Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 9463 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 9463 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 16/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a ACERRA il 22/08/1990
avverso l’ordinanza del 10/10/2024 della CORTE APPELLO di NAPOLI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette/sentite le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 7 novembre 2024, la Corte di appello di Napoli ha rigettato l’istanza di riparazione presentata da NOME COGNOME per la dedotta ingiusta detenzione sofferta in esito a indagini nelle quali le si contestava di avere, in concorso con altri soggetti, partecipato ad associazione volta al narcotraffico ex D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74, accusa da cui è stata assolta dal Tribunale di Napoli il 7 febbraio 2019, ex art. 530, comma 2, cod.proc.pen., con la formula “per non avere commesso il fatto”; sentenza impugnata dal P.M., i cispe – ia Corte di appello della stessa sede, con sentenza del 30 giugno 2020, non impugnata, ha confermato la sentenza assolutoria.
La Corte territoriale ha ritenuto che la richiedente avesse, con il proprio comportamento e atteggiamento gravemente colposo, concorso a dare causa alla misura cautelare de qua e ha ravvisato, pertanto, grave colpa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo di cui all’art. 314 cod.proc.pen.
In particolare, ha valorizzato la stretta correlazione tra la COGNOME e i soggetti coinvolti nell’attività oggetto di indagine, comprovata dai contenuti di alcune conversazioni telefoniche intercorse tra la COGNOME e il marito, COGNOME NOME, condannato, in primo e in secondo grado, come appartenente al sodalizio delinquenziale, nonché tra la donna ed alcuni acquirenti dello stupefacente presso il marito. Inoltre, sono state valorizzate talune dichiarazioni rese da NOME COGNOME condannato per il suo ruolo di promotore dell’organizzazione, riferito di aver visto la COGNOME sempre presente ai colloqui tra di lui e il Sirignano, pu non sapendo affermare se la donna partecipasse alle attività illecite in cui era coinvolto il marito.
La Corte d’appello ha fatto applicazione del principio espresso in giurisprudenza, secondo cui integra gli estremi della colpa grave ostativa al riconoscimento della riparazione, la condotta di chi, nei reati contestati in concorso, abbia tenuto, pur consapevole dell’attività criminale altrui, comportamenti percepibili come indicativi di una sua contiguità. In particolare, nell’ordinanza cautelare, era riportato che la COGNOME aveva intermediato nella fissazione di appuntamenti tra il marito e tale NOMECOGNOME utilizzando anche un linguaggio criptico e fuorviante, dal quale si comprendeva che più soggetti avevano fatto capo alla COGNOME per essere messi in contatto con il marito e/o per lasciargli, per suo tramite, dei messaggi.
Avverso l’anzidetta ordinanza propone ricorso il difensore della interessata lamentando, con un unico e articolato motivo, vizio della motivazione in relazione all’art. 314 cod.proc.pen., ed ai suoi presupposti in diritto. Dopo una lunga
esposizione della vicenda in fatto che aveva portato all’adozione del provvedimento restrittivo, il difensore contesta il contenuto delle telefonate indicate nel provvedimento impugnato e la gravità della colpa.
La Procura generale, nella persona della Sostituta Procuratrice NOME COGNOME‘ ha concluso, con memoria depositata, per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Il giudice della riparazione, che ha il potere di apprezzare in modo autonomo e completo gli elementi a sua disposizione e il dovere di fornire adeguata e congrua motivazione del convincimento conseguito, non è venuto meno, nel caso di specie, al compito attribuitogli, avendo valutato tutti gli estremi della condotta “gravemente colposa” della richiedente, sulla scorta dei consolidati orientamenti giurisprudenziali di questa Suprema Corte in tema di verifica della sussistenza del dolo o della colpa grave ostativi all’accoglimento della domanda per ingiusta detenzione.
Come già evidenziato dalla Corte di cassazione in plurime ed univoche pronunce, alla connivenza è stata riconosciuta valenza quale condotta ostativa al riconoscimento della riparazione in tre casi: 1) quando sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale, per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose; 2) quando si concretizzi non già in un mero comportamento passivo dell’agente riguardo alla consumazione del reato, ma nel tollerare che tale reato sia consumato, sempreché l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della posizione di garanzia; 3) qualora risulti avere oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, benché il connivente non intendesse perseguire tale effetto e vi sia la prova positiva che egli fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente (Sez.4, 15.4.2015, n. 15745). Deve, dunque, trattarsi di una condotta potenzialmente idonea a indurre in errore l’Autorità giudiziaria in ordine alla sussistenza di gravi indizi di reità, con specifico riguardo al reato che ha fondato il vincolo cautelare (Sez.4, 31.7.2015, n. 33830) e che abbia agevolato la consumazione del reato (Sez.4, 29.10.2008, n. 40297).
In sostanza, un atteggiamento di connivenza può in astratto integrare colpa grave purché, nella situazione in concreto accertata, ci si trovi in presenza di determinati presupposti, come sopra indicati. Infatti, se è vero che la mera presenza passiva non è idonea ai sensi dell’art. 110 cod.pen., ad integrare il concorso nel reato, a meno che non valga a rafforzare il proposito dell’agente di commetterlo, analogamente deve dirsi per il giudizio di riparazione, laddove la
condotta connivente idonea ad inibire la riparazione, per essere qualificata gravemente colposa, deve essere ancorata alla preventiva conoscenza delle attività criminose che si stanno per compiere in presenza del connivente.
Va altresì aggiunto, sui limiti del controllo di legittimità, che la valutazione del giudice di merito sull’esistenza delle caratteristiche che deve assumere la connivenza, per la rilevanza ai fini della riparazione, si sottrae al vaglio di legittimità ove sia stato dato congruo conto, in modo non illogico, delle ragioni poste a fondamento della descritta efficacia della condotta passiva.
In base a tali emergenze è legittimo e ragionevole concludere che la COGNOME, pur dichiarata non colpevole nel giudizio penale a suo carico, abbia tenuto una condotta connotata da colpa grave – nella specie, dimostrando non solo interesse ma piena consapevolezza dell’attività del Sirignano, condannato per tali fatti – dalla quale sono derivati gli estremi dei gravi indizi di colpevolezza e non di meri sospetti, che hanno legittimato il provvedimento restrittivo della libertà.
L’ordinanza impugnata indica, in effetti, proprio gli elementi della condotta che hanno dato origine all’apparenza dell’illecito penale, ponendosi come causa della detenzione, ovvero l’atteggiamento di connivenza (non punibile ma apprezzabile in materia di ingiusta detenzione) di cui parla espressamente la stessa sentenza assolutoria, richiamata dai giudici della riparazione.
In particolare, così confutandosi la deduzione della ricorrente, non risponde al vero che le dichiarazioni di COGNOME sono state rese solo nel corso del dibattimento, posto che, come riferisce la stessa ordinanza impugnata, è la stessa sentenza assolutoria di secondo grado ad affermare, alla pagina 12, che non vi erano prove di una stabile partecipazione della donna alla compagine associativa: peraltro, lo stesso COGNOME, nell’interrogatorio del 24 novembre 2017, aveva riconosciuto che la COGNOME era spesso presente ai colloqui tra il Massa ed il Sirignano.
Ancora, la Corte d’appello ha dato analitico riscontro delle concrete modalità con le quali la COGNOME ha commesso le condotte colpose ostative al riconoscimento del diritto, laddove alla pagina 5, ha ricostruito la prova della sua connivente conoscenza dell’attività di traffico di sostanze stupefacenti in cui era coinvolto il marito. Nelle intercettazioni riportate nell’ordinanza cautelare, alle pagine 108 e 109, la COGNOME emerge quale intermediatrice nella fissazione degli appuntamenti del marito con tale NOME presso il “bar di Pulicino”, per la consegna della sostanza, e tanto da essere la COGNOME a chiamare NOME il primo marzo 2017, usando il cellulare del marito, per dirgli di presentarsi puntuale alle 18,00. Altra conversazione criptica è quella del 31 gennaio 2017 (ove si parla della richiesta di un certo NOME),dé la COGNOME riferire al marito di aver già fatto, ma che NOME “ne voleva di più”. Ancora, la Corte ricorda la conversazione del 20 febbraio 2017, ove COGNOME chiama la moglie per sapere se NOME sia già andato e lei risponde
che tutto è a posto, e quella del 21 febbraio 2017 in cui la COGNOME chiede al marito di tornare a casa perché vi è NOME che vuole “acquistare due magliette” e riferisce la proposta di quest’ultimo, ricevendo immediato assenso del marito che era ben consapevole del reale significato della richiesta.
Ne deriva il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 16 gennaio 2025.