Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 25911 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 25911 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 29/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposto da NOME COGNOME nato a Roma il 17/03/1958; COGNOME NOMECOGNOME nata a Roma il 30/03/1960; anche nei confronti di Roma Capitale (parte civile) avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 19/09/2024; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto che i ricorsi siano dichiarati inammissibili; udito l’avv. NOME Maggiore, per la parte civile, che ha depositato conclusioni scritte e nota spese; uditi l’avv. NOME COGNOME per COGNOME NOMECOGNOME e l’avv. NOME COGNOME per COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 17 settembre 2021, il Gup del Tribunale di Roma, all’esito di giudizio abbreviato, ha dichiarato gli imputati responsabili dei reati loro ascritti al capo A) dell’imputazione: artt. 110 cod. pen., 256, comma 1, lettere a) e b) del d.lgs. n. 152 del 2006 e, ritenuta la continuazione e applicata la diminuente del rito, li ha condannati alla pena di un anno di arresto ed euro 5.000,00 di ammenda, concedendo alla COGNOME i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, oltre al pagamento delle spese processuali. Ha assolto inoltre gli imputati dai reati loro ascritti ai capi B) e C) dell’imputazione, per non aver commesso il fatto. Ha condannato, altre, i medesimi imputati al risarcimento del danno, da liquidarsi in sede civile, in favore della parte civile costituita, solo per il capo A), con una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 50.000,00.
Gli imputati hanno proposto appello avverso la suddetta sentenza e, in data 19 settembre 2024, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per il reato continuato loro ascritto, in quanto estinto per intervenuta prescrizione, confermando integralmente le statuizioni civili della sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza di appello gli imputati hanno proposto, tramite difensori, ricorsi per cassazione di analogo contenuto, chiedendone l’annullamento.
Con un primo motivo di censura, i ricorrenti deducono vizi della motivazione e violazione dell’art. 530 cod. proc. pen., in merito alla mancata assoluzione dal reato di cui al capo A), a fronte dell’intervenuta assoluzione dai reati di cui ai capi B) e C) (artt. 648 e 648-bis cod. pen.). Secondo la prospettazione difensiva, la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente il reato ambientale, sebbene questo, secondo il capo di imputazione, fosse stato contestato solo al fine di commettere il reato di riciclaggio e ricettazione, con la conseguenza che, all’assoluzione per tali capi, doveva conseguire quella per il reato di cui al capo a).
In secondo luogo, la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto dell’estraneità, al momento dei fatti, di entrambi gli imputati rispetto alla gestione dell’area rilevante, da tempo chiusa a causa del mancato rinnovo dell’autorizzazione ed in uso ad una terza persona.
2.2. Con secondo motivo di doglianza, i ricorrenti lamentano vizi della motivazione e violazione degli artt. 539 cod. proc. pen. e 133 cod. pen. in ordine all’importo della provvisionale riconosciuta alla parte civile.
In sintesi, i giudici di merito, pur avendo ritenuto i danni non quantificabili a fronte della mancata attività probatoria sul punto da parte di Roma Capitale, avrebbero riconosciuto una provvisionale sproporzionata ed avrebbero omesso di fornire, sul punto, una motivazione adeguata. Più precisamente, i ricorrenti contestano l’assenza della motivazione in merito al nesso causale tra l’azione degli imputati e il reato ambientale, oltre all’assenza dell’indicazione dei criteri adottati per la quantificazione della provvisionale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
1.1 Il primo motivo di doglianza, riferito al fatto di cui al capo A), è inammissibile, in quanto rivalutativo delle emergenze processuali e orientato a sollecitare un nuovo giudizio nel merito, come tale inammissibile.
Dev’essere infatti ribadito che sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex plurimis, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, Rv. 280601) e che non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (ex plurimis, Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, Rv. 271623).
Deve comunque rilevarsi che la Corte di appello ha logicamente spiegato, dopo avere illustrato e analizzato il compendio probatorio, come l’avvenuta assoluzione degli imputati dai reati di cui ai capi B) e C) – su cui la linea difensiva fa leva fina dal secondo grado di giudizio – sia del tutto irrilevante, trattandosi di condotte distinte rispetto all’attività illecita di smaltimento di rifiuti speciali pericolosi e n pericolosi, la quale non presuppone l’illecita provenienza dei rifiuti.
In riferimento all’asserita ignoranza degli imputati rispetto a quanto avveniva sul suolo, è necessario sottolineare che i giudici di merito hanno evidenziato che, al 2 ottobre 2018, l’attività non risultava autorizzata e che, all’atto dell’accertamento, su tutta la pavimentazione in cemehto dell’area di autodemolizione vi era la presenza di grande quantità di olio motore e di residui della specifica attività di autodemolizione, che appariva essere quotidianamente svolta sul posto; motivo per cui i due imputati non potevano ritenersi estranei: in particolare, il COGNOME quale gestore di fatto dell’attività e la COGNOME quale
amministratrice della società che gestiva l’impianto (pagg. 3-5 del provvedimento), mentre deve essere ritenuta irrilevante la presenza sul luogo anche di altro soggetto.
1.2. Il secondo motivo di doglianza, riguardante l’entità della provvisionale, è anch’esso inammissibile, in quanto non proponibile in sede di legittimità.
E infatti, già secondo una risalente pronuncia delle Sezioni unite, il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, dep. 1991, Capelli, Rv. 186722).
Trattasi di un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, Rv. 263486; Sez. 2 n. 49016 del 06/11/2014, Rv. 261054; Sez. 6 n. 50746 del 14/10/2014, Rv. 261536), ribadito anche in recentissime pronunce (non massimate: v. Sez. 6, n. 28858 del 03/04/2019; Sez. 5, n. 19700 del 05/03/2019; Sez. 1, n. 29845 del 19/06/2018, dep. 2019).
Anche a prescindere da tale assorbente conclusione, deve comunque rilevarsi come la Corte d’appello, in continuità con il giudice e di primo grado, abbia adeguatamente evidenziato – ai fini della determinazione della provvisionale – la gravità dei fatti, anche in relazione ai costi di risistemazione dell’area.
In conclusione, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.
Gli imputati devono essere anche condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile nel giudizio di cassazione, da liquidarsi in complessivi euro 2.836,00, oltre accessori di legge e spese generali.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di
rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 2.836,00, oltre accessori di legge e spese generali.
Così deciso il 29/05/2025.