Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 2159 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 2159 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NASTASI NOME, nato a Castelvetrano il 3.5.1947
avverso l’ordinanza della Corte d’Assise di Appello di Palermo del 30.5.2024
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza resa in data 30.5.2024, la Corte d’Assise di Appello di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha provveduto su una istanza, presentata nell’interesse di COGNOME NOME, di commutazione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno, irrogatagli con sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo del 25.10.2002, che aveva confermato la sentenza della Corte d’Assise di Trapani del 19.5.2000.
L’istanza rappresentava che, durante il giudizio di primo grado ) COGNOME aveva chiesto, all’udienza del 10.1.2000, di essere ammesso al giudizio abbreviato, a seguito dell’entrata in vigore, in data 2.1.2020, dell’art. 30 della legge n. 479 del 1999, il quale stabiliva che, in caso di ammissione al giudizio abbreviato, la pena
dell’ergastolo fosse sostituita con quella della reclusione di trent’anni. Segnalava, altresì, che l’art. 4-ter, comnna 2, D.L. 7 aprile 2000, n. 82, aveva esplicitamente esteso ai giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore le disposizioni di cui alla legge n. 479 del 1999, a determinate condizioni. Quindi, l’art. 7 D.Lgs. n. 341 del 2000, contenente una norma di carattere intertemporale, era stata a sua volta dichiarato incostituzionale con sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale, che di fatto aveva aperto la strada alla modifica dei giudicati penali di condanna nei confronti di coloro i quali, già ammessi al rito abbreviato, aspirassero alla rideterminazione della pena in trent’anni di reclusione, secondo i principi enunciati dalla Corte EDU nella sentenza COGNOME. Secondo queste sentenze, l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., benché inserito in una legge processuale, è da considerarsi norma di diritto penale sostanziale, a ragione della sua diretta incidenza sull’entità della pena da infliggere; di conseguenza, soggiace al principio di legalità della pena di cui all’art. 7 della CEDU, che nell’interpretazione della Corte di Strasburgo deve essere inteso come comprensivo anche del principio della retroattività/ultrattività della legge più favorevole. Secondo questa ricostruzione, il ricorrente avrebbe avuto diritto alla rideterminazione della pena, in considerazione del fatto che la sua aspettativa in questo senso si è cristallizzata con la richiesta di rito abbreviato del 10.1.2000.
In secondo luogo, con una memoria del 27.4.2024 la difesa di COGNOME aveva anche sollevato questione di incostituzionalità dell’art. 4 -ter legge n. 144 del 2000, con riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., perché finirebbe con assoggettare imputati condannati per medesimi reati a differenti regimi sanzionatori a seconda delle fasi processuali delle relative richieste di rito alternativo.
L’istanza è stata complessivamente rigettata, con ordinanza nella quale si premette che la Corte d’Assise di Palermo all’udienza del 10.1.2000 aveva dichiarato l’inammissibilità della richiesta ai sensi dell’art. 223 D.Lgs. n. 51 del 1998, il quale consentiva agli imputati di presentare istanza di ammissione al rito abbreviato soltanto nel caso in cui non fosse ancora iniziata l’istruttoria dibattimentale, che invece in quel processo aveva già avuto inizio. Tale decisione – ha osservato l’ordinanza impugnata – non era mai stata gravata, sicché il ricorrente era stato condannato alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per un anno. Nel corso del giudizio di appello, poi, l’imputato e il suo difensore non avevano mai chiesto di avvalersi dell’art. 4 -ter legge n. 144 del 2000 (di conversione del DL n. 892 del 2000), il quale, a determinate condizioni, aveva stabilito l’estensione ai giudizi pendenti delle disposizioni di cui alla legge c.d. Carotti, che aveva previsto che potesse essere ammesso al rito abbreviato anche l’imputato di reato punito con l’ergastolo, ancorché fosse scaduto il termine per la presentazione della richiesta ma sempre che non fosse ancora iniziata l’istruttoria
dibattimentale alla data di entrata in vigore della legge di conversione. E l’art. 4ter aveva altresì previsto che la richiesta fosse ammessa in appello, ove presentata nel giudizio di primo grado prima della conclusione dell’istruttoria dibattimentale ovvero nel giudizio di appello.
Secondo la Corte d’Assise d’Appello di Palermo, la circostanza che l’imputato in sede di appello non abbia chiesto di essere ammesso al rito abbreviato è risolutiva di ogni questione, in quanto la richiesta rigettata legittimamente all’udienza del 10.1.2000 non ha cristallizzato alcuna posizione di aspettativa o di maturato diritto. Sia la sentenza COGNOME che gli arresti di legittimità, che si sono ad essa succeduti in questa materia, prevedono che l’accesso in sede di esecuzione alla conversione dell’ergastolo nella pena di trent’anni di reclusione sia riservata esclusivamente a coloro i quali in sede di merito siano stati ammessi al rito speciale, mentre nel caso di specie il ricorrente non è stato ammesso, né ha chiesto di essere ammesso nel giudizio di appello quando avrebbe ancora potuto farlo.
Quanto alla questione di incostituzionalità, poi, l’ordinanza impugnata ha osservato che si tratti di questione già rigettata da varie pronunce della Corte costituzionale, tra cui l’ordinanza n. 235 del 2013, che ha ribadito la manifesta inammissibilità della questione, nonché l’ordinanza n. 147 del 2021, con la quale, su un caso simile a quello dell’odierno ricorrente, è stato rimarcato come l’imputato non avesse in quel caso rispettato le tempistiche processuali per accedere al rito abbreviato in sede di cognizione e, quindi, non potesse sanare la situazione in sede esecutiva; di conseguenza, l’istante in quel procedimento, secondo la Corte costituzionale, non aveva mai acquisito nel proprio patrimonio giuridico il diritto a essere giudicato con il rito abbreviato sulla base della disciplina della legge n. 479 del 1999.
Avverso la predetta ordinanza, ha proposto ricorso il difensore di COGNOME NOMECOGNOME articolandolo in due motivi.
2.1 Con il primo motivo, deduce la violazione dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione agli art. 666 cod. proc. pen., 30, comma 1, lett. b) L. 479/99, 4 -ter L. 144/2000.
Osserva che la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 7 DL. n. 341 del 2000 ha stabilito il diritto degli imputati di reati punibili con l’ergastolo, che hanno richiesto il giudizio abbreviato nel vigore della disposizione dichiarata incostituzionale, al trattamento penale di favore della condanna ad anni trenta in luogo dell’ergastolo. Il principio riconosciuto dall’art. 7 CEDU della retroattività/ ultrattività della lex mitior non incontra ostacoli di operatività, essendo possibile in sede esecutiva procedere all’applicazione del trattamento più mite sempre che la pena più grave sia ancora in corso di esecuzione o ne perdurino gli effetti.
L’ordinamento nazionale ha l’obbligo di uniformarsi ai principi fissati dalla CEDU e, di conseguenza, il giudice dell’esecuzione ha il potere di ridurre la frazione di pena in eccesso.
Orbene, il ricorrente ha presentato tempestivamente istanza di giudizio abbreviato e, dunque, deve riconoscersi che egli è stato pregiudicato, perché aveva diritto all’applicazione della normativa a lui più favorevole.
Questo principio è desumibile anche dalle sentenze delle Sezioni Unite Ercolano e COGNOME, la quale ultima ha espressamente affermato che la più favorevole disposizione dell’art. 30, comnna 1, lett. b), della legge COGNOME deve trovare applicazione per quei soggetti che abbiano chiesto di accedere al rito abbreviato durante la vigenza di questa disposizione, cioè nell’arco di tempo compreso tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000. Anche per effetto della sentenza COGNOME, peraltro, il ricorrente ha diritto all’applicazione della disciplina più favorevole.
2.2 Con il secondo motivo, deduce la illegittimità costituzionale dell’art. 4-ter DL n. 82 del 2000, convertito in L. n. 144 del 2000, per contrasto con l’art. 117, connma 1, Cost. in relazione agli art. 5 e 6 CEDU, e con l’art. 3 Cost., perché sottopone gli imputati per reati puniti con ergastolo a un trattamento sanzionatorio irragionevolmente differenziato secondo le diverse fasi processuali.
La Corte d’Assise d’Appello ha richiamato un’ordinanza della Corte costituzionale n. 147 del 2021, secondo cui il giudice dell’esecuzione penale non ha titolo per porre in discussione la legittimità costituzionale di una norma che attiene al processo di cognizione. Tuttavia, secondo la Corte costituzionale è possibile anche per i giudici dell’esecuzione sollevare questione illegittimità costituzionale per effetto di una sopravvenienza costituzionalmente rilevante, quale è una sentenza che attivi l’obbligo conformativo di cui all’art. 46 CEDU, che abbia determinato un’alterazione nella sequenza tra cognizione e esecuzione. Gli obblighi conformativi dell’ordinamento interno, scaturiti dalla sentenza COGNOME, hanno portato la Corte costituzionale ad affermare nella sentenza n. 210 del 2013 che il giudice dell’esecuzione penale può sollevare questione di legittimità costituzionale di una norma interna applicata dal giudice della cognizione qualora questa si frapponga all’adempimento degli obblighi conformativi, “quando si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa a un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva”, escludendo di fatto che il giudice dell’esecuzione sia legittimato a sollevare una analoga questione sulla base del parametro interno di cui all’art. 3 Cost.
Solo con l’introduzione della legge COGNOME è stata prevista la possibilità per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo di richiedere l’ammissione in sede di
udienza preliminare al rito abbreviato. Il ricorrente, dunque, avrebbe avuto diritto all’applicazione della disciplina più favorevole tra quelle in vigore dal momento della commissione dell’omicidio fino a quello della sentenza definitiva. Si pone il problema di stabilire se il legislatore del 2000 abbia violato o meno il principio di retroattività della legge penale più favorevole, sancito all’art. 7 CEDU nella lettura fattane dalla sentenza COGNOME, nell’escludere l’efficacia retroattiva della più favorevole versione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., in relazione a processi all’epoca ancora in corso in appello.
In seguito alla sentenza COGNOME la situazione è mutata rispetto all’udienza del 10.1.2000, in modo da consentire al ricorrente di sostenere la illegittimità dell’art. 4-ter per contrasto con il principio di retroattività della legge penale più favorevole: si ravvisa una violazione dell’art. 7 Cedu, che consente la proposizione di una questione di legittimità costituzionale ex art. 117, comma 1, Cost.
Con requisitoria scritta del 14.9.2024, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso, osservando che, secondo la sentenza COGNOME, ha diritto a richiedere in sede esecutiva la riduzione di cui all’art. 442 cod. proc. pen. soltanto l’imputato che abbia chiesto il giudizio abbreviato e vi sia stato ammesso nel periodo tra il 2 gennaio 2020 e il 24 novembre 2020, mentre tale diritto non sussiste in capo all’imputato che non sia stato ammesso o che abbia ricevuto il diniego di un’istanza ritualmente dichiarata inammissibile in sede di cognizione: quest’ultimo è il caso del ricorrente che non ha impugnato l’ordinanza di diniego della richiesta e non l’ha riproposta in sede di appello secondo la previsione della disciplina transitoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, la decisione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo è del tutto conforme alla costante giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza della Grande Channbre della Corte europea dei diritti dell’Uomo n. 10249/03 del 17 settembre 2009, nel caso RAGIONE_SOCIALE
Alla stregua di tale giurisprudenza, il condannato con sentenza passata in giudicato può richiedere in sede esecutiva la riduzione della pena ex art. 442 cod. proc. pen. a condizione che sia stato ammesso al giudizio abbreviato e che la sentenza di condanna sia stata emessa all’esito di tale giudizio (Sez. 1, n. 11916 del 21/11/2018, dep. 2019, Rv. 275324 – 01; Sez. 1, n. 34158 del 4/7/2014, Rv. 260787 – 01; Sez. 1, n. 4075 del 4/12/2012, dep. 2013, Rv. 254212 – 01). In particolare, il condannato alla pena dell’ergastolo può ottenere in sede esecutiva
la riduzione della pena se abbia chiesto e sia stato ammesso al rito abbreviato tra il 2 gennaio ed il 24 novembre 2000 (e, cioè, nella vigenza dell’art. 30, comma primo, lett. b, L. n. 479 del 1999) e la decisione sia stata pronunciata dopo il 24 novembre 2000 (Sez. 1, Sentenza n. 23931 del 17/5/2013, Rv. 256257 – 01).
Di conseguenza, è legittimo il diniego di riconoscimento della diminuente opposto in sede esecutiva al condannato mai ammesso al rito alternativo, per non avere egli presentato istanza nel corso del giudizio di merito o per aver presentato istanze ritualmente dichiarate inammissibili. Nel caso di specie, il ricorrente non ha acquisito nel proprio patrimonio giuridico il diritto ad ottenere l’applicazione del rito abbreviato secondo le modalità più favorevoli, esistenti anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000, conv. dalla legge n. 144 del 2000, in quanto il giudizio abbreviato, da lui richiesto in epoca antecedente l’entrata in vigore della citata fonte normativa, correttamente non gli venne accordato sulla base delle norme processuali all’epoca vigenti ed egli non reiterò poi la richiesta allorché, in base alla disciplina transitoria, ciò sarebbe stato tecnicamente, e proceduralmente, consentito.
Ebbene, il ricorrente avversa tale ricostruzione, richiamando, oltre che la sentenza COGNOME, le sentenze delle Sezioni Unite Giannone ed Ercolano, per affermare che da esse sarebbe desumibile il principio secondo cui la più favorevole disposizione dell’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 199 trova applicazione per i soggetti che abbiano chiesto di accedere al rito abbreviato durante la sua vigenza.
In realtà, le pronunce citate nel ricorso modulano questo principio, con riferimento al peculiare problema di diritto intertemporale in questione, chiarendo che l’individuazione, tra le diverse disposizioni succedutesi dalla data di commissione del reato alla pronuncia della sentenza definitiva, di quella più favorevole deve avvenire coordinando il dato normativo relativo alla prevista sostituzione di pena con le modalità e con i tempi di accesso al rito abbreviato, da cui direttamente deriva, in base alla legge vigente al momento, il trattamento sanzionatorio da applicare. In sostanza, non può aversi riguardo soltanto alla data di commissione dei reati e ai successivi interventi legislativi in materia di pena da infliggere all’esito del giudizio abbreviato, ma tali dati fattuali e normativi, per assumere rilievo ai fini della decisione, devono necessariamente integrarsi con il momento in cui viene formulata la richiesta di rito alternativo.
E’ stato sottolineato, in particolare, che l’individuazione della pena sostitutiva da applicare, in sede di giudizio abbreviato, per i reati punibili in astratto con l’ergastolo, senza o con isolamento diurno, è condizionata al verificarsi di una fattispecie complessa, integrata dalla commissione di tale tipo di reati in una determinata epoca e dalla richiesta di accesso al rito speciale da parte
dell’interessato, elementi questi che, in quanto inscindibilmente connessi tra loro, devono concorrere entrambi, perché possa trovare applicazione, in caso di condanna, la comminatoria punitiva prevista dalla legge in vigore al momento della richiesta.
Dunque, il presupposto processuale, per cui in sede esecutiva possa discutersi della pena inflitta all’esito del giudizio abbreviato e rivelatasi, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale, è che vi sia stata la celebrazione del giudizio abbreviato, senza il quale non viene in rilievo il tema della successione di leggi penali che regolano, nel caso di ammissione a tale rito, il trattamento sanzionatorio dei reati punibili in astratto con la pena perpetua. Afferma, a questo proposito, la sentenza Ercolano che “non rientra, infatti, nei poteri del giudice dell’esecuzione quello di rivisitare, con effetti a cascata sulla pena da eseguire, le scelte processuali fatte in sede di cognizione”.
Non avendo Nastasi reiterato, come pure gli sarebbe stato consentito secondo l’art. 4 -ter, comma 2, D.L. n. 82 del 2000, la richiesta di giudizio abbreviato nella fase di cognizione, questo vuoi dire che – per citare ancora la sentenza Ercolano – “non risulta essere stato mai acquisito nel patrimonio giuridico del soggetto interessato il diritto ad essere giudicato con detto rito sulla base della disciplina recata dalla legge n. 479 del 1999”.
Con il secondo motivo, si chiede di sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 -ter D.L. n. 82 del 2000, già più volte rimessa in passato alla Corte costituzionale e già dichiarata manifestamente infondata (si vedano, per esempio, le sentenze n. 99 del 2001, n. 57 del 2016, n. 147 del 2021).
Oltre a ciò, v’è un ulteriore motivo che inibisce in radice la eventuale riproposizione della questione ed ha a che fare proprio con la circostanza, prima richiamata, che il processo in cui è stata infine inflitta la pena cui si riferisce l’incidente di esecuzione non è stato definito con il giudizio abbreviato, e ciò in ragione della scelta dell’imputato di non avvalersi della facoltà, prevista dalla disciplina transitoria, di reiterare nel giudizio di appello la richiesta rigettata nel giudizio di primo grado.
Questa circostanza, come affermato dalle sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte sopra richiamate, ha impedito l’acquisizione nel patrimonio giuridico dell’imputato del diritto di essere giudicato con il rito abbreviato.
Se è così, deve tenersi conto che l’ammissibilità nel procedimento esecutivo di una questione di legittimità costituzionale richiede che abbia ad oggetto una norma interna già applicata dal giudice della cognizione e che la sua eventuale fondatezza consenta di trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva e non
comporti la riapertura del processo (v., in proposito, Corte cost. n. 147 del 2021, n. 57 del 2016, n. 210 del 2013).
Nel caso di specie, va rilevato che la norma che il ricorrente sospetta di incostituzionalità non ha avuto applicazione nel giudizio di cognizione, giacché COGNOME non ha fruito della facoltà, che prevedevano i commi 2 e 3 dell’art. 4-ter D.L. n. 82 del 2000, di proporre la richiesta di giudizio abbreviato nella prima udienza utile successiva e comunque nel giudizio di appello.
Giacchè il ricorso collega espressamente la questione di legittimità alla sopravvenienza della sentenza COGNOME, qui basti ricordare che la Corte costituzionale ha affermato che l’ammissibilità nel procedimento esecutivo di una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la norma in base alla quale è stata determinata la pena richiede l’assoluta identità tra il caso deciso dalla Corte EDU, alla cui sentenza il giudice ritiene di doversi adeguare, e il caso oggetto del procedimento a quo, giacché ogni diversa ipotesi verrebbe ad esorbitare dai limiti propri del giudizio esecutivo (per esempio, Corte cost. n. 57 del 2016).
In questa prospettiva, è sufficiente richiamare una precedente pronuncia della stessa Corte costituzionale (n. 235 del 2013) riguardante appunto il caso di un imputato, parimenti mai ammesso al giudizio abbreviato, che aveva eccepito la illegittimità costituzionale dell’art. 4-ter, D.L. n. 82 del 2000, in cui è stato affermato che si trattasse di situazione non identica o similare a quella presa in esame nella sentenza COGNOME. Ne è derivata una dichiarazione di manifesta inammissibilità della questione proposta dal giudice dell’esecuzione, che conclude la sentenza – non avrebbe alcun titolo per procedere alla ipotizzata sostituzione dell’ergastolo con isolamento diurno e per porre in discussione la legittimità costituzionale di una norma attinente al processo di cognizione.
Alla luce di quanto fin qui osservato, pertanto, il ricorso deve essere rigettato in quanto infondato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 18.10.2024