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Rischio di recidiva: la Cassazione sulla custodia cautelare

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di una misura di custodia cautelare in carcere per spaccio di stupefacenti, ripristinata dal Tribunale del Riesame. La decisione si basa su nuovi elementi che dimostrano la persistenza di un concreto e attuale rischio di recidiva, nonostante il considerevole tempo trascorso dai fatti contestati. La Corte ha ritenuto irrilevante il trasferimento all’estero dell’indagato, valorizzando i suoi continui contatti con ambienti criminali e la sua condotta spregiudicata, confermando così la necessità della misura più afflittiva.

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Pubblicato il 9 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Rischio di recidiva: la Cassazione conferma il carcere anche a distanza di anni

La valutazione del rischio di recidiva è un pilastro fondamentale nel diritto processuale penale per l’applicazione delle misure cautelari. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito principi cruciali, confermando la custodia in carcere per un indagato per spaccio di droga, nonostante fosse trascorso molto tempo dai fatti contestati. La decisione sottolinea come elementi sopravvenuti, indicativi di una persistente pericolosità sociale, possano giustificare la misura più severa, anche a fronte di un precedente provvedimento di revoca.

I fatti del caso

La vicenda processuale ha origine da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nel 2022 per reati di cessione di cocaina risalenti al periodo 2019-2021. L’indagato, resosi irreperibile, veniva arrestato solo nel gennaio 2024. Successivamente, il Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) revocava la misura, valorizzando la distanza temporale dai fatti, il trasferimento all’estero del soggetto e la sua sostituzione nell’attività di spaccio da parte di un connazionale.

Il Pubblico Ministero impugnava tale decisione dinanzi al Tribunale del Riesame, il quale, accogliendo l’appello, ripristinava la custodia in carcere. Il Tribunale basava la sua decisione su nuovi elementi: l’indagato era stato monitorato e la sua presenza in Italia era stata accertata in più occasioni, in compagnia di pregiudicati e correi, utilizzando false generalità e alla guida di auto di grossa cilindrata. Questi elementi, secondo il Riesame, dimostravano la mancata interruzione dei legami con l’ambiente del narcotraffico e un concreto e attuale rischio di recidiva.

L’indagato proponeva quindi ricorso per Cassazione, lamentando principalmente tre vizi: l’inutilizzabilità dei nuovi atti, la mancanza di motivazione sulla scelta della misura più afflittiva e l’incompatibilità di due giudici del collegio del Riesame.

La decisione della Corte di Cassazione e l’attualità del rischio di recidiva

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendolo infondato in ogni suo punto. Gli Ermellini hanno fornito chiarimenti essenziali sulla valutazione del rischio di recidiva e sulla procedura cautelare.

La legittimità dei nuovi elementi probatori

In primo luogo, la Cassazione ha stabilito la piena legittimità della produzione di nuovi elementi da parte del Pubblico Ministero nel procedimento di appello cautelare. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, tali atti, seppur successivi alla chiusura delle indagini, sono utilizzabili per contrastare la valutazione del primo giudice e dimostrare la persistenza delle esigenze cautelari. Questi nuovi elementi hanno permesso di delineare un quadro aggiornato della personalità dell’indagato, provando che il suo allontanamento dall’Italia non era una scelta di vita lecita, ma una strategia per sottrarsi alla giustizia, mantenendo vivi i contatti con i complici.

Valutazione del pericolo di recidiva e scelta della misura

Il cuore della pronuncia risiede nella valutazione del pericolo di reiterazione del reato. La Corte ha precisato che l’attualità delle esigenze cautelari non coincide con l’attualità delle condotte illecite. Anche se i reati contestati erano datati, gli elementi successivi (frequentazione di pregiudicati, uso di documenti falsi, disponibilità di beni incompatibili con un’attività lecita) hanno permesso di formulare un giudizio prognostico negativo. La personalità dell’indagato, definita “spregiudicata” e “inaffidabile”, è stata ritenuta un indice concreto e attuale del rischio di recidiva. Di conseguenza, la scelta della custodia in carcere è stata considerata adeguatamente motivata, data la massima pericolosità dimostrata dalla fuga e dalla condotta successiva all’arresto.

L’infondatezza dell’eccezione di incompatibilità

Infine, la Corte ha dichiarato inammissibile e manifestamente infondata la questione sull’incompatibilità dei giudici. È stato ribadito un principio consolidato: la partecipazione a un precedente procedimento cautelare non genera incompatibilità per un giudice, poiché non costituisce un “giudizio” sul merito dell’accusa. L’eventuale vizio, peraltro, non determina la nullità degli atti, ma deve essere fatto valere tramite l’istituto della ricusazione.

Le motivazioni

La motivazione della Corte si fonda sulla necessità di un’analisi complessiva e aggiornata della personalità dell’indagato per valutare il rischio di recidiva. Il trasferimento all’estero e il tempo trascorso non sono elementi di per sé sufficienti a escludere le esigenze cautelari se controbilanciati da prove di segno opposto. La Corte ha valorizzato la coerenza del comportamento dell’indagato nel tempo: la fuga iniziale, i contatti mantenuti con i correi, la presenza in Italia in contesti sospetti e l’uso di alias. Tutti questi fattori, letti unitariamente, disegnano il profilo di un soggetto pienamente inserito in circuiti criminali e privo di qualsiasi segno di ravvedimento. La scelta della misura carceraria è stata quindi giustificata non solo dalla gravità dei reati, ma soprattutto dall’inaffidabilità dimostrata, che rendeva inadeguata qualsiasi altra misura meno afflittiva.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce che la valutazione delle esigenze cautelari è un processo dinamico, che deve tenere conto di tutti gli elementi disponibili, anche sopravvenuti. Il rischio di recidiva non è un concetto astratto legato solo al tempo trascorso, ma una prognosi concreta basata sulla personalità dell’indagato e sulla sua condotta attuale. Per la difesa, ciò significa che non basta invocare il decorso del tempo per ottenere una revoca della misura, ma è necessario dimostrare un reale e positivo cambiamento nello stile di vita del proprio assistito, non smentito da elementi contrari.

È possibile utilizzare nuove prove, emerse dopo la chiusura delle indagini, per ripristinare una misura cautelare?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che nel procedimento di appello cautelare (ex art. 310 c.p.p.) è pienamente legittima la produzione di nuovi elementi probatori per contrastare la valutazione del giudice di primo grado e dimostrare la persistenza delle esigenze cautelari.

Il tempo trascorso dai reati contestati esclude automaticamente il pericolo di recidiva?
No. La Corte ha chiarito che l’attualità delle esigenze cautelari non coincide necessariamente con l’attualità della condotta illecita. Elementi recenti che dimostrano la persistente pericolosità sociale dell’indagato (come la frequentazione di pregiudicati e l’uso di documenti falsi) possono giustificare un giudizio di attuale rischio di recidiva anche per reati commessi anni prima.

La partecipazione di un giudice a una precedente decisione cautelare nello stesso procedimento lo rende incompatibile per le decisioni successive?
No. Secondo l’orientamento consolidato della Cassazione, la partecipazione a un procedimento incidentale “de libertate” (sulla libertà personale) non costituisce un “giudizio” sul merito e, pertanto, non genera incompatibilità per il giudice a decidere su successive fasi cautelari. L’eventuale contestazione di imparzialità deve essere sollevata tramite un’istanza di ricusazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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