Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 23545 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 23545 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME NOME a PLATI il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 20/06/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di TORINO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe, resa il 20 giugno 2023, il Tribunale di sorveglianza di Torino ha rigettato il reclamo proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso il provvedimento emesso il 15 settembre 2022 dal Magistrato di sorveglianza di Torino con cui era stata parzialmente accolta l’istanza proposta da COGNOME, detenuto nella Casa circondariale di Torino, per l’ottenimento, ex art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e succ. modd. (Ord. pen.), della riparazione dovuta per la carcerazione patita in condizioni difformi da quanto imposto dall’art. 3 CEDU a far data dal 26 novembre 1992 in poi.
Il Magistrato di sorveglianza aveva accolto l’istanza limitatamente a 2.079 giorni individuati nell’ambito del più ampio periodo detentivo sofferto nel carcere dl Torino fra il 17.06.2015 e il 21.04.2022, stabilendo la riduzione di 208 giorni di pena detentiva da espiarsi, mentre aveva ritenuto inammissibile l’istanza stessa con riferimento ai precedenti periodi detentivi sofferti da COGNOME fra il 1992,eil 2009 e fra il 2011 e il 2012, posti in discontinuità rispetto a quello pi recente.
Il Tribunale di sorveglianza, valutate le deduzioni poste a base del reclamo, come esplicitate anche in memoria susseguente, ha considerato non fondate tali deduzioni pervenendo alle stesse conclusioni del primo giudice.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il difensore di COGNOME chiedendone l’annullamento e deducendo con unico, articolato motivo la violazione dell’art. 35-ter Ord. pen., in relazione agli artt. 81 cod. pen. e 657 cod. proc. pen., nonché il vizio di omessa motivazione.
L’opinione espressa dai giudici di sorveglianza in merito all’inammissibilità della domanda per la parte di detenzione patita fino al 2012 da NOME non ha fornito, secondo la difesa, alcun argomento decisivo per ritenere dimostrato che si fosse verificata una cesura effettiva della detenzione suddetta rispetto al periodo susseguente, nonostante la continuità determinata dall’unificazione della pena in virtù del riconoscimento della continuazione fra i vari reati.
La difesa lamenta che la risposta data nell’ordinanza impugnata ha annesso rilievo determinante al fatto che, espiata dal condanNOME la pena detentiva fino all’anno 2012, questi, scarcerato il 9.11.2012, nei sei mesi successivi all’entrata in vigore dell’art. 35-ter cit., aveva omesso di presentare l’istanza prevista dalla norma, a nulla valendo quella presentata nell’aprile del 2022, utile soltanto per la detenzione afferente al titolo in esecuzione, iniziata il 17.06.2015, stante la discontinuità esecutiva determinatasi rispetto alla carcerazione pregressa, senza però considerare gli argomenti di segno contrario prospettati dal ricorrente.
In tale direzione la difesa ha ribadito che il suddetto principio di discontinuità esecutiva soffre eccezione quando la nuova condizione detentiva risulti legata a quella precedentemente sofferta così da costituire, nella prospettiva dell’accesso ai rimedi risarcitori, un unicum; e il legame è da individuarsi, non soltanto quando se ne riscontri la sussistenza in termini cronologici, ma anche quando essa si determini per motivi giuridici e, fra questi ultimi casi, va annoverato i riconoscimento della continuazione fra i reati determinativi delle varie pene.
Proprio l’applicazione della continuazione fra i reati cui si tratta – sottolinea il ricorrente – era stata disposta nel caso in esame con ordinanza esecutiva in data 9 novembre 2021 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino successivamente all’accertamento dell’ultimo reato, quello di cui all’art. 416-bis cod. pen., commesso dal 23.05.2012 in poi; né viene condivisa l’interpretazione del provvedimento di esecuzione delle pene concorrenti data dal Magistrato di sorveglianza e fatta propria dal Tribunale secondo la quale il richiamo in esso dei titoli relativi alle pene in precedenza espiate fra il 1992 e i 2012 non aveva comportato che residuasse una parte di quelle pene da eseguire, ma era stato fatto per determinare, in relazione alla passata espiazione, quale porzione di pena, da calcolare ai sensi dell’art. 657 cod. proc. pen., dovesse detrarsi da quella quantificata ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen.
Il caso di specie, per la difesa, si caratterizza per il fatto che il re successivamente accertato e giudicato era stato avvinto in continuazione con quelli già accertati quale reato satellite, senza che per esso potessero porsi questioni di indebita fruizione di crediti di pena: essendosi determinata la complessiva pena, per il reato continuato, in quella di anni venticinque, mesi otto di reclusione, i periodi di carcerazione pregressi si erano saldati con quello in corso ai fini dell’espiazione della pena stessa.
La difesa, inoltre, ha dedotto la particolarità che l’applicazione dell’art. 35ter cit. determina anche rispetto al limite fissato dall’art. 657, comma 4, cod. proc. pen., dal momento che quest’ultima norma è finalizzata a negare al reo di fruire di crediti di pena potenzialmente criminogeni, mentre l’azione assicurata dall’art. 35-ter cit. è finalizzata a porre riparo all’inadempimento statuale nei riguardi del detenuto per averlo assoggettato inumane condizioni di restrizione, istituto di favore contemplante la proporzionale riduzione della pena e solo in via di subordine l’erogazione della riparazione pecuniaria.
Si fa notare, infine, che l’ultimo reato, di natura associativa, accertato a carico di COGNOME è stato consumato dal 23 maggio 2012, laddove il detenuto, con riferimento ai titoli precedentemente in esecuzione, era stato scarcerato il 9 novembre 2012.
In ogni caso, ove si ritenesse cristallizzato un contrasto fra diverse tesi
sull’argomento, il ricorrente sollecita la rimessione della corrispondente questione andrebbe rimesso al vaglio delle Sezioni Unite.
Il Procuratore generale ha prospettato il rigetto del ricorso, non sussistendo la continuità esecutiva dei pregressi periodi detentivi patiti da NOME e quello in corso di attuale espiazione, né essendo applicabile , nel caso in esame, il principio invocato dalla difesa, in quanto il cumulo derivante dall’applicazione della continuazione ha ricompreso fatti commessi dopo l’espiazione della pena, con riferimento ai quali neppure la unificazione effettuata vale a retrodatare la commissione dei fatti ad epoca anteriore alla scarcerazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
L’impugnazione – ammissibile soltanto per violazione di legge a norma dell’art. 35 -bis, comma 4 -bis (aggiunto dall’art. 3, comma 1, lett. b, d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla I. 21 febbraio 2014, n. 10), richiamato dall’art. 35-ter Ord. pen. – non risulta fondata e va rigettata.
Va puntualizzato che il Tribunale di sorveglianza ha convenuto con il primo giudice sul punto determinante: l’avere indicato i periodi di detenzione pregressa nel cumulo 13 gennaio 2022 era avvenuto all’unico fine di determinare, in relazione alla decorsa espiazione / che in alcun modo si congiungeva all’ultima, la parte di pena eseguita da detrarre, la porzione di pena che da quella enners§teguito dell’unificazione dei titoli per riconoscimento della continuazione, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., andava imputata a quella pregressa esecuzione, in modo da stabilire, ai sensi dell’art. 657 cod. proc. pen., la pena residua, ancora da espiare, per i titoli effettivamente in esecuzione; ciò, però, non comportava che le pene interamente espiate per i titoli pregressi potessero considerarsi ancora in esecuzione, sicché, per la detenzione contraria all’art. 3 CEDU riferita all’espiazione esaurita, la domanda dell’interessato avrebbe dovuto essere proposta nel termine decadenziale di sei mesi, senza che il solo accertamento del vincolo della continuazione potesse valere a superare la frattura cronologica emersa fra le distinte esecuzioni delle pene detentive.
Le considerazioni svolte dal Tribunale di sorveglianza, in adesione a quelle articolate dal primo giudice, non sono messe in crisi dalle argomentazioni sviluppate dal ricorrente.
Si ricorda che la norma che detta nell’ordinamento interno la disciplina regolatrice dell’azione assicurata alla persona che abbia sofferto periodi di
detenzione in condizioni tali da aver determiNOME la violazione dell’art. 3 CEDU, ossia l’art. 35 -ter Ord. pen., stabilisce, al comma 3, che coloro i quali hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1 in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno termiNOME di espiare la pena detentiva in carcere possono proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale in composizione monocratica del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza, secondo le forme di cui agli artt. 737 e ss. cod. proc. civ., e l’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere.
La stessa fonte normativa che ha introdotto tale norma, ossia il d.l. n. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 117, all’art. 2, al comma 1, dispone che coloro i quali, alla data di entrata in vigore della medesima fonte, hanno cessato di espiare la pena detentiva o non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere, possono proporre l’azione di cui all’articolo 35 -ter, comma 3, cit. entro il termine di decadenza di sei mesi decorrenti dalla stessa data.
Queste norme fissano in modo chiaro il principio secondo cu>per i periodi di detenzione cessati per il completamento dell’espiazione della pena detentiva o per la fine della custodia cautelare infrannuraria t la persona che abbia subìto il pregiudizio deve proporre la relativa azione entro il suindicato termine decadenziale, che decorre dalla cessazione della condizione di restrizione per i casi in cui la sua conclusione sia avvenuta nella vigenza della fonte normativa suindicata, ovvero dall’entrata in vigore della fonte stessa – vale a dire del 28 giugno 2014 – per i casi in cui la conclusione della restrizione sia avvenuta in tempo antecedente.
Si aggiunge, così precisandosi per ciò che concerne la competenza la portata della disciplina richiamata, che presupposto necessario per radicare la competenza del magistrato di sorveglianza è il perdurante stato di restrizione del richiedente, e non l’attualità del pregiudizio, in quanto il richiamo contenuto nell’art. 35 -ter Ord. pen. al pregiudizio di cui all’art. 69, sesto comma, lett. b), Ord. pen. opera ai fini dell’individuazione dello strumento processuale di cui si può avvalere il detenuto e del relativo procedimento, ma non si riferisce al presupposto della necessaria attualità del pregiudizio che rileva, invece, ai fini del diverso rimedio del reclamo, previsto dal citato art. 69 la cui finalità è quella di inibire la prosecuzione della violazione del diritto individuale da parte dell’amministrazione penitenziaria, dovendo, comunque, considerarsi attuale il pregiudizio che non è stato elimiNOME attraverso una forma di riparazione, anche se la causa che lo ha prodotto si sia temporalmente verificata nel passato (Sez.
1, n. 19674 del 29/03/2017, Basso, Rv. 269894 – 01).
In tale prospettiva, si è puntualizzato che, in materia di rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti di soggetti detenuti o internati, sussiste la competenza del magistrato di sorveglianza a provvedere sull’istanza prevista dall’art. 35-ter cit., con la quale il detenuto lamenti la lesione dei propri diritti soggettivi in relazione alle condizioni di detenzion carceraria in spazi angusti, sia nell’ipotesi in cui sussistano le condizioni per accordare il ristoro in forma specifica sia nell’ipotesi in cui detto ristoro pu riconoscersi soltanto in forma monetaria (Sez. 1, n. 31042 del 02/10/2020, Di Trapani, Rv. 279798 – 01). Nella stessa direzione si è precisato che sussiste la competenza del magistrato di sorveglianza – e non del giudice civile – a provvedere sull’istanza prevista dall’art. 35-ter cit., presentata dal detenuto per il quale, nelle more del procedimento di reclamo per la detrazione della pena, a seguito alla proposizione di ricorso per cassazione, sia cessata l’esecuzione, dovendo ritenersi l’istanza risarcitoria implicitamente compresa in quella specifica di riduzione della pena e riferita ai medesimi periodi pregressi di carcerazione (Sez. 5, n. 1995 del 04/11/2020, dep. 2021, Burgio, Rv. 280327 01).
Stante il richiamato quadro normativo, si è tratto, in primo e immediato luogo, il principio per cui, quando sia avvenuta l’espiazione della pena, con essa si determina, stante l’univoco tenore letterale della norma, la possibilità di chiedere il solo ristoro nella forma monetaria. Di conseguenza, non è possibile ammettere, in mancanza di una specifica disposizione di segno inverso, che il successivo inizio di un nuovo periodo di detenzione, del tutto slegato dal primo, comporti la restituzione dell’interessato nella possibilità giuridica di richiedere l prima forma di ristoro per la precorsa carcerazione: la cesura fra i periodi di detenzione deve ritenersi preclusiva della possibilità di ottenere una decurtazione da imputare alla nuova pena oggetto di espiazione e da correlare al pregiudizio patito durante la precedente espiazione, allorquando sussista il presupposto della discontinuità fra le fasi esecutive.
Se si opinasse in senso diverso – si è osservato in modo condivisibile – si finirebbe per attribuire al soggetto ristretto una sorta di credito, spendibile persino in relazione a condotte di rilevanza penale non ancora poste in essere, con un risultato interpretativo complessivo che non sarebbe immune da potenziali inflessioni criminogene (Sez. 1, n. 16915 del 21/12/2017, dep. 2018, Gerbino, Rv. 272830 – 01).
4.1. Posto tale primo punto, l’interpretazione della disciplina in esame, specificandone la portata, ha condotto al condiviso approdo secondo cui non
(
sussiste alcuna ragione di ritenere non valutabile da parte della magistratura di sorveglianza una domanda avente ad oggetto il ristoro, ai sensi dell’art. 35-ter Ord. pen., di pregiudizi lamentati come patiti in tempo pregresso rispetto alla data di entrata in vigore della norma, ossia prima del 26 giugno 2014, sempre che, però, il soggetto – all’atto della proposizione della domanda – si trovi in condizione di detenzione e le condizioni dedotte come inumane o degradanti siano correlate a una vicenda esecutiva che sia in rapporto di continuità detentiva con la restrizione in corso e, quindi, l’esecuzione della corrispondente pena possa ritenersi complessivamente unitaria.
In questo senso si ritiene che la domanda risarcitoria ben possa estendersi a periodi detentivi antecedenti quelle volte in cui – e soltanto quelle volte in cui la detenzione sia stata perdurante o comunque sia unificata in un complessivo decreto di cumulo.
Ove, pertanto, non sussistano i presupposti per considerare dimostrata la continuità esecutiva della detenzione pregressa con l’attuale restrizione, opera ineludibilmente il termine decadenziale stabilito dalla legge: coerentemente si è considerata inammissibile per tardività la domanda risarcitoria proposta, ex art. 35 -ter Ord. pen., allorquando risultino decorsi sei mesi dall’entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014, nel caso in cui si riferisca a periodi di pena espiat antecedentemente all’entrata in vigore del decreto stesso (Sez. 5, n. 18819 del 24/01/2023, Giardiello, Rv. 284405 – 01).
L’inammissibilità della domanda proposta dal detenuto o dall’interNOME volta all’ottenimento del ristoro, in forma specifica, della riduzione di pena per il pregiudizio subìto durante l’esecuzione di un titolo diverso da quello in esecuzione al momento della domanda è, pertanto, l’approdo ineludibile allorquando l’esecuzione pregressa risulti del tutto scollegata da quella in corso: questo esito deriva dall’interpretazione della norma coerente sia con il testo dell’art. 35 -ter cit., Ord. pen., sia con gli effetti – derivanti dall’applicazione dell’art. 657 cod. proc. pen. – del divieto di fungibilità della pena in relazione reati successivi a quello cui afferisce l’esecuzione già esaurita (Sez. 1, n. 54862 del 17/01/2018, Molluso, Rv. 274971 – 01).
4.2. In questa chiave deve ritenersi che la continuità esecutiva sussista soltanto quando, pur se si sia verificata la temporanea liberazione del ristretto, sia operante un titolo esecutivo che comporti l’unificazione giuridica della detenzione pregressa e della detenzione in corso.
Rileva, al riguardo, l’unicità del cumulo, ovvero del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti, ove esso, in virtù dell’applicazione dei principi fissati dall’art. 657 cod. proc. pen., determini l’effetto che una porzione della pena relativa al reato commesso in precedenza, anche per l’evenienza della
fungibilità, risulti ancora da espiare quando si sia instaurata la detenzione poi proseguita fino al momento della domanda.
È in questa precisa accezione che si deve intendere la verifica dell’unicità del cumulo come situazione determinativa dell’unificazione dell’esecuzione della pena detentiva pregressa e di quella in corso: dalla parzialità dell’espiazione della pena detentiva riferita al periodo antecedente deriva la conseguenza che non si possa ritenere verificato il completamento dell’espiazione di essa, completamento che integra l’evento costitutivo del dies a quo per il decorso del ricordato termine decadenziale.
In tale specifico ambito alla discontinuità cronologica si sovrappone prevalendo su di essa ai presenti fini – la continuità giuridica dell’esecuzione.
4.3. Precisato questo punto, deve aggiungersi – ed è su tale versante che la tesi propugnata dal ricorrente non può trovare accoglimento – che non basta a superare la frattura temporale fra l’esecuzione della pena pregressa e l’esecuzione della pena in corso il mero riconoscimento della continuazione, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., fra il reato la pena detentiva riferita al quale sia sta già completamente espiata e il reato la pena detentiva riferita al quale sia attualmente in espiazione.
Pur prendendosi atto dell’arresto che ha ritenuto sussistente la continuità giuridica dell’esecuzione della pena anche nell’ipotesi dell’applicazione della continuazione fra reati le cui pene sono state e devono eseguirsi in epoche differenti, sulla scorta del carattere unificante che si annette al conseguente cumulo giuridico in tema di liberazione anticipata (Sez. 1, n. 18171 del 19/05/2020, Camelia, non mass.), deve dissentirsi da questo orientamento, prestando adesione al diverso – e coerente con le illustrate premesse – indirizzo secondo il quale è da escludersi che la continuazione, la quale attiene esclusivamente all’individuazione dell’unicità del disegno criminoso fra i reati, valga a creare un vincolo idoneo a unificare l’esecuzione delle corrispondenti frazioni di pena fino a retrodatare, in sostanziale superamento dei limiti fissati dall’art. 657 cod. proc. pen., l’esecuzione della pena riferita al nuovo reato in tempo antecedente alla sua commissione (Sez. 7, n. 24369 del 13/05/2021, Assinnata, non mass.).
Se è vero, dunque, che le pene concorrenti si considerano, in via generale, come pena unica, ai sensi dell’art. 76 cod. pen., è del pari certo che l’effetto unificante opera salvo che la legge stabilisca altrimenti: e, per l’ambito qui rilevante, vigono le regole derivanti dall’applicazione dell’art. 657 cod. proc. pen.
Resta in tal caso determinante la constatazione che si è avuta una cesura effettiva della detenzione che ha innescato il decorso del termine semestrale per la proposizione della domanda di ristoro ex art. 35-ter cit., di guisa che, quando
l’esecuzione della pena detentiva riguardi reati commessi dopo l’espiazione completa della pena relativa a un precedente reato, l’unificazione ex art. 81 cod. pen. di questo reato con quelli commessi successivamente alla suddetta espiazione non determina una fictio consistente nel retrodatare la commissione degli ulteriori fatti in data anteriore alla scarcerazione.
Questo assunto si accorda con il principio secondo cui il reato continuato non esclude la valutazione parcellizzata degli episodi che lo compongono nei casi in cui il dato temporale di consumazione di ciascun fatto sia dall’ordinamento considerato dirimente: è quanto si verifica nella specie, posto che la limitazione normativa dettata in tema di fungibilità non consente di valutare unitariamente a quelle successive una pena sofferta in epoca pregressa alla data di consumazione del reato che determina la formazione del cumulo, stante la necessità logico-giuridica che a quel fine rilevano le date di consumazione di tutti i reati che compongono la figura del reato continuato.
È per questa ragione che si è affermato il principio di diritto – da condividersi e riaffermarsi – secondo cui il riconoscimento del vincolo della continuazione tra reati in sede esecutiva, con la conseguente determinazione di una pena complessiva inferiore a quella risultante dal cumulo materiale, non comporta che la differenza residua possa essere automaticamente imputata alla pena da eseguire, a ciò ostando la disposizione di cui all’art. 657, comma 4, cod. proc. pen., per cui vanno computate a tale fine solo la custodia cautelare o le pene espiate sine titulo dopo la commissione del reato e dovendosi conseguentemente scindere il reato continuato nelle singole violazioni che lo compongono (Sez. 1, n. 17531 del 22/02/2023, COGNOME, Rv. 284435 – 01; Sez. 1, n. 6072 del 24/05/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272101 – 01; Sez. 1, n. 8109 del 11/02/2010, COGNOME, Rv. 246383 – 01).
In tal senso la tesi qui privilegiata si inserisce nella solida corrente ermeneutica man mano indicata: ragione per la quale non si ritiene che sussista un contrasto tale da rendere necessaria la rimessione della questione alle Sezioni Unite sollecitata dal ricorrente.
4.4. Non giova, infine, ad COGNOME il riferimento alla fungibilità, per gli effet di cui all’art. 657 cod. proc. pen., con riguardo al tempo di commissione da parte sua del nuovo reato associativo, il cui principio di consumazione si prospetta avvenuto il 23 maggio 2012, quando egli stava ancora espiando la pregressa pena detentiva, dovendo invece considerarsi che la cessazione della permanenza è avvenuta certamente dopo la scarcerazione del medesimo COGNOME, avvenuta il 9 novembre 2012, per i conseguenti effetti in tema di autonomia del cumulo riferito alla condanno per quest’ultimo reato: l’istituto della fungibilità non applicabile ai reati permanenti quando la permanenza sia cessata dopo
l’espiazione senza titolo (Sez. 1, n. 6072 del 24/05/2017, dep. 2018, COGNOME Rv. 272102 – 01; Sez. 1, n. 40329 del 11/07/2013, COGNOME, Rv. 257600 – 01).
Neanche sotto tale profilo può, dunque, recuperarsi la continuità esecutiva dedotta dal ricorrente.
Corollario delle considerazioni svolte è la valutazione di complessiva infondatezza del ricorso, valutazione che ne impone il rigetto.
Al rigetto dell’impugnazione segue la condanna del ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
Così deciso il 21 febbraio 2024