Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 27064 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 27064 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 09/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nato a Milano il 2/12/1968
avverso la sentenza del 5/12/2024 della Corte di appello di Venezia
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso;
lette la memoria del difensore del ricorrente, che ha replicato alle argomentazioni formulate nell’anzidetta requisitoria e ha chiesto l’accoglimento del ricorso, e le conclusioni scritte della parte civile.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 dicembre 2024 la Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della pronuncia emessa il 28 novembre 2023 dal Tribunale di Belluno nei confronti di NOME COGNOME ha ridotto l’importo liquidato a titolo
risarcitorio, determinandolo nella misura complessiva di 500,00 euro, e ha confermato nel resto.
NOME COGNOME è stato condannato alla pena di due mesi di reclusione, in quanto ritenuto responsabile del delitto ex art. 388 cod. pen., per non avere consegnato entro il termine di dieci giorni la vettura indicata in imputazione, sottoposta a pignoramento, benché intimato dall’ufficiale giudiziario.
Avverso la sentenza di appello il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i motivi di seguito indicati.
3.1. Inosservanza degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. Il Giudice di primo grado, pur avendo affermato nel dispositivo che l’imputato era responsabile del reato ascrittogli, ossia di quello di cui all’art. 388, comma quinto, cod. pen. (cos come indicato nell’imputazione), avrebbe descritto, nella motivazione, una condotta riconducibile nell’ambito dell’art. 388, comma primo, cod. pen., tanto da infliggere solo la pena della reclusione, come previsto dal citato primo comma, mentre il quinto comma prevede le pene detentiva e pecuniaria congiunte. La sentenza di primo grado risulterebbe emessa, quindi, per un delitto diverso da quello contestato, in totale assenza di riqualificazione giuridica e, comunque, di motivazione. Il Tribunale, nell’applicare il primo comma dell’art. 388 cod. pen., avrebbe riqualificato il fatto, senza, però, rimettere il fascicolo a pubblico ministero e avrebbe contestato una condotta nuova, non oggetto di originaria imputazione. La Corte di appello, dal canto suo, avrebbe errato nel non dichiarare la nullità della sentenza di primo grado e sarebbe anche incorsa nella violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., avendo ella stessa riqualificato il delit contestato ai sensi dell’art. 388, comma settimo, cod. pen. Pur non svolgendo una riqualificazione comportante una modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale avrebbe spostato la condotta contestata da un reato comune e a condotta commissiva a un reato proprio e a condotta omissiva, modificando così in modo sostanziale la qualificazione della condotta stessa. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3.2. Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Il Tribunale di Belluno ha dichiarato l’imputato responsabile del reato a lui ascritto (ossia, di quello di cui all’art. 388, comma quinto, cod. pen., come indicato nell’imputazione), facendo, però, esplicito riferimento nell’intera motivazione al reato previsto e punito dal primo comma della stessa norma. La Corte di appello avrebbe errato nel non riconoscere tale vizio.
Sono pervenute la memoria del difensore del ricorrente, che ha reiterato la richiesta di accoglimento del ricorso, e le conclusioni scritte con la nota spese della parte civile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
2.1. Va premesso che le censure, formulate nel ricorso, paiono accomunare due istituti, ossia quelli della riqualificazione giuridica dei fatti e della necessa corrispondenza tra la contestazione e il fatto ritenuto nella sentenza, che sono diversi e hanno una disciplina differente.
Al riguardo, va ricordato che questa Corte ha chiarito che la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza si verifica quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, tale da recare un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. 3, n. 7146 del 4/02/2021, Ogbeifun, Rv. 281477 – 01; Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, dep. 2016, Addio, Rv. 265946 – 01; Sez. 6, n. 81 del 6/11/2008, dep. 2009, Zecca, Rv. 242368 – 01; Sez. 3, n. 35225 del 28/06/2007, COGNOME, Rv. 237517 – 01; Sez. 3, n. 818 del 6/12/2005, dep. 2006, COGNOME, Rv. 233257 – 01).
Si è precisato, quindi, che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Ne consegue che l’indagine, volta ad accertare la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., non può esaurirsi nel pedissequo e mero confronto letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051 – 01).
La qualificazione giuridica del fatto, invece, è l’operazione con cui il giudice, sulla base degli elementi di prova emersi nel corso del processo, attribuisce al fatto concreto la corrispondente fattispecie astratta prevista dalla legge penale. In sostanza, si tratta di stabilire se un determinato comportamento, considerato penalmente rilevante, corrisponda a un reato specifico previsto dal codice penale o da leggi speciali.
Il giudice può sempre dare al fatto una qualificazione giuridica diversa rispetto a quella proposta dal pubblico ministero, purché non modifichi il fatto storico, oggetto dell’imputazione. Anche nei giudizi di appello e di cassazione il giudice può riqualificare il fatto, purché la diversa qualificazione sia prevedibile e non configuri una sorpresa per l’imputato.
Al riguardo, la Corte EDU ha affermato, con sentenza emessa l’11 dicembre 2007 (cd. “Drassich 1”), che “poiché l’atto di accusa svolge un ruolo fondamentale nel procedimento penale, l’art. 6, § 3, lett. a) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo riconosce all’imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell’accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti”.
La Corte di Strasburgo ha osservato, in particolare, che in materia penale, “un’informazione precisa e completa delle accuse a carico di un imputato e, dunque, la qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe considerare nei suoi confronti è una condizione fondamentale dell’equità del processo”.
L’art. 6 f lett. a) fdella Convenzione non impone che l’anzidetta informazione sia data con modalità particolari; il diritto dell’imputato, però, ai sensi dell’art § 3, lett. b) fdella Convenzione va tutelato tenendo conto della necessità che egli possa utilmente preparare la sua difesa. Come sottolineato dalla Corte europea, “se i giudici di merito dispongono, quando tale diritto è loro riconosciuto nel diritto interno, della possibilità di riqualificare i fatti per i quali sono regolarmente aditi, essi devono assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l’opportunità di esercitare i loro diritti di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva. Ciò implica che essi vengano informati in tempo utile non solo del motivo dell’accusa, cioè dei fatti materiali che vengono loro attribuiti e sui quali si fonda l’accusa, ma anche e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti”.
Alla luce delle suddette coordinate ermeneutiche la Corte di cassazione ha precisato che il contraddittorio deve essere assicurato all’imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente alla previsione dell’art. 111, comma 2, Cost., secondo la lettura integrata alla luce dell’art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla CEDU. Il rispetto del contraddittorio impone esclusivamente che la diversa qualificazione giuridica non avvenga “a sorpresa”, determinando conseguenze negative per l’imputato (e, quindi, fondando un suo concreto interesse ad ottenerne la rimozione), che, per la prima volta, e senza mai avere avuto la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto stor radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali, al punto tale,
cioè, da imporre una diversa e nuova definizione giuridica del fatto medesimo, rispetto a quanto contestato, in punto di fatto e di diritto, nell’imputazione, di cu rappresenta uno sviluppo inaspettato. Condizione che non si verifica in due occasioni: da un lato, quando l’imputato o il suo difensore abbiano avuto, nella fase di merito, la possibilità comunque di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione; dall’altro, quando la diversa qualificazione giuridica appare come uno dei possibili (si potrebbe dire “non sorprendenti”) epiloghi decisori del giudizio (di merito o di legittimità), stante la riconducibilità del fatto storico cui è stata dimostrata la sussistenza all’esito del processo e rispetto al quale è stato consentito all’imputato o al suo difensore l’effettivo esercizio del diritto d difesa, ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l’eventuale esclusione dell’una comporta, inevitabilmente, l’applicazione dell’altra, non corrispondendo, in tale ipotesi, alla diversa qualificazione giuridica una sostanziale immutazione del fatto, che, integro nei suoi elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile (cfr. Sez. 6, n. 422 del 19/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278093 – 01; Sez. 6, n. 11956 del 15.2.2017, B., Rv. 269655 01; Sez. 2, n. 44615 del 12/07/2013, COGNOME, Rv. 257750 – 01; Sez. 5, n. 7984 del 24.9.2012, COGNOME, Rv. 254648 – 01).
Si è ulteriormente avuto modo di affermare in sede di legittimità che non sussiste violazione del diritto al contraddittorio quando l’imputato abbia avuto modo di interloquire in ordine alla nuova qualificazione giuridica attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione, non solo davanti al giudice di secondo grado, ma anche davanti al giudice di legittimità (Sez. 6, n. 10093 del 14/02/2012, Vinci, Rv. 251961 – 01; Sez. 2, n. 32840 del 9/05/2012, COGNOME Rv. 253267 – 01; Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012, dep. 2013, COGNOME Rv. 254649 – 01; Sez. 3, n. 2341 del 7/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 254135 – 01; Sez. 2, n. 45795 del 13/11/2012, COGNOME, Rv. 254357 – 01).
2.2. Nel caso in esame, la Corte di appello – con argomentazioni corrette e logiche – ha affermato che il primo Giudice, pur diffondendosi nella ricostruzione delle varie declinazioni delineate nell’art. 388 cod. pen., aveva evidenziato le ragioni dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, sottolineando, peraltro, condotte anche ulteriori rispetto a quanto sufficiente a corrispondere al perimetro dell’addebito, consistente nel non avere l’imputato consegnato l’auto, nonostante l’intimazione dell’ufficiale giudiziario.
Correttamente, quindi, la Corte territoriale ha ritenuto che nessuna violazione del principio della necessaria corrispondenza tra accusa e sentenza si fosse concretizzata. Difatti, a fronte della contestazione, incentrata sul volontario inadempimento dell’intimazione dell’ufficiale giudiziario di consegnare entro il
termine di dieci giorni la vettura indicata in imputazione, sottoposta a pignoramento, l’imputato è stato condannato proprio per tale inottemperanza.
Non essendosi verificata alcuna violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. e dell’art. 6 CEDU, ne consegue che non ha fondamento neanche la censura del ricorrente sulla mancata trasmissione degli atti al Pubblico ministero.
Giova precisare che il giudice d’appello, in tanto può annullare la sentenza di primo grado e contemporaneamente disporre la trasmissione degli atti al Pubblico ministero competente perché si proceda a un nuovo giudizio, in quanto accerti che il fatto è diverso da quello contestato, non potendo, in tale ipotesi, decidere in ordine allo stesso, in quanto sottrarrebbe all’imputato un grado di giudizio e ne violerebbe conseguentemente in maniera irreparabile il diritto di difesa.
2.3. Quanto alla diversa questione della qualificazione giuridica, va sottolineato che la Corte di appello ha rilevato che il riferimento contenuto nell’imputazione al comma quinto dell’art. 388 cod. pen. era un errore materiale, essendo evidente, sulla base della descrizione del fatto, che si era inteso contestare l’art. 388, comma settimo, cod. pen., che, per l’appunto, punisce la condotta posta in essere dal ricorrente.
Ad ogni modo, ove pure volesse trascurarsi tale rilievo, dovrebbe affermarsi che non è revocabile in dubbio che la Corte territoriale, nell’esercizio dei suoi poteri, ha correttamente qualificato il fatto ai sensi dell’art. 388, comma settimo, cod. pen. e ciò non è avvenuto a sorpresa, atteso che, oltre a costituire un esito prevedibile, lo stesso ricorrente aveva posto il problema della qualificazione con l’atto di gravame.
Nessun vizio, dunque, si ravvisa nella sentenza impugnata.
3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
Secondo il ricorrente, il Giudice di primo grado avrebbe in motivazione descritto un fatto riconducibile all’art. 388, comma primo, cod. pen., mentre nel dispositivo avrebbe condannato l’imputato per il reato di cui all’art. 388, comma quinto, cod. pen.
Fermo restando quanto indicato nel paragrafo precedente, va precisato che ciò che lamenta il ricorrente è un vizio della motivazione della sentenza di primo grado, ma siffatta deduzione è inconferente, atteso che ciò che viene oggi in esame, al fine del sindacato sulla motivazione, è la pronuncia non di primo grado ma di appello, che non presta il fianco a censure.
Va aggiunto che il vizio di motivazione della sentenza di primo grado non rientra tra i casi, tassativamente previsti dall’art. 604 cod. proc. pen., per i qual il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e
trasmettere gli atti al giudice di primo grado, dovendo lo stesso provvedere a redigere, anche integralmente, la motivazione mancante, in forza dei poteri di
piena cognizione e valutazione del fatto che contraddistinguono il giudizio di secondo grado (Sez. 6, n. 58094 del 30/11/2017, COGNOME, Rv. 271735 – 01;
Sez. 6, n. 26075 del 8/6/2011, B., Rv. 250513 – 01). Al giudice d’appello, infatti, non è consentito limitarsi ad annullare con rinvio la sentenza resa dal Tribunale
che sia afflitta da un errore di motivazione o da una mancanza di motivazione, anche radicale, dovendo sempre decidere nel merito, fatti salvi i casi previsti
dall’art. 604 del codice di rito, tra i quali non rientra quello dedotto dal ricorrente.
4. La declaratoria di inammissibilità del ricorso comporta, ai sensi dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché – non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost., 13 giugno
2000 n. 186) – della somma di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
L’esito del giudizio comporta, inoltre, la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile NOME COGNOME che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile NOMECOGNOME che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge. Così deciso il 9 luglio 2025.