Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 32936 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 32936 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 18/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato il 14/07/1962 a Anguillara Sabazia avverso la sentenza del 07/11/2024 dalla Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procu NOME COGNOME che chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile; udito l’Avv. NOME COGNOME che insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di Roma confermava sentenza di primo grado che aveva assolto NOME COGNOME per insussisten del fatto, dall’accusa di induzione indebita (art. 319-quater cod. pen.) (capo b di
imputazione) e ritenuto la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. p reato di rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326, comma 1, cod. pen.) (capo cui era stato riqualificata l’originaria contestazione ex art. 326, comma 3, cod., pen.), per aver l’imputato, in qualità di luogotenente della Guardia di finan violazione dei doveri inerenti alle funzioni al servizio, illegittimamente r notizie d’ufficio che dovevano rimanere segrete.
Avverso la sentenza della Corte d’appello per il tramite dell’Avv. NOME COGNOME ha presentato ricorso l’imputato, deducendo due motivi.
2.1. Errata applicazione dell’art. 326, comma 1, cod. pen. sotto i seg aspetti.
2.1.1. Le informazioni inviate dall’imputato a NOME COGNOME non eran segrete né riservate.
Al contrario, l’esistenza di una partita IVA, se ancora attiva, è not dominio pubblico, come si desume dall’art 35-quater d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
D’altronde, nel portale dell’Agenzia delle entrate è attivo, sin dal 2 quindi anche al tempo dei fatti, nel 2015), il Servizio di verifica della parti
Dunque, il suggerimento del ricorrente non era finalizzato a sanare u violazione fiscale, ma, al limite a regolarizzare l’eventuale aggiornamento pratica di chiusura della partita IVA, essendo all’epoca dei fatti NOME COGNOME ottantenne.
2.1.2. Le informazioni inviate dall’imputato a NOME COGNOME riguar all’esistenza di un controllo sulle partite IVA, non potevano avvantaggia contribuente, poiché generiche (Sez. 6, n. 39312 del 01/07/2022, COGNOME Rv. 283941; Sez. 6, n. 19212 del 15/03/2013, COGNOME, Rv. 255134), come anche emerge dalle testimonianze di NOME e di NOME COGNOME.
L’assunto della Corte d’appello – per cui l’imputato non si sarebbe limit parlare dell’esistenza di un controllo, ma ne avrebbe anche riferito i contenu consentire al contribuente di “correre ai ripari” – è indimostrato, nessun’a ispettiva essendo stata realizzata dalla Guardia di finanza e dalle verifiche e risultata la coincidenza tra il luogo di esercizio e quello riportato nel p elaborato dalla Guardia di finanza per il “controllo scontrini”. Non si pose l’esigenza di contestare al contribuente la violazione dell’art. 35 d.P.R. n. 1972 cit.
2.1.3. Premesso che l’art. 326 cod. pen. è un reato di pericolo, la con dell’imputato non avrebbe potuto compromettere l’attività ispettiva della Gua di finanza, né avvantaggiò il contribuente estraneo.
Nessuna attività ispettiva nei confronti del contribuente ditta individuale NOME COGNOME fu intrapresa, poiché mai emersero anomalie di rilievo rispetto alla permanenza in attività della partita IVA ed essendovi coincidenza tra il luogo di esercizio effettivo e quello indicato nel prospetto di lavoro della Guardia di Finanza, contenente gli esercenti da controllare e la visura dell’Anagrafe tributaria (vd. infra), come anche risultò dalla testimonianza del Capitano COGNOME comandante della Compagnia di Ladispoli.
2.1.4. Insussistenza di attività di controllo fiscale nei confronti di NOME COGNOME come confermato dal Capitano NOME COGNOME all’udienza del 6 ottobre 2020.
2.1.5. Insussistenza della violazione dell’art. 35 d.P.R. n. 633 del 1972 cit. e dell’art. 5 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.
Secondo l’accusa – che riformulò il capo di imputazione ancorando il reato non più alla permanenza della partita IVA, ma alla violazione per il mancato aggiornamento presso l’Agenzia delle entrate dell’indirizzo del luogo di esercizio dell’impresa di NOME COGNOME ex art. 35 d.P.R. n. 633 del 1972 cit. – l’impresa era ubicata in una sede diversa rispetto a quella indicata nella visura estratta dall’anagrafe tributaria.
Tuttavia, il documento prodotto dal Pubblico Ministero fu estrapolato dall’anagrafe tributaria il giorno prima dell’udienza del 6 ottobre 2020 – e cioè a distanza di ben cinque anni dai fatti – e sottoposto al teste COGNOME che confermò il contenuto della visura, senza dichiarare che invece la pescheria dell’imprenditore, come ben sapeva, si trovava non al civico n. 72, bensì al civico nINDIRIZZO, di INDIRIZZO
All’udienza del 31 maggio 2022 venne mostrata al Maresciallo COGNOME la richiamata visura del 5 ottobre 2020, ed ella dichiarò, contrariamente al vero, che si trattava della visura da lei originariamente estrapolata, sebbene avesse una matricola meccanografica riconducibile ad altro militare, mai ascoltato nel corso del dibattimento.
Peraltro, all’interno della piattaforma in uso ad Agenzia delle Entrate è consentito all’utente di scegliere diverse opzioni, a seconda della “fonte di collegamento” IVA ovvero CCIAA (Camera di Commercio), che consentono informazioni settoriali e differenti. E può ben accadere che la fonte di collegamento CCIAA (Camera di Commercio) – diversa, come detto, dalla fonte IVA – non sia aggiornata.
Appunto dalla fonte di collegamento CCIAA furono desunti i dati della visura anagrafica del 5 ottobre 2020, cui va pertanto disconosciuta valenza probatoria in relazione al capo b).
Né è possibile ipotizzare che i dati in essa riportati coincidessero con quelli della visura originariamente estratta da COGNOME – fonte di collegamento IVA -, non essendo stata tale visura rinvenuta né sequestrata.
D’altronde, quanto affermato dall’imputato – e cioè che non vi erano discrasie tra la visura anagrafica e il luogo di esercizio – fu confermato da NOME COGNOME la quale, in qualità di commercialista, aveva variato (negli anni 2001/2002) il luogo di esercizio della ditta del padre dal civico n. 72 al civico n. 114.
Ne discende che anche NOME COGNOME mentì quando disse di essere stato informato da COGNOME che erano in corso controlli a carico della ditta del padre e che era emerso un problema sulla sede operativa (lo stesso teste COGNOME escluse che nel 2018 poteva affermare che nel 2015 quel civico non corrispondesse al luogo di esercizio).
Violazione degli artt. 197 e 197-bis cod. proc. pen., nonché dell’art. 210 cod. proc. pen.
Sia in primo sia in secondo grado l’imputato chiese la rinnovazione parziale dell’istruzione dibattimentale perché il teste NOME COGNOME originariamente coimputato con COGNOME non fu ascoltato come testimone assistito, con le garanzie dell’art. 210 cod. proc. pen.
Egli fu sentito, all’udienza del 6 ottobre 2020, quale testimone comune, sulla base del presupposto, preannunciato verbalmente dal Pubblico ministero, che nei suoi confronti era stata disposta archiviazione, sebbene il decreto di archiviazione venne depositato soltanto il 21 settembre 2021 (la richiesta fu formulata il 4 giugno 2018 (Oaccolta dal Giudice per le indagini preliminari il 13 giugno 2018).
Inoltre, tale provvedimento di archiviazione non rileva, in quanto concernente altra ipotesi di reato (corruzione), differente da quella contestata all’imputato, e cioè induzione indebita.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Ai fini di una più agevole esposizione dei motivi per cui si ritiene il ricorso inammissibile, è bene riassumere la vicenda fattuale, quale desumibile dalle sentenze di merito.
2.1. L’imputato, Luogotenente della Guardia di finanza e Comandante della Sezione operativa Volanti della Compagnia di Ladispoli, si era recato presso una banca per aprire un conto corrente che, nelle originarie intenzioni, era funzionale a richiedere un mutuo. All’incontro partecipava, tra gli altri, NOME COGNOME direttore della filiale. Il conto corrente era aperto al tasso di interesse di 0.30, p portato a 0.90, a seguito di due cospicui versamenti effettuati da COGNOME.
Verso la fine del 2015, l’imputato chiedeva a NOME COGNOME se conoscesse tale NOME COGNOME informandolo che la Guardia di finanza stava effettuando controlli nei confronti di alcune attività economiche tra cui quelle riferibili predetto e, ricevuta conferma del rapporto di parentela, specificava che il controllo verteva sulla mancata comunicazione del cambio della sede operativa.
NOME COGNOME rimaneva perplesso, poiché il padre era ormai in pensione già da tempo ed aveva passato l’attività in gestione al fratello; riportava la conversazione alla sorella NOME, commercialista che seguiva le pratiche del padre, la quale non coglieva il nucleo della questione e lo rassicurava, dicendogli che «era tutto a posto».
COGNOME, in data successiva, nell’effettuare la domiciliazione bancaria delle proprie utenze, inviava una email a NOME COGNOME aggiungendo, come post scriptum, la frase «La partita IVA di tuo padre risulta ancora attiva … provvedi alla regolarizzazione ovvero alla chiusura! Poi ti spiego … comunque tutto ok».
Ne nasceva un procedimento penale in relazione alle ipotesi di tentata induzione indebita (art. 319-quater cod. pen.) (capo b) e di utilizzazione di segreto d’ufficio (art. 326, comma 3, cod. pen.) (capo a), per i quali l’imputato è stato assolto in primo grado, rispettivamente perché il fatto non sussiste e – riqualificata l’utilizzazione in divulgazione di segreto d’ufficio (ai sensi dell’art. 326, comma 1, cod. pen.) – per la ritenuta particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.).
Ciò detto, ed invertendo l’ordine del ricorso, il secondo motivo è inammissibile.
2.1. La Corte d’appello, nell’escludere la necessità di procedere a rinnovazione dibattimentale (ritenendo sufficienti fatti e tempistiche ricostruiti alla luce del dichiarazioni di NOME COGNOME e NOME COGNOME e sufficiente che COGNOME sapesse che il nominativo di NOME COGNOME era inserito in uno dei prospetti rinvenuti all’interno del suo personal computer), con specifico riferimento alla violazione dell’art. 210 cod. proc. pen., ha ripreso la valutazione del Giudice di primo grado, osservando che, quando fu sentito il teste, era già intervenuta archiviazione della sua posizione, poiché, ai fini del concorso dell’estraneo nella rivelazione di segreto d’ufficio, occorre che questi, lungi dall’essersi limitato a ricevere la notizia, abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale a rivelarla (element che non risultò provato per NOME COGNOME).
2.2. Tale valutazione è ineccepibile. D’altronde, già in base alle date riportate nel ricorso, deve escludersi che NOME COGNOME fosse coimputato al momento in cui rese la testimonianza: essendo egli stato sentito all’udienza del 6 ottobre 2020, quando il Pubblico ministero aveva già fatto richiesta di archiviazione (il 4 giugno 2018) ed il Giudice delle indagini preliminari l’aveva accolta (il 13 giugno 2018).
Anche il primo motivo di ricorso è inammissibile.
3.1. Il ricorrente nega la configurabilità del tipo, innanzitutto, perché le notizie inerenti alla partita IVA dell’impresa del padre di NOME COGNOME non erano segrete né riservate.
Ma tale impostazione deriva da un fraintendimento, essendo chiaro che, nel caso di specie, la segretezza riguardava l’imminenza di accertamenti fiscali e non i dati, in sé, inerenti alla partita IVA.
3.2. Il ricorrente argomenta poi dalla natura di pericolo “concreto” del reato, sostenendo come la rivelazione non potesse avvantaggiare il contribuente, poiché le notizie erano in sé generiche, e richiama a tal fine la giurisprudenza di questa Corte.
Ebbene, vero è che l’art. 326, comma 1, cod. pen. descrive il reato in termini di pericolo concreto o, con il lessico di questa Corte, “effettivo” (Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 251271, secondo cui la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta). Tale forma di offesa risulta, tuttavia, integrata nel caso di specie, dove il pericolo si inverò nell possibilità che la rivelazione del segreto d’ufficio consentisse all’interessato di eludere gli accertamenti fiscali, inerenti – come risulta sin dal capo di imputazione ed è stato accertato nei due gradi di giudizio di merito – non soltanto alla mancata chiusura della partita IVA, ma anche alla mancata comunicazione della variazione della sede operativa dell’impresa di NOME COGNOME
A ciò va aggiunto che la Corte d’appello ha correttamente escluso che il richiamo alla giurisprudenza citata nel ricorso fosse pertinente, dal momento che in essa (Sez. 6, n. 39312 del 01/07/2022, COGNOME, Rv. 283941; Sez. 6, n. 19212 del 15/03/2013, COGNOME, Rv. 255134) si reputa sì irrilevante la notizia dello svolgimento di una verifica fiscale nei confronti di un contribuente, ma in casi in cui tale verifica era già stata compiuta ed in cui le informazioni “non” facevano riferimento al suo contenuto: al contrario di quanto accaduto, sotto entrambi i profili, nel caso in oggetto (in cui le verifiche erano in corso, e avrebbero ancora dovuto interessare la ditta di NOME COGNOME, e le informazioni rivelate furono specifiche e dettagliate).
3.3. Ancora, il ricorrente fa discendere l’insussistenza del reato dalla mancata constatazione, da parte della Guardia di Finanza, di anomalie sempre in rapporto al duplice aspetto della permanenza in attività della partita IVA e dell’indicazione della sede operativa dell’impresa.
Quand’anche così fosse (vd. in fra), i mancati controlli fiscali sarebbero però inconferenti rispetto all’integrazione del delitto di violazione del segreto d’ufficio.
L’offesa dell’art. 326, comma 1, cod. pen. è, infatti, declinata in termini di pericolo “concreto”, ma pur sempre di pericolo: la fattispecie demandando al giudice una valutazione sulla probabilità di danno, che va comunque svolta ex ante e non ex post, sulla base di una c.d. prognosi postuma. Di conseguenza, l’eccepita mancata contestazione di irregolarità fiscali è un dato neutro e del tutto inconferente.
3.4. Infine, il ricorrente nega ab imis che dalla rivelazione delle notizie da parte dell’imputato potesse derivare un pericolo, spingendosi ad ipotizzare una sorta di reato impossibile per inesistenza dell’oggetto e, cioè, ad escludere che violazioni fossero mai state realizzate dal contribuente NOME COGNOME.
Sostiene, in particolare, che le visure furono estratte da “fonti di collegamento” diverse, la seconda delle quali (fonte di collegamento: Camera di Commercio) – sulla cui base era stato, in seconda battuta, ipotizzato dall’accusa il non dichiarato mutamento di sede operativa dell’impresa – non era attendibile.
Sul punto va chiarito che i Giudici dell’appello, conformemente a quanto ritenuto in primo grado, hanno rilevato come la visura originaria non risultasse acquisita agli atti (il che è riconosciuto nel ricorso), a causa della mancata prestazione del consenso da parte della difesa dell’imputato (aspetto su cui invece il ricorso tace) e che, ciò nondimeno, dalle testimonianze dei militari della Finanza (resesi per tale ragione indispensabili), fosse emerso «che l’estrapolazione della visura all’anagrafe tributaria del 30 ottobre 2015 fu richiesta al M.NOME COGNOME NOME dallo stesso imputato», ritenendo «altrettanto pacifico che i dati dell’esercizio commerciale fossero, quanto all’indirizzo, i medesimi verificati dallo COGNOME che riferiva in dibattimento come fosse emerso che dal 15 ottobre 2014 e fino al 1 gennaio 2016 risultava indicato come luogo di esercizio Trevignano Romano, INDIRIZZO senza l’indicazione del trasferimento a INDIRIZZO».
Alla luce di tali (nette) affermazioni, le obiezioni del ricorrente, che pure formalmente invocano l’erronea applicazione della legge penale, si risolvono nell’invito ad operare un diverso apprezzamento del quadro delle prove – non ammissibile in sede di legittimità -, se non nell’eccezione di un vero e proprio travisamento probatorio, la cui rilevanza in Cassazione è consentita entro limiti molto ristretti e, in questo caso, non configurabili (si veda, in particolare, Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085, la quale esplicita come, tra gli altri requisiti, sia richiesta la prova della verità dell’elemento fattuale o del da probatorio invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda: ciò che, per le ragioni poc’anzi esposte, non è accaduto nel caso di specie).
•
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue per legge la condann al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, che si stima equo quantificare in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 18 settembre 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente