Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 32540 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 32540 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/07/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA NOME COGNOME nato a CAMPOBASSO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 24/10/2024 della CORTE di APPELLO di CAMPOBASSO
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo emettersi visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; declaratoria di inammissibilità dei ricorsi;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 24 ottobre 2024 la Corte d’Appello di Campobasso confermava la sentenza emessa il 3 ottobre 2023 dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Campobasso con la quale gli imputati COGNOME NOME e COGNOME NOME erano stati dichiarati colpevoli del reato di tentata rapina (così riqualificato il fatto dal giudice di primo grado rispetto all’imputazione originaria di tentata estorsione) loro in concorso ascritto e condannati alle pene di legge.
Avverso tale sentenza proponevano ricorso per cassazione, con distinti atti, entrambi gli imputati, per il tramite dei rispettivi difensori, chiedendone l’annullamento.
La difesa di COGNOME articolava due motivi di doglianza.
Con il primo motivo deduceva violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. assumendo che il giudice di primo grado non correttamente aveva riqualificato il fatto oggetto dell’imputazione, trattandosi nella specie di giudizio abbreviato “secco”, laddove tale riqualificazione giuridica era consentita solo in relazione a fatti emersi a seguito della integrazione probatoria effettuata su richiesta di parte, nell’ipotesi di giudizio abbreviato condizionato, o d’ufficio.
Con il secondo motivo deduceva contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione assumendo che le prove assunte erano insufficienti a fondare una statuizione di responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio, e in particolare che le dichiarazioni accusatorie della persona offesa COGNOME NOME erano inattendibili e, quanto alla descrizione della dinamica dell’aggressione, in contrasto con quelle del testimone COGNOME NOME e con il contenuto della relazione di COGNOME servizio effettuata COGNOME dagli COGNOME agenti COGNOME intervenuti NOME sul COGNOME luogo dell’aggressione.
La difesa di NOME articolava quattro motivi.
Con il primo deduceva la medesima doglianza oggetto del primo motivo dedotto nell’interesse del COGNOME.
Con gli ulteriori motivi deduceva vizio di motivazione e travisamento della prova in relazione alla statuizione di responsabilità, articolando nella sostanza le medesime doglianze dedotte con il secondo motivo proposto nell’interesse del COGNOME.
Le difese dei ricorrenti depositavano, in data 14 giugno 2025 per COGNOME e in data 3 giugno 2025 per COGNOME, conclusioni scritte.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo dedotto da entrambi i ricorrenti è manifestamente infondato.
La COGNOME Suprema COGNOME Corte, COGNOME nella COGNOME composizione COGNOME più COGNOME prestigiosa (Sez. U, n. 5788 del 18/04/2019, Halan, Rv. 277706 – 01), che ha espresso un principio di diritto in relazione ai poteri del pubblico ministero in materia di modificazione dell’imputazione e di contestazioni suppletive nel corso del
giudizio abbreviato con integrazione probatoria, ha avuto modo di affermare, in motivazione, che “il dettato dell’art. 441 cod. proc. pen. attiene esclusivamente ai limiti posti al pubblico ministero nel modificare l’imputazione nel corso del giudizio e non riguarda invece l’autonomo ed esclusivo potere-dovere del giudice di dare al fatto una diversa definizione giuridica del fatto; infatti il legislatore ha previsto il mezzo di impugnazione dell’appello da parte del pubblico ministero contro la sentenza di condanna nella quale sia stato modificato il titolo del reato originariamente contestato (art. 423 comma 3 cod. proc. pen)”.
Come già osservato dalla Corte di merito, nel caso di specie si verte in ipotesi di diversa qualificazione giuridica del fatto ad opera del giudice, e non di modifica dell’imputazione ad opera del pubblico ministero.
Deve, pertanto, essere esclusa la dedotta violazione di legge.
Del pari inammissibili, in quanto non consentiti, sono gli ulteriori motivi dedotti dai ricorrenti, poiché tesi a una rivalutazione in fatto delle prove assunte, inammissibile nella presente sede.
Dopo aver premesso che si è in presenza di c.d. “doppia conforme”, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i parametri del richiamo della pronuncia di appello a quella di primo grado e dell’adozione – da parte di entrambe le sentenze – dei medesimi criteri nella valutazione delle prove (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218), si evidenzia come le censure proposte tendano a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito.
Al riguardo, va premesso come non sia compito della Suprema Corte scegliere la ricostruzione dei fatti maggiormente plausibile. L’equilibrio del sistema si caratterizza, infatti, nel senso che, se al giudice di legittimità è affidato il privilegio di dire l’ultima e definitiva parola sulla controversia, altrettanto vero che tale privilegio trova, nell’ordinamento, il proprio contrappeso nel rispetto dell’accertamento di fatto, il quale è riservato al giudice del merito; onde la soluzione legale e giusta della controversia deve essere il risultato finale della somma dei compiti propri dei due tipi di giudicanti. Per questo, le censure di merito agli apprezzamenti singoli e complessivi sul materiale probatorio costituiscono motivi diversi da quelli consentiti (art. 606,
comma 3, cod. proc. pen.). E debbono essere considerate censure di merito, come tali inammissibili nel giudizio di legittimità, tutte quelle che attengono a ‘vizi’ diversi dalla mancanza di motivazione, dalla sua ‘manifesta illogicità’, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo. Inammissibili sono pertanto tutte le doglianze che ‘attaccano’ la ‘persuasività’, l’inadeguatezza’, la mancanza di ‘rigore’ o di ‘puntualità’, la stessa ‘illogicità’ quando non ‘manifesta’, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento: tutto ciò è ‘fatto’, riservato al giudice del merito. Invero, allorquando il giudice del merito ha espresso il proprio apprezzamento, la ricostruzione del fatto è definita, e le sole censure possibili nel giudizio di legittimità sono quelle dei soli tre tassativi vizi indicati dall’ar 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., ciascuno dotato di peculiare oggetto e struttura (sicché è altro costante insegnamento di questa Suprema Corte che la deduzione alternativa di vizi, invece assolutamente differenti, è per sé indice di genericità del motivo di ricorso e, in definitiva, ‘segno’ della natura di merito della doglianza che ad essi solo strumentalmente tenta di agganciarsi).
In particolare, la motivazione della Corte d’appello appare immune dai vizi denunciati perché dà conto puntuale delle censure e deduzioni difensive, le esamina analiticamente e le disattende con specifiche argomentazioni, previ richiami puntuali a risultanze probatorie non palesemente incongrue agli assunti che i Giudici di merito ne hanno tratto.
Alla stregua di tali rilievi i ricorsi devono, dunque, essere dichiarati inammissibili.
I ricorrenti devono, pertanto, essere condannati, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che i ricorrenti versino, ciascuno, la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma il 02/07/2024
COGNOME
Il Consigliere estensore
Il Presidente