Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 41534 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 41534 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME GLYPH nato a omissis
avverso la sentenza del 29/09/2023 della CORTE APPELLO di CATANIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso riportandosi alla propria requisitoria in atti; udito, per la parte civile, l’avvocato COGNOME che si riporta agli scritti dell’avv. CONCETTA RAZZA, dal primo sostituita, e deposita conclusioni e nota spese, specificando che la propria assistita è ammessa al patrocinio a spese dello Stato; udito, per l’imputato, l’avvocato NOME COGNOME che insiste per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Catania ha confermato la condanna di
G.A.
per i reati di lesioni gravi e violazione degli obblighi di assistenza familiare.
In particolare, la condanna è stata emessa per avere il
G.A.
cagionato (il 17/4/2012) a COGNOME P.P. COGNOME , sua convivente, lesioni personali consistite in “addome acuto da emiperitoneo secondario a rottura post traumatica di milza”, che veniva asportata, con conseguenti indebolimento permanente del sistema reticolo-endoteliale e un danno biologico del 15%;
omesso ripetutamente di far fronte agli obblighi di assistenza nei riguardi della figlia minore, rendendosi inadempiente anche all’ordinanza emessa all’uopo il 22/6/2017 dal Tribunale Civile di Caltagirone.
Ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato.
2.1. Col primo motivo ha addotto tutti i vizi di motivazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., in relazione alla sua condanna per il reato di lesioni gravi.
La Corte d’appello avrebbe travisato le dichiarazioni della persona offesa e dei testimoni (i genitori della’ GLYPH P.P. GLYPH l), nonché la consulenza medico-legale.
La P.P. , secondo la difesa, si sarebbe contraddetta avendo, inizialmente (nella querela del 10/3/2017, nella sua integrazione del 23/8/2017 e nelle sommarie dichiarazioni rilasciate il 3/5/2017 e il 14/11/2017), attribuito le lesioni a una caduta accidentale dalle scale, per poi cambiare versione solo successivamente, in data 14/9/2018, dopo la remissione di querela, affermando che le stesse fossero state causate da un pugno sferratole dal G.A.
La Corte, nel dare credito a queste ultime dichiarazioni, avrebbe reso una motivazione illogica, cadendo anche nel travisamento della prova, ritenendole in maniera apodittica veritiere.
Si rimarca, inoltre, come la consulenza tecnica avesse evidenziato la compatibilità delle lesioni in esame anche con la caduta dalle scale.
2.2. Anche col secondo motivo parte ricorrente deduce, genericamente, la sussistenza di tutti i vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione alla violazione degli obblighi di assistenza familiare.
La difesa assume di aver parzialmente adempiuto agli obblighi, versando somme di denaro (anche se non regolarmente). Sostiene, ancora, che la Corte territoriale non avrebbe considerato adeguatamente (fornendo una motivazione apparente sul punto) le prove circa l’impossibilità del GLYPH G.A. GLYPH di adempiere pienamente agli obblighi per motivi economici (percependo uno stipendio di appena 1.000,00 euro mensili e dovendo far fronte alle spese di sostentamento in Germania).
2.3. Col terzo motivo parte ricorrente lamenta l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla mancata dichiarazione di prescrizione del reato di lesioni gravi.
La difesa afferma che la Corte d’Appello avrebbe dovuto dichiarare prescritto tale reato poiché il termine massimo di prescrizione (di 7 anni), anche considerando le interruzioni e sospensioni (queste ultime per 268 giorni), era scaduto il 17/10/2021.
2.4. Col quarto motivo, infine, il ricorrente lamenta la mancanza di motivazione in relazione all’omesso riconoscimento della sospensione condizionale della pena, atteso che, assolvendo l’imputato dal reato di maltrattamenti, la Corte d’appello aveva rideterminato la stessa in misura inferiore a quella per cui il beneficio avrebbe potuto essere concesso ai sensi dell’articolo 163 cod. pen., in presenza di tutti gli ulteriori presupposti previsti dalla legge e pur essendo ciò possibile d’ufficio ai sensi dell’articolo 597, comma 5, cod. proc. pen.
La difesa ha chiesto, in definitiva, l’annullamento della sentenza impugnata, allegando i verbali delle sommarie informazioni rese dalla persona offesa, P.P. , nelle diverse fasi processuali.
Il Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, previa riqualificazione del fatto nell’ipotesi di lesioni gravissime previste dall’art. 583, comma 2, n. 3, cod. pen.
I difensori delle parti hanno dichiarato di aver ricevuto la notifica della requisitoria del Procuratore Generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile in relazione alle prime due doglianze, infondato, quanto alle residue.
Il vizio di motivazione (per sua contraddittorietà, omissione o manifesta illogicità) censurabile in sede di legittimità ex art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen. deve risultare dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo trascritti o allegati integralmente a pena d’inammissibilità (si veda, ex
plurimis, Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, Rv. 270071).
Specie l’illogicità, poi, deve essere «manifesta» ovvero di palmare evidenza. I dati da cui si desume devono essere di superiore valenza esplicativa difforme rispetto a quelli valorizzati in sede di merito, in caso contrario traducendosi nella inammissibile istanza di una diversa valutazione del materiale probatorio (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944-01; confronta, negli stessi termini, ex multis: Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504-01).
Insomma, non è consentito, in sede di legittimità, opporre alla (non manifestamente illogica) valutazione del giudice di merito (o dei giudici dei due gradi, saldandosi tra loro le pronunce conformi: Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615-01; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250-01) una diversa (e magari altrettanto logica) ricostruzione (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Rv. 205621-01; Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 28550401) o chiedere di valutare il “peso” delle singole prove, ove pure trascurate in sede di merito (Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, Rv. 278609-01).
Inammissibile è, poi, il contestuale e generico inquadramento delle censure in plurimi vizi di motivazione e/o violazioni di legge (si vedano: Sez. 2, n. 25741 del 20/03/2015, Rv. 264132-01, su plurime censure in diritto; Sez. U, Sentenza n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027, in motivazione; Sez. 4, Sentenza n. 8294 del 01/02/2024, Rv. 285870-01, su molteplici vizi motivazionali; infine, Sez. 5, n. 1130 del 4/10/2021, dep. 2022, non massimata, sulla denuncia cumulativa di violazioni di legge e vizi di motivazione).
Nella specie, fuori dai detti limiti, coi primi due motivi ci si limita contrapporre semplicemente una diversa lettura delle prove.
Trattasi della richiesta di una non consentita (in questa sede) rivalutazione del materiale probatorio finalizzata a una rivisitazione del giudizio di merito con cui, in modo esaustivo, non manifestamente illogico e non contraddittorio, s’è ritenuto, quanto al delitto di lesioni, che, a fronte dell’iniziale versione dell persona offesa (circa la determinazione delle lesioni a seguito di una caduta accidentale), fosse, invece, veritiera la versione da ultimo fornita (ossia che le stesse fossero state provocate dall’imputato con un pugno).
In particolare, la Corte d’appello ha correttamente valorizzato:
la circostanza che la persona offesa avesse reso tali dichiarazioni accusatorie dopo la remissione di querela (e, quindi, in un momento in cui l’acredine tra le parti era certamente quantomeno scemata);
il fatto che la GLYPH P.P. GLYPH avesse ritenuto di cambiare versione dopo che le era stato contestato dagli inquirenti che, secondo i suoi genitori, lei aveva loro confidato che le lesioni fossero state provocate con un pugno dal
G.A.
(e dunque allorché ha ritenuto di non poter più sostenere l’iniziale diversa versione);
-il fatto che i genitori della COGNOME P. P. avessero dichiarato di avere, a loro volta, saputo sin da subito, dal chirurgo che aveva operato la figlia, asportandole la milza, che non si fosse trattato di lesioni accidentali, bensì provocate da un’aggressione ai suoi danni;
-la stessa conferma, da parte dei genitori, di aver saputo dalla figlia la reale causa delle menzionate lesioni, ovvero il pugno sferratole dall’odierno ricorrente;
-“l’anomala assenza di lesioni contusive corollarie a carico degli altri segmenti corporei, ordinariamente presenti a seguito di una caduta dalle scale, ma nella specie non manifestatesi nell’arco della settimana di degenza post operatoria della persona offesa”.
Con tutti questi elementi parte ricorrente neppure si confronta, limitandosi, in definitiva, a valorizzarne altri a suo dire (e non certo nel modo di oggettiva superiore valenza di cui si è detto) preferibili rispetto a quelli ritenuti dal giudice d’appello.
Analogamente deve dirsi in relazione al secondo motivo di ricorso, atteso che la Corte d’appello, che ha anche acquisito documenti attestanti i redditi dell’imputato (in particolare in relazione al 2016), ha ritenuto (con valutazione congrua ed assolutamente immune da censure, dopo aver richiamato la giurisprudenza in materia di questa Corte) che non vi fosse prova che l’omesso adempimento fosse dovuto all’impossibilità oggettiva e incolpevole dell’imputato di provvedere al mantenimento della figlia minore.
Anche in tal caso la richiesta di parte ricorrente, che peraltro non indica neppure quali elementi probatori sarebbero stati trascurati dal giudice d’appello, mira inammissibilmente (e semplicemente) alla formulazione di un (diverso, rispetto a quello del giudice d’appello) giudizio di merito.
3. Il terzo motivo è infondato.
Come evidenziato nella sua requisitoria dal Procuratore Generale, è evidente che il fatto sia da qualificare in termini di lesioni gravissime previste dall’art. 583, comma 2, n. 3, cod. pen., posto che nella specie è contestata la perdita di un organo (la milza, per l’appunto, che, secondo le pacifiche nozioni di medicina è qualificabile come tale).
È noto, al riguardo (in tal senso si vedano, ad esempio, Sez. 3, n. 9457 del 19/01/2024, Rv. 286026-01 e Sez. 5, n. 27905 del 03/05/2021, Rv. 281817-03), che la riqualificazione giuridica del fatto, nel rispetto del principio del giusto
processo previsto dall’art. 6 CEDU, è condizionata dalla sua sufficiente prevedibilità (qui certamente sussistente, essendo stato a chiare lettere contestato si trattasse di lesioni determinanti la perdita di un organo) e dall’essere l’imputato messo in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto: ciò che, nella specie, è avvenuto, avendo le parti ricevuto la requisitoria del Procuratore Generale (come da loro confermato nel corso dell’udienza), con cui si è chiesto il corretto inquadramento giuridico del fatto nell’alveo normativo che gli appartiene.
Né l’effetto che ne deriva ai fini della prescrizione può ritenersi vietato dall’ordinamento.
Invero, secondo l’art. 597 cod. proc. pen.: «Quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata, né revocare benefici, salva la facoltà entro i limiti del comma 1, di dare al fatto una definizione giuridica più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado». È evidente che la disposizione non indichi, tra gli effetti inibiti dal divieto di reformatio in peius, la determinazione di un più lungo termine di prescrizione, che deve ritenersi precipitato diretto della mera applicazione dell’art. 157 cod. pen. alla corretta definizione giuridica del fatto (in tal senso, tra le tante, Sez. 2, n. 23410 del 01/07/2020, Rv. 279772-01, Sez. 1, n. 49671 del 24/09/2019, Rv. 277859-01, Sez. 2, n. 46712 del 30/10/2019, Rv. 277599-01 e Sez. 6, n. 32710 del 16/07/2014, Rv. 260663-01; Sez. 2, n. 40357 del 22/06/2023, non massimata, le quali, in definitiva, rimarcano che il detto divieto non garantisce al condannato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole di quello riservatogli dal primo giudice, ma impedisce soltanto un trattamento sanzionatorio deteriore).
Proprio in ragione di quanto detto, ovvero delle condizioni a cui è subordinata la corretta diversa qualificazione di una contestazione (e, dunque, in considerazione della possibilità per l’imputato di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e, soprattutto, della sufficiente prevedibilità di tale qualificazione), la soluzione qui adottata non si pone in contrasto con i principi di cui alla recente Sez. U, n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, Rv. 285517-01: che riguarda il (ben diverso) caso in cui si discuta di una contestazione suppletiva di un’aggravante ad effetto speciale operata dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato. Invero, nel caso in esame, si ripete, si fornisce, molto più semplicemente, la corretta qualificazione del fatto, così come originariamente
contestato, qualificazione del tutto prevedibile (in ragione della sua formale narrazione nel libello accusatorio): senza, dunque, alcuna modifica dello stesso che ponga il problema dell’affidamento dell’accusato nella originaria imputazione (che venga radicalmente modificata in virtù della contestazione di un’aggravante).
Dunque, nella specie non può parlarsi di violazione del diritto di difesa, evocata in quelle pronunce (quali Sez. 2, n. 37795 del 28/06/2019, Rv. 27708702), qui non condivise, che vedono nella mera riqualificazione del fatto la «reviviscenza dell’imputazione, che alla data della pronunzia di secondo grado doveva ritenersi già estinta per intervenuta prescrizione». Invero, ad avviso della Corte non può parlarsi di “estinzione” e “reviviscenza” della fattispecie di reato ab origine contestata e rimasta assolutamente immutata, laddove (con sviluppo – si ripete – del tutto prevedibile e comunque fatto oggetto di possibile discussione per le parti: il che elide anche qualsivoglia ipotesi di violazione del diritto di difesa) ci si limiti ad applicare la corretta disposizione di legge a quel determinato fattoreato: che, a ben vedere, se interpretato nel giusto modo sin dall’inizio, deve ritenersi non essersi mai prescritto, evidentemente.
Naturalmente, la pena massima prevista per il delitto di lesioni gravissime (dodici anni di reclusione) rende palese che il delitto non sia prescritto neppure alla data della presente decisione.
4. Infondato è, infine, il quarto motivo di ricorso.
Le sezioni unite di questa Corte hanno, invero, chiarito (proprio in relazione all’omesso esercizio del potere-dovere di provvedere sui benefici previsti dall’articolo 597, comma 5, cod. proc. pen.) che:
«la non decisione sul punto non costituisce violazione di norma penale sostanziale (art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.) e, neppure, violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art. 606, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.), tale non essendo l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen.; soprattutto la “non decisione”, in appello, sui benefici di legge non è denunciabile come vizio di motivazione per mancanza (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.), laddove la parte – che avrebbe potuto sollecitarne l’esercizio, in relazione ai possibili sviluppi del processo di secondo grado ancorché preceduto da giudizio assolutorio o incompatibile con il riconoscimento della sospensione condizionale della pena – non abbia richiesto, senza averne fatto (o potuto fare) motivo di impugnazione, l’applicazione del beneficio nel corso del medesimo giudizio di appello» (Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, dep. 22/05/2019, Rv. 275376-01).
Nella specie nulla si deduce, da parte ricorrente, circa l’eventuale richiesta di applicazione del beneficio nel corso del giudizio d’appello, che, per giunta,
dall’esame diretto degli atti comunque non risulta.
5. È, da ultimo, appena il caso di precisare che con l’assoluzione dal delitto di cui all’art. 572 cod. pen. la
Corte d’appello abbia, seppur implicitamente, determinato l’eliminazione dell’aggravante di cui agli artt. 585-576, numero 5,
cod. pen. contestata per il delitto di lesioni.
6. Parte ricorrente va condannata alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile, dovute pure in caso di parziale accoglimento
dell’impugnazione, decisiva essendo la mancata esclusione totale del diritto risarcitorio vantato dalla medesima parte (Sez.
U, n. 6402 del 30/04/1997, Rv.
207946-01; Sez. 4, n. 2637 del 04/12/2006, dep. 2007, Rv. 235894-01). La liquidazione viene fatta considerato l’impegno profuso dalla parte vincente.
La materia trattata (inerente dati sensibili o comunque meritevoli di particolare riservatezza, quali lo stato di salute) impone di disporre che siano
omesse le generalità e gli altri dati identificativi, ex art. 52 d.lgs.196/2003, in caso di diffusione del presente provvedimento.
P.Q.M.
Previa riqualificazione del fatto di cui al capo 2) come lesioni gravissime ex artt. 582 e 583 comma 2 n. 3) cod. pen., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla refusione di quelle sostenute nel grado dalla parte civile che liquida in euro 4.000, oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in data 9/10/2024
Il Co sigliere estensore