Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 13543 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 13543 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 30/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a PALERMO il 29/05/1962
avverso l’ordinanza del 16/04/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 16 aprile 2024 la Corte d’appello di Palermo ha rigettato l’istanza ex art. 314 cod.proc.pen. proposta da COGNOME in relazione al periodo di detenzione cui lo stesso è stato sottoposto dal 5 luglio 2023 al 14 agosto 2023 in relazione ad un ordine di esecuzione emesso sulla scorta di un erroneo decreto di irreperibilità.
Per una miglior comprensione, è opportuno ripercorrere brevemente la vicenda che la Corte di appello è stata chiamata ad esaminare.
Il COGNOME era stato condannato con sentenza del Tribunale di Palermo del 6 novembre 2017, irrevocabile il 20 febbraio 2018, alla pena di mesi otto di reclusione per il reato di cui agli artt. 624 e 625 cod.pen. che diveniva esecutiva con ordine di esecuzione n. 739/18 Siep della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
Tale atto doveva essere notificato al condannato al fine di consentirgli di esercitare il diritto di cui all’art. 656, comma 4 quater, cod.proc.pen., ovvero d presentare istanza diretta ad ottenere una misura alternativa alla detenzione, previa sospensione per giorni trenta dell’ordine di carcerazione.
L’atto veniva notificato, previa emissione del decreto di irreperibilità del 2 settembre 2019, in data 27 aprile 2019 con il rito degli irreperibili, co conseguente decorrenza dei termini di cui all’art. 656, comma 4 quater, cod.proc.pen. e successiva revoca dell’ordine di sospensione dell’esecuzione in data 18 giugno 2021.
In data 5 luglio 2023 il suddetto ordine di esecuzione veniva notificato con conseguente arresto del COGNOME che veniva tradotto presso la Casa circondariale di Messina per l’espiazione della pena.
In data 18 luglio 2023 il difensore del prevenuto presentava istanza ex art. 670 cod.proc.pen. con la quale veniva segnalata la mancata concessione dei termini di cui all’art. 656, comma 4 quater, cod.proc.pen. chiedendo la rimessione in termini del condannato e l’immediata scarcerazione.
Il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, in data 21 luglio 2023 dichiarava inammissibile l’istanza per essere stato notificato l’ordine di esecuzione con il rito degli irreperibili, malgrado la Procura di Palermo avesse piena conoscenza del luogo di residenza del La Mantia essendovi in atti l’indirizzo in Austria del condannato.
In data 27 luglio 2023 il difensore del La Mantia avanzava nuova richiesta ex art. 670 cod.proc.pen. con la quale, oltre a riproporre la precedente istanza, allegava certificazione di residenza dalla quale emergeva che aveva comunicato
all’Anagrafe del Comune di Palermo la residenza del proprio assistito a far data dal 7 novembre 2016.
Il Tribunale di Palermo, quale giudice dell’esecuzione, in data 14 agosto 2023 accoglieva quindi la richiesta rimettendo in termini il COGNOME e disponendone l’immediata scarcerazione.
Ciò premesso, il COGNOME avanzava l’istanza ex art. 314 cod.proc.pen. sul presupposto dell’illegittimità dell’ordine di esecuzione emesso sulla scorta di un erroneo decreto di irreperibilità.
1.1. La Corte territoriale, con l’ordinanza oggi impugnata, ha rigettato l’istanza de qua ritenendo che nella specie l’ordine di esecuzione della sentenza di condanna, contrariamente a quanto sostenuto dall’istante, fosse del tutto legittimo in quanto posto in essere sulla base di una sentenza penale di condanna passata in giudicato. Ha altresì ritenuto che non può sostenersi che la sospensione dell’esecuzione, disposta solo tardivamente per l’omessa notifica del provvedimento, possa incidere sulla legittimità della esecuzione, aggiungendo che la detenzione non può divenire ingiusta solo perché il condannato non è messo nelle condizioni di usufruire di una misura alternativa alla detenzione.
Avverso detta ordinanza COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione articolato in un unico motivo.
Con detto motivo deduce l’inosservanza della legge penale o di altra norma dalla quale dipende l’applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen. in relazione agli artt. 314, 656, comma 4 quater, 159 cod.proc.pen. per la mancata concessione della sospensione dell’esecuzione a causa della violazione delle norme in materia di notifica dell’ordine di esecuzione. Si censura l’ordinanza impugnata laddove, pur ammettendo che la detenzione possa essere ingiusta anche in conseguenza di un ordine di esecuzione illegittimo, tuttavia ritenga che detta illegittimità non ricorra nel caso di ordine esecuzione che non sia stato correttamente notificato al difensore ed all’imputato.
Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha depositato memoria chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, in subordine, sia rigettato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso é fondato.
Com’è noto, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 310 del 1996, l’art. 314 cod. proc. pen. è stato dichiarato illegittimo nella part
in cui non prevede(va) il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione e violazione dell’art. 5 della Convenzione E.D.U. che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta.
In ordine ai presupposti per il riconoscimento del diritto, la Corte costituzionale non si è pronunciata. Il compito è stato quindi rimesso all’interprete (cfr., su punto, in motivazione, Sez. 4 n. 35333 del 05/07/2001, COGNOME Ruth; sempre in motivazione, anche n. 8117 del 24/11/2005, Arsicato).
Questa Corte di legittimità ha successivamente sottolineato in più occasioni che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 310 del 1996, ai fini dell’applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen. non è consentito differenziare in modo radicale la situazione di chi abbia subito detenzione a causa di una misura cautelare che in seguito sia risultata ingiusta, rispetto a quella di chi sia rimas vittima di un ordine di esecuzione errato. Più precisamente, come la Corte costituzionale ha affermato, le due situazioni non possono essere differenziate fino a ritenere che la prima sia ingiusta e meritevole di equa riparazione e la seconda debba essere, invece, ignorata (cfr. Sez. 4, n. 18542 del 14/01/2014, COGNOME, Rv. 259210).
In particolare in Sez. 4 n. 57203 del 21/09/2017, Paraschiva, Rv. 271689 si è sottolineato che «il principio secondo il quale il diritto all’indennizzo non configurabile ove la mancata corrispondenza tra pena inflitta e pena eseguita sia determinata da vicende, successive alla condanna, che riguardano la determinazione della pena eseguibile, poggia unicamente su una lettura della sentenza costituzionale che non pare né obbligata né persuasiva».
Ed invero, il Giudice delle Leggi non ha limitato la portata della declaratoria di incostituzionalità all’ipotesi di una pena definitivamente inflitta inferiore a que espiata. Ha affermato, invece, più in generale, che le vicende dell’esecuzione non sono estranee all’orizzonte dalla riparazione dell’ingiusta detenzione e l’istituto disciplinato dall’art. 314 cod. proc. è applicabile a queste vicende, sempre che dalle stesse derivi una ingiustizia della detenzione patita.
Muovendo da queste premesse, si è ritenuto che il diritto alla riparazione sia configurabile «anche quando la restrizione della libertà derivi da vicende successive alla condanna, connesse alle modalità di esecuzione della pena, a causa di un errore dell’autorità che procede all’emissione dell’ordine di esecuzione al quale non abbia concorso un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato che sia stato concausa dell’errore» (Sez. 4, n. 25092 del 25/05/2021, Rv. 281735).
Tra i casi in cui, in applicazione della sentenza n. 310 del 18-25 luglio 1996 della Corte costituzionale, si è riconosciuta la sussistenza del diritto alla equa riparazione anche nel caso di detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., e violazione dell’art. 5 Cedu che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta, rientra anche, l’ipotesi di mancata sospensione della esecuzione della pena detentiva, pari o superiore a tre anni di reclusione, inflitta per fatto commesso e con accertamento avvenuto prima dell’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”), il cui art. 1, comma 6, lettera b), è stato dichiarato costituzionalmen illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 12-16 febbraio 2020 “in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4 bis, comma 1, I. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichin anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della I. n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternati alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della I. n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 c.p.e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto. (Sez. 4, n. 9721 dell’1.12.2021, dep. 2022, Rv. 282857).
Il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione è stato affermato anche nel caso in cui la restrizione della libertà, correlata a vicende successive alla condanna, relative alle modalità di esecuzione della pena, derivi da un errore dell’autorità che procede all’emissione dell’ordine di esecuzione, al quale non abbia concorso un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato. (Fattispecie relativa al periodo di detenzione ingiustamente sofferto da un condannato per il delitto di cui all’art. 572 c.p., aggravato ex art. 61, n. 11quinquies, c.p., poiché commesso fino a giugno 2019, in presenza di minori, in ragione della mancata sospensione dell’ordine di esecuzione per l’erronea applicazione retroattiva dell’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., con riferimento all’art. 572, comma 2, c.p., come modificato dall’art. 9, comma 2, lett. b), I. 19 luglio 2019, n. 69)(Sez. 4, n. 42632 del 29/10/2024,Rv. 287112 – 01).
2. Così tracciate le coordinate ermeneutiche della materia e venendo al caso in esame, il ricorrente ha avanzato la domanda ex art. 314 cod.proc.pen. sul presupposto dell’illegittimità dell’ordine di esecuzione emesso sulla scorta di un erroneo decreto di irreperibilità, censurando l’ordinanza reiettiva dell’istanza che al contrario ha ritenuto la legittimità di detto ordine.
Sul tema si é evidenziato che, premesso che l’impulso alla concreta attuazione del comando contenuto nel titolo esecutivo spetta sempre al pubblico ministero, il quale non è esonerato dall’emettere l’ordine di carcerazione per le pene detentive brevi, ma deve, contestualmente e con separato provvedimento, sospenderne l’esecuzione assegnando al condannato un termine prescritto in trenta giorni per presentare richiesta di misure alternative, ove non sia adottato il provvedimento di sospensione, non è ammissibile, in quanto tale, una istanza di annullamento o di revoca dell’ordine di carcerazione legittimamente emesso, ma deve ritenersi consentito all’interessato, in applicazione analogica dell’art. 670 cod.proc.pen., di chiedere al giudice della esecuzione la declaratoria di temporanea inefficacia del provvedimento che dispone la carcerazione (Sez. 1, n. 2430 del 23/03/1999, COGNOME, Rv. 213875; Sez. 1, n. 41592 del 13/10/2009, P.M. in proc. COGNOME, Rv. 245568).
Pertanto, deve ritenersi non consentito al giudice dell’esecuzione annullare o revocare l’ordine di esecuzione, emesso dal pubblico ministero senza il contestuale provvedimento di sospensione per pene detentive brevi, in quanto lo spazio di verifica e d’intervento consentitogli è confinato alla declaratoria d temporanea inefficacia del decreto del pubblico ministero, in modo tale da consentire al condannato di presentare, nel termine di trenta giorni, la richiesta di concessione di una misura alternativa alla detenzione (Sez. 1, n. 25538 del 10/04/2018, Rv. 27310).
Si é di conseguenza sostenuto che la tardiva sospensione dell’esecuzione della pena legittimamente disposta non determina l’ingiustizia della detenzione sofferta fino all’adozione del provvedimento di sospensione e pertanto non costituisce titolo per la domanda di riparazione (Sez.1 n. 28818 del 13/06/2018, Rv. 273300).
Tale impostazione, tuttavia, che limita la configurabilità della domanda ex art. 314 cod.proc.pen. alla sola ipotesi di ordine di esecuzione illegittimo, non si confronta con il dato oggettivo che l’ordine di esecuzione, pur validamente formato, una volta dichiarato inefficace (in quanto non sono state rispettate le modalità previste dalla normativa vigente) non può comunque produrre effetti giuridici e quindi porsi a base della disposta detenzione con la conseguenza che la stessa non si fonda su un titolo idoneo a sorreggerla.
Peraltro, giova rilevare che limitare il riconoscimento dell’indennizzo, come fa la Corte territoriale, alle sole ipotesi di illegittimità dell’ordine di esecuz significa ridurre la portata della pronuncia di incostituzionalità che ha chiaramente affermato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod.prod.pen. nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione”.
Tale lettura inoltre risulterebbe non solo di dubbia costituzionalità ma anche verosimilmente contraria al diritto dell’Unione europea (cfr. C.E.D.U. Sez. IV,
24.3.2015, COGNOME COGNOME c/ Italia), tenuto conto che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Ita
con la L. n. 848 del 4.8.1955, prevede espressamente all’art. 5 il diritto alla riparazione in favore della vittima dell’arresto o di detenzioni ingiuste senza
distinzioni di sorta.
Fatta questa premessa, che quindi amplia le maglie dell’ambito applicativo dell’istituto estendendola anche al caso di detenzione disposta in
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, ordine di esecuzione inefficace, incombe poi sul giudice della riparazione verificare la
eventuale sussistenza di una condotta ostativa dell’istante consistente in un comportamento doloso o gravemente colposo che abbia avuto un’efficacia
sinergica rispetto all’adozione del titolo.
Del pari al medesimo giudice spetta verificare se l’istante sia stato ammesso all’affidamento in prova (circostanza che non risulta chiarita), tenuto conto che
in tema di riparazione per ingiusta detenzione, ai fini della liquidazione equitativa del relativo indennizzo, il periodo durante il quale l’imputato è sottoposto a misure coercitive diverse dalla custodia detentiva non può essere considerato tra le conseguenze afflittive “indirette” dell’ingiusta detenzione subita in quanto, in tali casi, manca ab origine il presupposto giuridico per l’esistenza stessa del diritto alla riparazione,
In tema di riparazione per ingiusta detenzione, si ritiene invero non indennizzabile la pena espiata in regime di affidamento in prova al servizio sociale, trattandosi di misura alternativa non implicante privazione della libertà personale (Sez. 4, n. 35705 del 20/06/2018, Rv. 273425).
In conclusione l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio nei termini delineati alla Corte d’appello di Palermo.
P.Q.M.
annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Palermo cui demanda anche la regolamentazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
Così deciso il 30.1.2025