Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20143 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20143 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI TORINO nel procedimento a carico di: NOMECOGNOME nato a Cagliari il 18/05/1993
avverso la sentenza del 17/10/2024 del Tribunale di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME la quale ha chiesto che l’impugnazione venga riqualificata come appello e che gli atti vengano trasmessi alla Corte d’appello di Torino per il giudizio:
lette le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME difensore di NOME COGNOME il quale ha chiesto che la sentenza impugnata venga confermata «in ottemperanza al principio del favor rei»;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 17/10/2024, emessa in esito a giudizio abbreviato, il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, riqualificato il fatto contestato come di ricettazione di una carta di debito quale reato di furto della stessa carta,
dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato NOME COGNOME per mancanza della condizione di procedibilità della querela.
Avverso tale sentenza del 17/10/2024 del Tribunale di Torino, ha proposto ricorso per cassazione, a norma dell’art. 608, comma 2, cod. proc. pen., il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, affidato a tre motivi.
2.1. Con gli stessi, il ricorrente deduce in particolare: 1) in relazione all’ar 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione degli artt. 624 e 648 cod. pen. (primo motivo); 2) sempre in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen. (secondo motivo); 3) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione (terzo motivo).
Tali motivi sono peraltro argomentati in modo unitario. Dopo avere premesso che la sentenza impugnata avrebbe fondato la riqualificazione del fatto contestato quale reato di furto sulla base dei due soli argomenti costituiti dal «contenuto lasso di tempo (pochi giorni) intercorso tra il furto del portafogli ove era custodita la carta ed il suo rinvenimento nella disponibilità del Manca» e dall’invocazione del «principio del favor rei» (così la sentenza impugnata), il ricorrente deduce che la stessa riqualificazione sarebbe manifestamente illogica: a) alla luce della denuncia della persona offesa, atteso che, poiché essa aveva denunciato di avere subito il furto non solo della carta di debito di cui all’imputazione ma anche di un’altra carta di debito e che entrambe tali carte erano state utilizzate da ignoti per cercare di effettuare prelievi ed erano state poi “bloccate”, se il Manca fosse stato l’autore del furto avrebbe dovuto avere con sé anche l’altra carta di debito (che, invece, non era stata reperita), atteso che «arebbe stato illogico disfarsi di una sola carta di debito se co entrambe aveva cercato di prelevare e se entrambe erano state “bloccate” dalla p.o.», con la conseguenza che «Ella circostanza che sia stata reperita esclusivamente la carta di debito indicata in imputazione induce, piuttosto, a ritenere che la carta sia stata ricevuta da terzi»; b) per essere illogica la valorizzazione del menzionato «contenuto lasso di tempo (pochi giorni) intercorso tra il furto del portafogli ove era custodita la carta ed il suo rinvenimento nell disponibilità del Manca», tenuto conto che l’oggetto del reato era di piccole dimensioni e facilmente smerciabile sul “mercato nero” in un breve lasso di tempo (che era stato, comunque, di diversi giorni, atteso che il furto era stato perpetrato nella serata tra il 25/02/2022 e il 26/02/2022 e che il possesso della carta di debito da parte dell’imputato fu accertato il 03/03/2022); c) alla luce del fatto che, dall’annotazione della polizia giudiziaria alla quale fa riferimento la sentenza impugnata, «non emerge alcun riferimento sull’identificazione dell’autore del furto, né sull’attribuzione del citato reato al Manca», atteso che non si avevano elementi Corte di Cassazione – copia non ufficiale
con riguardo né all’eventuale presenza del Manca nel luogo e al momento del furto né su un suo riconoscimento come autore dei menzionati tentativi di prelevamento; d) l’imputato non aveva mai rappresentato di avere commesso il furto.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino asserisce che, pertanto, la contestata riqualificazione giuridica «non risulta operata sulla base di elementi oggettivi, o su una particolare “lettura” delle fonti di prova acquisite [.. ma bensì sul “sentimento”, evidentemente soggettivo, del giudice di primo grado, assolutamente disancorato dalle risultanze istruttorie».
Dopo avere trascritto un ampio stralcio della motivazione di Sez. 2, n. 43849 del 29/09/2023, COGNOME, Rv. 285313-01, il ricorrente deduce che, «e il dato temporale appare di scarso o nullo rilievo, in assenza di indicazioni espresse dell’imputato, quando il bene provento di furto è una automobile , non si comprende come detto elemento possa avere rilievo determinante in relazione ad una carta di debito, ben più facilmente ricetta bile».
Secondo il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, anche la valorizzazione, da parte del giudice monocratico dello stesso Tribunale, del principio del favor rei sarebbe «”inappropriat” e illogic». Ciò alla luce del principio, affermato da Sez. 2, n. 43427 del 07/09/2016, secondo cui «isponde di ricettazione l’imputato che, trovato nella disponibilità della refurtiva, in assenz di elementi probatori univocamente indicativi del suo coinvolgimento nella commissione del furto, non fornisca una spiegazione attendibile dell’origine della predetta disponibilità».
La valorizzazione del principio del favor rei sarebbe: a) «”inappropriata”» con riguardo alla qualificazione giuridica del fatto, «trattandosi di principio che attien propriamente alla sanzione»; b) illogica in relazione al caso di specie, in quanto lo stesso principio «presuppone l’esistenza di elementi univoci sulla commissione del reato di furto che difettano totalmente».
2.2. In via subordinata, «ove la Corte di cassazione ritenga che vi siano gli estremi per la riqualificazione del ricorso per cassazione in appello», il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino chiede alla stessa Corte di cassazione di sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lett. p), della legge 9 agosto 2024, n. 114, nella parte in cui, sostituendo il primo periodo del comma 2 dell’art. 593 cod. proc. pen., non consente al pubblico ministero di appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2, cod. proc. pen. (tra i quali è compreso anche il reato di ricettazione), con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Secondo il ricorrente, la norma censurata violerebbe: a) il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto, «onsentire all’imputato proporre appello (e ricorso per saltum) nei confronti delle sentenze di condanna senza concedere al pubblico ministero lo speculare potere di appellare contro “le sentenze di proscioglimento” significherebbe porre l’imputato in “una posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti la collettività”, in particola con riferimento alla posizione della persona offesa del reato»; b) l’art. 24 Cost., «non consentendo alla “collettività”, i cui interessi sono rappresentati e difesi dal pubblico ministero, “di tutelare adeguatamente i suoi diritti”: e ciò anche quando l’assoluzione risulti determinata da un errore nella ricostruzione del fatto o nell’interpretazione di norme giuridiche»; c) l’art. 111 Cost., «nella parte in cui impone che ogni processo si svolga “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a un giudice terzo e imparziale”, posto che la disposizione denunciata, senza alcuna ragionevole giustificazione, non permetterebbe all’accusa di far valere le sue ragioni con modalità e poteri simmetrici a quelli di cui dispone la difesa».
Dopo avere riportato un ampio stralcio di Corte cost., sent. n. 26 del 2007, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino espone che, da tale sentenza, si trarrebbe che «eventuali “menomazioni” del potere di appello del pubblico ministero possono apparire ragionevoli allorquando non siano generalizzate ed “unilaterali”».
Il ricorrente deduce che, dai lavori preparatori relativi all’art. 2, comma 1, lett. p), della legge n. 114 del 2024, non risulterebbe alcuna giustificazione, nei suddetti necessari termini, della “menomazione” del potere di appello del pubblico ministero con essa prevista, ma solo un riferimento all’orientamento che era stato espresso dalla Commissione “COGNOME” nel senso «dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del PM», il quale orientamento sarebbe, però, «già stato “smentito” dalla stessa Corte costituzionale n. 26 del 2007».
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino afferma che la “menomazione” del potere di appellare del pubblico ministero, «nel confronto con lo speculare potere dell’imputato», ai fini del rispetto del principio della parità dell parti, «non appare né ragionevole né proporzionale, in quanto “generalizzata” ed “unilaterale”».
Sotto il primo profilo del carattere “generalizzato” della “menomazione”, il ricorrente sottolinea che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, «un numero rilevante di reati anche di allarme sociale non trascurabile sono stati inseriti nell’elencazione di cui all’art. 550, comma 2, c.p.p. . Inoltre, il numero di reati a c.d. citazione diretta è elevatissimo e riguar reati anche gravi, quali il furto in abitazione e, appunto, il reato di ricettazione,
che tutelano rilevanti interessi collettivi, quali i reati edilizi». Ne discenderebbe ch l’inibizione del potere di appello del pubblico ministero e «della derivata facoltà di presentare direttamente ricorso per cassazione» disposto con l’art. 2, comma 1, lett. p), della legge n. 114 del 2024, apparirebbe, «piuttosto che eccezione ragionevole, regola generale, e pertanto irragionevole in presenza di un potere di impugnazione dell’imputato senza limitazione alcuna».
Sotto il secondo profilo, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino sottolinea che la limitazione del potere di appello del pubblico ministero operata con l’art. 2, comma 1, lett. p), della legge n. 114 del 2024, «è inoltre “unilaterale”, in quanto non trova alcuna specifica “contropartita” in particola modalità di svolgimento del processo, rimasta assolutamente immutata».
Il ricorrente conclude citando le parole della Corte costituzionale secondo cui «la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, eccede i limiti di tollerabili costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e “unilaterale” della menomazione stessa: oltre a risultare intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna». Contraddittorietà che, sottolinea ancora il ricorrente, sussisterebbe ancor oggi, tenuto conto che il comma 1 dell’art. 593 cod. proc. pen. contempla ancora il potere del pubblico ministero di appellare contro le sentenze di condanna, sia pure con le limitazioni che sono previste dallo stesso comma.
2.3. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino chiede quindi alla Corte di Cassazione di annullare la sentenza impugnata e, in via subordinata, «ove si ritenga di riqualificare il ricorso in appello», di sollevare le indic questioni di legittimità costituzionale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Per il suo carattere preliminare, occorre anzitutto affrontare la questione che è stata posta dal Procuratore Generale, secondo cui, diversamente da quanto è stato ritenuto dal ricorrente Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino – ad avviso del quale l’impugnata sentenza di proscioglimento del Tribunale di Torino, essendo relativa a un reato per il quale è prevista la citazione diretta a giudizio, sarebbe inappellabile a norma dell’art. 593, comma 2, primo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. p), della legge n. 114 del 2024 (la cosiddetta “legge Nordio”), sicché il ricorso per cassazione è stato proposto ai sensi dell’art. 608, comma 2, cod. proc. pen. la stessa sentenza, in quanto emessa in esito a giudizio abbreviato, sarebbe invece tutt’ora appellabile, con le conseguenze che: a) il proposto ricorso dovrebbe essere riqualificato come
appello, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.; b) gli atti dovrebbero essere trasmessi alla Corte d’appello di Torino per il giudizio di appello.
Tale tesi non è condivisibile, giacché si deve invece ritenere che, a seguito della menzionata recente novella legislativa, anche le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio che siano sta emesse in esito a giudizio abbreviato, al pari di quelle emesse per gli stessi reati in esito a giudizio ordinario, non siano appellabili dal pubblico ministero.
Come si diceva, la “legge COGNOME” ha sostituito il primo periodo del comma 2 dell’art. 593 cod. proc. pen.
Tale periodo, se prima stabiliva che «Il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di proscioglimento», a seguito della novella prevede invece che «Il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2» (cioè per i reati per i quali è previst citazione diretta a giudizio).
Ad avviso del Procuratore Generale, tale norma novellata non sarebbe applicabile alle sentenze di proscioglimento emesse in esito a giudizio abbreviato, ma solo alle sentenze emesse in esito a giudizio ordinario.
Tale tesi del Procuratore Generale si fonda sulla considerazione che la disciplina dell’appello contro tutte le sentenze di proscioglimento emesse in esito a giudizio abbreviato sarebbe contenuta non nel novellato art. 593, comma 2, primo periodo, cod. proc. pen., ma nell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., richiamato dall’art. 556, comma 1, dello stesso codice. Nel contenuto normativo, però, di detto comma 1 dell’art. 443 cod. proc. pen. (secondo cui: «L’imputato e il pubblico ministero non possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento») che risulta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 320 del 2007, con la quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della leg 20 febbraio 2006, n. 46 (la cosiddetta “legge COGNOME“), «nella parte in cui, modificando l’art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato».
Pertanto, secondo il Procuratore Generale, le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2, cod. proc. pen., sarebbero: a) inappellabil dal pubblico ministero a norma dell’art. 593, comma 2, primo periodo, cod. proc. pen., se emesse in esito a giudizio ordinario; b) appellabili dal pubblico ministero a norma dell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., nel contenuto normativo di tale comma che risulta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 320 del 2007, se emesse in esito a giudizio abbreviato.
Come si è anticipato, tale tesi non può essere condivisa.
Ciò per la ragione che la sentenza della Corte costituzionale n. 320 del 2007, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge n. 46 del 20 «nella parte in cui, modificando l’art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato», è una sentenza di accoglimento parziale, dichiarativa, appunto, dell’illegittimità costituzionale della norma che escludeva il suddetto potere de/pubblico ministero e non una sentenza additiva (“nella parte in cui non prevede”) che attribuisse al pubblico ministero il medesimo potere.
Ne discende che, diversamente da quanto mostra di ritenere il Procuratore Generale, prima della più volte menzionata novella legislativa del 2024, il potere del pubblico ministero di appellare contro le sentenze di proscioglimento pronunciate all’esito del giudizio abbreviato si doveva ritenere discendere non dall’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., ma dalla disposizione generale di cui all’art. 593, comma 2, primo periodo, cod. proc. pen., secondo cui il pubblico ministero poteva appellare contro le sentenze di proscioglimento. Disposizione generale che non era più, per così dire, “compressa” dalla norma dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 320 del 2007.
Da ciò deriva conclusivamente che: a) non si può ritenere sussistente una specifica norma che attribuisca al pubblico ministero il potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse in esito a giudizio abbreviato, norma che, per quanto si è detto, non è ravvisabile nell’art. 443, comma 1, cod. proc. pen.; b) la sostituzione, a opera dell’art. 2, comma 1, lett. p), della legge n. 114 del 2024, della regola generale di cui all’art. 593, comma 2, primo periodo, cod. proc. pen., nel senso che il pubblico ministero «non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2», si deve ritenere applicabile anche alle sentenze di proscioglimento che sono state pronunciate all’esito del giudizio abbreviato.
Tale disposizione del primo periodo del comma 2 dell’art. 593 cod. proc. pen., del resto, diversamente da quella del successivo secondo periodo dello stesso comma 2 (secondo cui: «L’imputato può appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento »), non indica che l’inappellabilità da parte del pubblico ministero da essa prevista riguardi solo le sentenze di proscioglimento pronunciate all’esito del dibattimento.
In secondo luogo, si deve ritenere che le sollevate questioni di legittimità costituzionale risultino assorbite.
Esse sono state infatti sollevate dal ricorrente in via subordinata, per il caso in cui il proposto ricorso per cassazione «avesse la “sostanza” dell’appello» (come tale, però, non più riqualificabile).
Ciò, tuttavia, non è, atteso che l’impugnazione che è stata proposta dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino presenta senz’altro i requisiti di sostanza, oltre che di forma, del ricorso per cassazione, atteso che, con la stessa impugnazione, sono stati dedotti dei vizi di legittimità; specificamente, di violazione di legge (primo e secondo motivo) e di motivazione (terzo motivo). Motivo, quest’ultimo motivo, che il ricorrente poteva anch’esso dedurre, trattandosi non di un ricorso immediato, ai sensi dell’art. 569 cod. proc. pen., ma di un ricorso contro una sentenza inappellabile, il quale è proponibile anche per il motivo di cui alla lett. e) del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. pen.
Venendo, infine, al merito del ricorso, i motivi dello stesso sono fondati.
Secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, risponde di ricettazione l’imputato che, trovato nella disponibilità della refurtiva, in assenza d elementi probatori univocamente indicativi del suo coinvolgimento nella commissione del furto, non fornisca una spiegazione attendibile dell’origine della suddetta disponibilità (Sez. 2, n. 43427 del 07/09/2016, Ancona, Rv. 267969-01; Sez. 2, n. 5522 del 22/10/2013, dep. 2014, Proietto, Rv. 258264-01).
Il Tribunale di Torino non ha rispettato tale del tutto consolidato principio, atteso che ha reputato che l’imputato avesse commesso lui stesso il furto della carta bancomat senza né indicare che il Manca avesse mai rappresentato di avere commesso tale reato, né evidenziare elementi probatori univocamente indicativi di un suo coinvolgimento in esso (quali, ad esempio, la sua riscontrata presenza nel luogo e al momento in cui il furto fu commesso), attribuendo, del tutto illogicamente, rilievo decisivo al solo lasso di tempo, in quanto asseritamente «contenuto», che era intercorso tra il furto della carta bancomat e il rinvenimento di essa nella disponibilità del Manca.
Ciò nonostante tale elemento temporale, in mancanza di qualsiasi circostanziata affermazione del Manca di essere l’autore del furto e di qualsiasi elemento univocamente indicativo di un suo coinvolgimento in esso, risulti, all’evidenza, logicamente del tutto insufficiente, tanto più tenuto conto del fatto che il lasso di tempo di circa cinque giorni che era intercorso tra il furto della carta bancomat e il rinvenimento di essa nella disponibilità del Manca appare tutt’altro che «contenuto», se valutato nella prospettiva, che è quella che qui rileva, della possibile ricezione da altri della res furtiva.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio, per un nuovo giudizio, al Tribunale di Torino, in diversa persona fisica.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di
Torino, in diversa persona fisica.
Così deciso il 23/04/2025.