità della soluzione adottata dal primo giudice.
È però anche vero che – all’esito della verifica, sia pure implicita, in ordine agli argomenti che rappresentano l’architrave della decisione liberatoria impugnata – occorre che ogni divergente valutazione, adottata dal Tribunale, sia comunque dotata di maggiore persuasività e credibilità razionale, rispetto a quella riformata (così Sez. 1, n. 47361 del 09/1/2022, COGNOME, Rv. 283784-01 e Sez. 5, n. 28580 del 22/09/2020, M,. Rv. 279593 – 01). Siffatto obbligo di riconsiderazione, inevitabilmente, si coniuga con la prescrizione della necessaria autonoma valutazione, quanto alle esigenze cautelari e ai gravi indizi di colpevolezza, contenuta nell’art. 292, comma 2, lett. c), cod. proc pen., come modificato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, secondo cui, anche in sede di appello, il giudice deve esporre – rispetto agli elementi oggettivi emersi nel corso delle indagini, segnalati dalla richiesta del Pubblico ministero – il proprio esame critico e, correlativamente, le ragioni per cui egli li ritenga idonei a supportare l’applicazione della misura (si vedano Sez. 2, n. 33344 del 05/05/2023, COGNOME, Rv. 285020-01 e Sez. 3, n. 31022 del 22/03/2023, COGNOME, Rv. 284982-02).
3.2. Ferme tali regole ermeneutiche, nella concreta fattispecie emerge il contenuto fortemente generico della doglianza difensiva, che si risolve nella mera contestazione circa il convincimento espresso dall’impugnata ordinanza, senza che il dedotto vizio motivazionale venga analiticamente delineato; in tal modo, il motivo si colora di una marcata aspecificità e, quindi, finisce per essere inammissibile.
Per una esigenza di consequenzialità logica, è opportuno prendere in esame anzitutto il terzo motivo sussunto nell’atto di impugnazione; trattasi di una doglianza a mezzo della quale la difesa invoca la riqualificazione giuridica del fatto contestato sub 3), che sarebbe – in ipotesi difensiva – da ricondurre non sotto l’egida normativa dell’art. 253 cod. pen., bensì da qualificare ai sensi dell’art. 420 cod. pen.
4.1. È utile premettere come la fattispecie incriminatrice ex art. 253 cod. pen. presenti un carattere di specialità, rispetto alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 635 cod. pen.; tale figura tipica postula – quale elemento presupposto, in vista della stessa punibilità della ‘condotta – la destinazione a scopo militare delle
cose elencate (cose che possono anche non appartenere alle forze armate, purché si trovino – anche se in via temporanea – al servizio delle stesse).
Rispetto alla fattispecie incriminatrice del danneggiamento, l’elemento specializzante è rappresentato dall’oggetto, sul quale deve dirigersi l’azione atta a danneggiare. Quest’ultima deve indirizzarsi, infatti, su navi o aeromobili (quindi, su imbarcazioni propriamente dette, ma anche su pontili o zattere, nonché su ogni apparecchio che sia in grado di muoversi in aria, non rilevando, di questo, né la dimensione, né la tipologia di servizio al quale venga destinato), convogli (dizione che rimanda a un insieme coordinato di treni o veicoli, quale che ne sia la modalità di trazione), strade (sarebbe a dire, vie di comunicazione di qualsivoglia natura, in particolare terrestri o ferrate, senza che vi si possano però ricomprendere le vie d’acqua), stabilimenti (ossia immobili militari, fabbriche di ogni genere, cantieri e opifici), depositi (termine che indica siti di stoccaggio di scorte o materiale di variegata tipologia – dai viveri agli armamenti – a patto che sussista un possibile impiego di tali beni in campo militare), nonché su altre opere militari (quest’ultima è una dizione onnicomprensiva, nella quale possono ricondursi le trincee, gli sbarramenti, le installazioni radar o di difesa missilistica e antiaerea, le linee di comunicazione e, in genere, tutti i manufatti idonei a conferire valore strategico a un determinato sito).
4.1.1. Occorre tener presente, comunque, la natura rigida e tassativa dell’elencazione contenuta nella lettera della norma, con riferimento ai possibili oggetti dell’azione distruttiva. Giova precisare, sul punto, che l’interpretazione estensiva di una data previsione incriminatrice è concetto non sovrapponibile a quello di analogia, che è invece vietata – in via di principio – in ambito penale.
La prima, infatti, è il percorso concettuale che si pone in essere, allorquando il perimetro applicativo di una determinata figura tipica – a causa di una necessità di ordine logico, semantico, ovvero in virtù di una sostanziale equipollenza, riscontrabile nei dati empirici che la caratterizzano – venga esteso ad un caso, che, sebbene non rientrante nel medesimo ambito previsionale, secondo la rigorosa veste testuale dello schema normativo, si possa reputare ricompreso nella sfera di operatività della fattispecie stessa; operazione di “ricongiunzione”, che può esser compiuta all’esito di un ricollegamento ideale, del caso stesso alle intenzioni del Legislatore e, quindi, alla ratio de la norma, secondo il dettato dell’art. 12 delle Disposizioni della legge in generale.
L’interpretazione estensiva, pertanto, non incorre nelle limitazioni di cui all’art 14 delle Disposizioni sulla legge in generale. Essa non dilata (impropriamente) il contenuto precettivo effettivo della previsione incriminatrice e, pertanto, non viola il principio di tassatività delle fattispecie incriminatrici, bensì scongiura la possibilità che determinate condotte, soggette a previsione tipica già
esistente, possano restare ingiustamente immuni dalla disciplina precettiva e sanzionatoria, a causa di un immotivato limite, incongruamente desunto dall’esistenza di espressioni di tenore meramente letterale.
Dovere specifico dell’interprete è, infatti, quello di applicare la norma in maniera anche più estesa, rispetto al dato puramente testuale, così da far coincidere la portata della norma stessa con il pensiero e con la volontà del Legislatore (sul punto, si potranno vedere i principi di diritto risalenti, ma mai rivisitati, cristallizzati nelle decisioni assunte da Sez. 4, n. 11380 del 27/04/1990, COGNOME, rv. 185084 e da Sez. 5, n. 3297 del 08/01/1980, Riva, rv. 144606; si veda, da ultimo Sez. F, n. 33478 del 01/08/2024, M., Rv. 287162 – 01, a mente della quale: «L’interpretazione estensiva, a differenza dell’analogia, non incorre nelle limitazioni di cui all’art. 14 Preleggi, posto che non dilata impropriamente il contenuto effettivo della norma, ma ricongiunge la formulazione della stessa con la sua “rado”, scongiurando la possibilità che determinate fattispecie si sottraggano alla relativa disciplina, a causa di un limite incongruamente desunto da mere espressioni letterali»).
4.1.2. Il paradigma normativo ex art. 253 cod. pen. è costruito alla stregua di un reato comune, come si evince dall’utilizzo del termine chiunque per indicarne il soggetto agente (se ne può rendere protagonista, quindi, sia il cittadino, quanto – lo straniero o l’apolide). Allorquando di condotte del genere si renda protagonista un militare, si dovrà fare riferimento – secondo i casi – agli artt. 167, 168, 169 o 172 del cod. pen. mil . pace, ovvero – in tempo di guerra – all’art. 158 cod. pen. mil . guerra.
Quanto infine all’elemento psicologico, basta ad integrare la fattispecie tipica il dolo generico – autonomo, quindi, rispetto alo specifico fine che muova la condotta – rappresentato dalla coscienza e volontà di distruggere o sabotare un oggetto determinato.
4.2. Nella concreta vicenda, l’unico bene rispetto al quale sia astrattamente possibile configurare – con riferimento alla condotta lesiva posta in essere dall’indagato – una distruzione o un sabotaggio conformi al paradigma normativo in argomento è la caserma; e correttamente, infatti, solo tale bene viene menzionato sub 3) dell’incolpazione. Giova precisare che la ricomprensione della caserma, nell’alveo delle cose sulle quali può svolgersi la condotta tipizzata dal paradigma normativo in argomento, non confligge con la natura squisitamente tassativa dell’elencazione ivi operata, posto che è la stessa lettera della disposizione codicistica che annovera anche “altre opere militari …”.
Una caserma, del resto, è un edificio primariamente destinato a ospitare alloggi per il personale e uffici, ma nel quale si trovano ordinariamente allocate anche armi, riserve di munizioni, attrezzature propriamente militari della più
variegata tipologia e che – appunto in ragione di tali caratteristiche ontologiche e funzionali – non si differenzia dagli arsenali e dalle polveriere e, in genere, da tutti gli edifici definibili, in maniera ampia, “stabilimenti” (in quanto precipuamente qualificabili come costruzioni militari, ovvero come immobili destinati a svolgere funzioni ausiliarie, per essere adibite al servizio dell’esercito, come fabbriche private di oggetti destinati alle forniture militari).
La giurisprudenza di legittimità, infine, ha chiarito come siano da considerare adibite al servizio delle forze armate quelle opere che – sebbene in origine destinate a un diverso scopo – vengano poi adibite allo svolgimento di servizi rilevanti, nell’interesse primario e per fini istituzionali delle forze armate (si veda Sez. 1, n. 3744 del 30/01/1992, COGNOME, Rv. 189713, riferita al sabotaggio di un elaboratore dati del Comando territoriale di Roma, utilizzato per il censimento degli iscritti nelle liste di leva, che è stato considerato quale bene impiegato direttamente per il soddisfacimento di scopi primari delle forze armate dello Stato; per una approfondita analisi del modello legale, si potrà poi leggere Sez. 1, n. 3595 del 24/03/2021, Belculfiné, n.m.).
4.3. Ricondotto l’oggetto dell’azione lesiva – con esclusivo riferimento alla caserma – alla tassativa elencazione descrittiva, contenuta nella lettera della fattispecie incriminatrice, deve passarsi a verificare se si sia verificata una azione conforme a quella tipica, causalmente incidente su tale res.
4.3.1. Per quanto inerisce al versante oggettivo della condotta vietata, si evince come – già sotto il profilo semantico – il concetto di “distruzione”, richiamato dalla norma, stia a indicare il disfacimento fisico dell’oggetto dell’azione, per cui questa smette di esistere nella medesima conformazione e consistenza strutturale che aveva anteriormente; la nozione di “sabotaggio”, invece, rimanda al concetto di inservibilità, totale o parziale, tale che la res dopo che sia stato posto in essere il comportamento tipico, sia essa di matrice commissiva, ovvero si atteggi quale fatto omissivo – non risulti poi idonea, anche temporaneamente, ad essere adoperata per lo scopo al quale era destinata.
L’azione è sostanzialmente sovrapponibile a quella del danneggiamento, laddove esso produca una modificazione della cosa altrui, che sia atta a diminuirne in modo apprezzabile il valore, ovvero a inibirne anche parzialmente l’uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità della cosa stessa.
È anche utile rappresentare come la locuzione “rendere “inservibile”, adoperata in sede di descrizione della condotta tipica sotto il profilo materiale, abbracci – conformemente alla tecnica definitoria di incriminazione che è propria della fattispecie causalmente orientate – ogni comportamento atto a incidere sulla
cosa, rendendola non più idonea, anche solo in parte o per un limitato periodo di tempo, a essere impiegata per quello che ne costituisce lo scopo proprio.
Il concetto di inservibilità temporanea della cosa, peraltro, non postula la sussistenza di un evento di danno in senso strettamente naturalistico, potendosi esso configurare in tutti quei casi che cagionano una inutilizzabilità o, quantomeno, una compromissione economico-funzionale, incidente sull’impiego tipico del bene, in correlazione alla destinazione naturale dello stesso.
L’azione non è, peraltro, delineata dalla norma incriminatrice quale fatto umano finalizzato a realizzare un qualsivoglia profitto di tipo economico, potendo quest’ultimo, al più, caratterizzarne il movente. La condotta, piuttosto, refluisce sul bene con l’intento tipico di renderlo inservibile, arrecando nocumento allo svolgimento del servizio. Questo connotato contraddistingue il fatto di sabotaggio e ne definisce il dolo relativo, ancorandolo alla rappresentazione e volizione dei suoi elementi costitutivi e concentrando il nucleo di tutela sul danneggiamento o sull’inservibilità del bene militare, a prescindere dai fini – di natura intimistica che sorreggono l’azione e che, al più, possono rilevare quali moventi del gesto antigiuridico.
4.3.2. Nella concreta vicenda, non è stato adeguatamente scandagliato dal Tribunale del riesame il tema della sussistenza della gravità indiziaria, quanto alla concretizzazione – in conseguenza dell’azione posta in essere dall’indagato – di una situazione di inservibilità temporanea della caserma. Molte delle conseguenze pregiudizievoli elencate nell’avversata ordinanza, causalmente ricollegabili all’azione posta in essere dall’indagato – riguardano infatti:
il corredo di strumenti posti a servizio del personale operante all’interno della caserma, in vista dello svolgimento del servizio di istituto (sono state completamente distrutte, infatti, due autovetture militari, che però non rientrano nel fuoco della tipicità, che invece si riferisce, come sopra ricordato, a “navi e aeromobili”);
parti circoscritte, non strutturali e nemmeno essenziali dello stabile (segnatamente, l’attività distruttiva ha attinto la tettoia, sotto la quale si trovavano parcheggiati i due veicoli militari di cui sopra, oltre che la porta di ingresso alla caserma e il cancello carraio, il sistema di videosorveglianza e, infine, il quadro elettrico posto nell’area deputata al parcheggio dei mezzi);
materiali di servizio ed equipaggiamento militare, come gli apparati radio veicolari e le palette di ordinanza;
strumentazione informatica e dotazione interna, comprensiva di computer e software istituzionali, che sono stati resi inutilizzabili per circa una settimana.
L’impugnato provvedimento, in realtà, si sofferma sul profilo delle conseguenze riconducibili alla condotta delittuosa in esame, esclusivamente per
sottolineare le difficoltà di ripristino dei vari servizi, ovvero di sostituzione dei diversi beni strumentali attinti dalle fiamme; non analizza in modo lineare ed esaustivo, però, il punto nodale della questione, ossia quello attinente alla necessità che si sia verificata una inservibilità, pur temporanea, della caserma, ossia di uno degli oggetti testualmente elencati dalla norma.
4.4. Un ulteriore vulnus dell’apparato motivazionale adottato dal Tribunale del riesame, poi, è riscontrabile nel mancato confronto con il tema della configurabilità dell’ipotizzato delitto ex art. 253 cod. pen., quanto al versante della lesione dello specifico bene giuridico protetto dallo stesso.
4.4.1. In punto di inquadramento dogmatico e sistematico, la figura tipica ex art. 253 cod. pen. è ricompresa nel Capo Primo del Titolo Primo del Libro Secondo del Codice (Titolo intitolato “Dei delitti contro la personalità dello Stato”), tra i delitti contro la personalità internazionale dello Stato. Quanto al bene giuridico protetto, oggetto specifico della tutela assicurata dall’ordinamento è l’interesse dello Stato – esistente tanto in tempo di pace, quanto nel corso di una guerra – a scongiurare che possano esser poste in pericolo la sua preparazione o la sua efficienza militare, in forza di una attività di distruzione, ovvero del sabotaggio di determinate categorie di beni, oggetto di elencazione nella norma stessa. Tale modello legale, pertanto, presenta una oggettività giuridica specifica e ben individuata, da rinvenirsi nel sopra detto interesse dello Stato, ad evitare la verificazione di una situazione di rischio per le proprie capacità belliche.
4.4.2. Posta tale incontestata base teorica, il paradigma normativo impone il confronto, quindi, con il tema della sussistenza di una lesione effettiva al sopra delineato bene giuridico. La fattispecie incriminatrice, peraltro, è di competenza della Corte di assise e prevede una pena particolarmente severa, che è stabilita solo nel minimo e che non può essere inferiore agli otto anni di reclusione; una pena che – in presenza delle forme di manifestazione indicate nel secondo comma della disposizione codicistica (rispettivamente, commissione del fatto nell’interesse di uno Stato in guerra contro lo Stato italiano e fatto che comprometta la preparazione o l’efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari) – può giungere fino all’ergastolo.
Appunto in ragione del tipo di interesse tutelato, tale norma non può essere interpretata in modo slabbrato e sommario, occorrendo sempre tenere ben distinti i casi in cui si verifichino meri danneggiamenti – o anche difficoltà di svolgimento di servizi istituzionali – dalle situazioni che effettivamente concretizzino una lesione all’interesse tutelato dalla norma. Tale indagine, nell’apparato argomentativo dell’ordinanza impugnata, si dipana in modo apodittico e tautologico; emerge, pertanto, una evidente insufficienza motivatoria.
4.5. Per sola completezza di analisi e di esposizione, non può sottacersi come sia improponibile la riconduzione del fatto sotto l’egida normativa dell’art. 420 cod. pen., pure auspicata dalla difesa; tale figura criminosa, infatti, è strutturata quale delitto di attentato contro l’ordine pubblico, che si rivolge verso beni mobili o immobili funzionalmente diretti alla produzione di beni o alla prestazione di servizi (si pensi a una centrale telefonica, ovvero a un impianto idrico). Non vi è chi non rilevi, allora, la impossibilità di far rientrare entro tal ambito concettuale la caserma.
5. A mezzo del secondo motivo, la difesa censura la mancata riconduzione della condotta accertata entro l’alveo previsionale dell’art. 424 cod. pen., piuttosto che dell’art. 423 cod. pen., come invece ritenuto nella ordinanza impugnata; secondo la prospettazione sussunta nell’atto di impugnazione, infatti, l’indagato avrebbe mirato esclusivamente a danneggiare le autovetture, che al momento si trovavano in sosta nel parcheggio della caserma, non avendo invece in animo di cagionare un fuoco di grandi proporzioni.
5.1. Oppone il Tribunale del riesame come la figura delittuosa di cui all’art. 423 cod. pen. postuli la sussistenza del solo dolo generico, essendosi peraltro verificato un fuoco di vaste dimensioni e di grande potenza propagatrice. Aggiungono i Giudici del riesame come non sia sostenibile che il ricorrente non prevedesse l’impetuoso propagarsi delle fiamme, avendo egli appiccato il fuoco a mezzo di combustibile solido – ad autovetture i cui serbatoi erano colmi di carburante.
5.2. Sono anzitutto pacifici i principi di diritto che segnano la linea di demarcazione esistente, fra le figure tipiche ex artt. 423 e 424 cod. pen. (è bastevole rifarsi, sul punto al dictum di Sez. 1, n. 29294 del 17/05/2019, COGNOME, Rv. 276402, a mente della quale: «I delitti di incendio e di danneggiamento seguito da incendio si distinguono in relazione all’elemento psicologico in quanto mentre il primo è connotato dal dolo generico, ovvero dalla volontà di cagionare l’evento con fiamme che, per le loro caratteristiche e la loro violenza, tendono a propagarsi in modo da creare un effettivo pericolo per la pubblica incolumità, il secondo è connotato dal dolo specifico di danneggiare la cosa altrui, senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di siffatto evento»).
Posto ciò, il Collegio osserva che la sopra esposta esigenza di rivalutazione, in punto di sussistenza della figura delittuosa ex art. 253 cod. pen., in relazione al profilo inerente alla individuazione e alla valutazione della natura del fuoco appiccato dall’indagato al momento del contrasto e del conseguente spegnimento delle fiamme, determina la consequenziale necessità di una complessiva
riponderazione quanto alla possibilità di ritenere integrata la figura tipica ex 423 cod. pen., anche con riferimento al coefficiente psicologico che sorregge la stretta materialità del fatto, oltre che in punto di, ancora antecedente, verifica gradiente di concreta offensività richiesto dalla norma applicata, a fronte di quel disciplinante la fattispecie contigua prospettata dalla difesa.
Il quarto motivo, inerente al tema delle esigenze cautelari, resta assorbito dalla fondatezza delle censure ulteriori, nei termini sopra esposti.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il provvedimento impugnato viene annullato, con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Bari, competente ai sensi dell’art. 309, comma 7, cod. proc. pen.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Bari competente ai sensi dell’art. 309, co. 7, cod. proc. pen. Così deciso in Roma, 22 novembre 2024.