Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 16112 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 16112 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 18/12/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME nato a PLATI’ il 06/02/1937 MINISTERO DELL’ECONOMIA DELLE FINANZE
avverso l’ordinanza del 19/06/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del PG, in persona del sostituto NOME COGNOME con la quale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
letta la memoria del MINISTERO DELL’ECONOMICA E DELLE FINANZE con la quale si chiede la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto del ricorso;
letta la memoria del ricorrente con la quale, contestando gli argomenti spesi dal P.G., si insiste nell’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Reggio Calabria ha rigettato l’istanza proposta nell’interesse di NOME COGNOME volta ad ottenere la riparazione per l’ingiusta detenzione patita dal 4 luglio 2017 al 16 giugno 2022 in relazione al reato di associazione di tipo mafioso.
L’istante era stato sottoposto a fermo in esecuzione di decreto emesso nell’ambito della c.d. Operazione Mandamento che riguardava numerosi altri soggetti indiziati di appartenere ai vari locali dei tre mandamenti, quello centrale di Reggio Calabria, quello tirrenico e quello ionico cui afferisce l cosca di Platì alla quale l’odierno ricorrente era ritenuto affiliato. Il Gip Tribunale di Locri, pur non convalidando il fermo, emetteva ordinanza custodiale applicando al COGNOME, settantenne, la misura degli arresti domiciliari. Contestualmente il Gip di Locri dichiarava la propria incompetenza e disponeva la trasmissione degli atti alla Procura di Reggio Calabria, ai sensi dell’art. 27 cod. proc. pen. Il Gip di Reggio Calabria richiesto dall’Ufficio di Procura, confermava la misura cautelare disposta nei confronti del COGNOME che non impugnava il provvedimento che diveniva, dunque, definitivo. Con sentenza del 22 giugno 2020 il Tribunale di Locri riteneva COGNOME responsabile del reato ascrittogli e lo condannava alla pena di 12 anni di reclusione.
La Corte di appello, in data 16 giugno 2022 riformava la sentenza assolvendo COGNOME NOME ai sensi del secondo comma dell’art. 530 cod. proc. pen. per non avere commesso il fatto, disponendone la liberazione.
La Corte della riparazione ha evidenziato che la sentenza di appello affronta la posizione del COGNOME dalle pagine 1183 a 1193 nel paragrafo 3 del capitolo V, dedicato alla locale di Platì, e fa espresso riferimento e s uniforma alla evoluzione giurisprudenziale posta dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 36958 del 27.5.2021, dando atto delle fonti di prova sul conto dell’odierno ricorrente che costituiscono “elementi indiziari in ordine alla intraneità di NOME COGNOME all’associazione di cui al capo A) per concludere “che è rimasto ignoto il dato in merito a come si sia atteggiato il prendere parte all’associazione di cui al capo a) da parte di COGNOME NOME“. La Corte di merito ha sostenuto che “a fronte di un principio di prova in ordine al requisito dell’affiliazione non sono conseguite ulterior
acquisizioni GLYPH con GLYPH riferimento GLYPH al GLYPH ruolo GLYPH dinamico-funzionale GLYPH svolto dall’imputato per dare concretezza alla sua partecipazione”.
La Corte della riparazione, dopo aver escluso che si possa configurare nel caso in esame una ipotesi di c.d. ingiustizia formale di cui al comma 2 dell’art. 314 cod. proc. pen., che ricorre quando la custodia cautelare sia stata applicata illegittimamente senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., ha ravvisato, i capo al COGNOME, una condotta gravemente colposa, in considerazione della sua partecipazione, attestata da intercettazioni ad un incontro con personaggi di spicco della ‘ndrangheta.
Avverso l’ordinanza è stato proposto ricorso nell’interesse del COGNOME con il quale si deduce la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b), cod proc. pen., in relazione all’art. 314 commi 1 e 2 cod. proc. pen., evidenziando che lo stesso è stato assolto sulla scorta dei medesimi elementi fondanti la misura cautelare.
Secondo la difesa, la motivazione sarebbe solo apparente, atteso che con l’istanza introduttiva e poi con la memoria difensiva depositata era stato eccepito che in capo al COGNOME non si ravvisavano profili di colpa e che la riparazione doveva essergli riconosciuta per violazione dell’art. 273 cod. proc. pen. Era stata prodotta giurisprudenza per dimostrare che l’assoluzione era avvenuta valutando i medesimi elementi che, a suo tempo, erano stati a disposizione del giudice della cautela. Rileva la difesa che la stessa ordinanza reiettiva pone a fondamento della decisione la conversazione captata in modalità ambientale a casa di NOME COGNOME del 26 marzo 2010 e il fatto che vi sia stata una articolata istruttoria, nel cors del giudizio di primo grado, rimane elemento neutro dato che la sentenza di assoluzione ha posto l’accento solo sulla conversazione suddetta e sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME deducendo che non essendo emerse prove sul ruolo di COGNOME in seno all’associazione, non sussistevano elementi tali da poter confermare la sentenza di condanna.
Secondo il ricorrente, la sentenza delle Sezioni Unite n. 36958/2021, richiamata nell’ordinanza impugnata, riafferma principi che erano già stati espressi da questa Suprema Corte in merito alla condotta di partecipazione ad una associazione mafiosa.
Rammenta la difesa che, se è vero che il Giudice della riparazione ha un potere autonomo di valutazione dei fatti, è del pari vero che non può affermare fatti che il giudice penale ha smentito nella sentenza.
La Corte di merito, esaminate le intercettazioni, ha affermato che «a differenza delle conversazioni grazie alle quali è stata riconosciuta la responsabilità di COGNOME NOME per la ragione che attenevano alla deliberazione di importanti decisioni per la vita dell’associazione, in quella alla quale è intervenuto COGNOME NOME i presenti si sono limitati a commentare accadimenti». Da ciò si è dedotto che se è vero che si è trattato di commenti riservati a soggetti intranei alla ‘ndrangheta, non per questo gli stessi si sono rivelati idonei a dimostrare l’attivazione da parte di COGNOME NOME per la realizzazione del programma associativo, essendo rimasto ignoto come si sia, in concreto, atteggiata la sua adesione al sodalizio.
Assume, poi, la difesa che non è stato neppure dimostrato che COGNOME, quel giorno, si trovasse a casa di Pelle per una riunione mafiosa e non, piuttosto, in visita al “nipote acquisito”. La stessa ordinanza fa riferiment ad altri incontri avvenuti a casa di Pelle ove non si dà atto della presenza del COGNOME specificando che l’intercettazione precede di soli due giorni le i elezioni, motivo per il quale non si comprende come si sarebbe potuto influenzare l’elettorato.
Assume la difesa, sotto altro profilo, che la Corte non avrebbe potuto ritenere in capo al Barbaro profili di colpa ostativa. Il ricorrente non potev prevedere che da quella conversazione sarebbe scaturita una imputazione per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen.
Infine, la difesa conclude con il contestare l’affermazione secondo cui COGNOME NOME sarebbe “fratello” del capo cosca NOME NOME. A tale proposito produce certificazione anagrafica da cui si evince la paternità e la maternità dei due soggetti che dimostra la fallacia del dato.
Il P.G., in persona del sostituto NOME COGNOME ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha depositato memoria, chiedendo l’inammissibilità e/o il rigetto del ricorso.
I difensori del ricorrente hanno depositato memoria contestando gli argomenti spesi dal P.G., insistendo nell’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Non è superfluo rammentare che l’art. 314 cod. proc. pen. disciplina due distinte ipotesi di riparazione a seguito di ingiusta detenzione.
Il primo comma del detto articolo disciplina il diritto» in esame in favore di chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non averlo commesso, perché non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, qualora non vi abbia dato causa o non abbia concorso a darvene, per dolo o colpa grave (c.d ingiustizia sostanziale).
Il secondo comma dell’art. 314 cod. proc. pen. riconosce il diritto in esame al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che, nel corso del processo, sia stato sottoposto a custodia cautelare allorquando, con decisione irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto in mancanza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. (c.d. ingiustiz formale.
Nel caso di ingiustizia sostanziale, la valutazione della incidenza della condotta dolosa o colposa è doverosa e non rileva che gli elementi posti a sostegno della ordinanza custodiale fossero gli stessi sulla scorta dei quali è stata pronunciata l’assoluzione, con la conseguenza che il giudice della riparazione dovrà valutare se il soggetto privato della libertà personale abbia o meno tenuto condotte dolose o colpose, ostative al riconoscimento del diritto, che si siano poste in termini di causa o concausa rispetto all’adozione del provvedimento medesimo.
In tal caso, il giudice della riparazione effettua una valutazione in “autonomia” rispetto al giudizio di merito; infatti, diverso è il piano indagine sul quale operare e diversi sono i parametri da utilizzare (Sez. 4 n. 39500 del 18/06/2013, COGNOME, Rv. 256764).
Nel compiere detta valutazione il giudice della riparazione incontra il limite di non poter fondare il proprio giudizio su fatti che siano stati esclu dal giudice della cognizione, rimanendo, invece, libero di valutare tutti i fat che in quel giudizio sono stati accertati e non negati (Sez. 4 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274350).
Nei casi di “ingiustizia formale”, che ricorrono allorquando con decisione irrevocabile sia stata esclusa la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione della misura, decisione che può intervenire a chiudere la fase cautelare o, piuttosto, discendere da una diversa qualificazione giuridica del fatto compiuta definitivamente nel giudizio di merito, la rilevanza sinergica della colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, rimane esclusa se le condizioni di applicabilità della misura sono state ritenute insussistenti sulla scorta degli stessi elementi che avevano portato all’adozione del provvedimento privativo della libertà personale.
Avendo l’istituto natura civilistica, la diversità delle due ipotesi riflette sul contenuto della domanda di riparazione che richiede l’indicazione della causa petendi.
Nel caso in esame il giudice della riparazione, dopo avere ripercorso le vicende procedimentali e processuali del COGNOME, ha evidenziato che nella memoria depositata in udienza la difesa ha affermato che “la sentenza con cui COGNOME è stato assolto dall’imputazione cui all’art. 416 bis cod. pen. non poggia su elementi di novità acquisiti nel corso del dibattimento ma esclusivamente sugli stessi identici elementi in possesso del GIP allorquando è stato emesso il provvedimento di custodia cautelare”.
Il giudice della riparazione ha, innanzituto, escluso che si versasse in ipotesi di ingiustizia formale, atteso che COGNOME non ha mai interposto riesame avverso l’ordinanza cautelare, come la stessa difesa aveva documentato con la certificazione di cancelleria allegata al ricorso introduttivo. Ha, ulteriormente, ritenuto non ricorrere l’ipotesi suddetta invocata sul presupposto che l’assoluzione sarebbe intervenuta sulla scorta del medesimo “materiale” sottoposto al vaglio del giudice della cautela.
Per quanto la Corte della riparazione abbia dato atto che «elementi fondamentali dell’accusa fossero costituiti dalla intercettazione ambientale effettuata a casa di NOME COGNOME e dalle dichiarazion – (.;s ) -ti NOME» ha, tuttavia, posto l’accento sulla circostanza che nel processo di primo grado era stata compiuta una articolata istruttoria nel corso della quale erano stati escussi anche i testi della difesa ed era stata disposta la trascrizione delle captazioni che aveva condotto a risultati in parte diversi da quello che era stato ritenuto nell’ordinanza custodiale.
Veniva, inoltre, evidenziato nell’ordinanza impugnata w che la Corte di merito era giunta alla conclusione che «è rimasto ignoto il dato in merito a
come si sia concretamente atteggiato il “prender parte” all’associazione di cui al capo A)» e che, dunque, «a fronte di un principio di prova in ordine al requisito dell’affiliazione, non sono conseguite ulteriori acquisizioni co riferimento al ruolo dinamico-funzionale svolto dall’imputato per dare concretezza alla sua partecipazione». All’assoluzione, dunque, secondo quanto evidenziato nell’ordinanza, la Corte di merito era pervenuta ritenendo insufficiente la prova della condotta di partecipazione all’associazione come da ultimo delineata dalle “Sezioni RAGIONE_SOCIALE“.
4. Congrua e non manifestamente illogica fa motivazione posta dalla Corte della riparazione a sostegno della esclusione della ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 314 co. 2 cod. proc. pen. Nel caso in esame non è intervenuta una decisione irrevocabile dalla quale ricavare che la misura sarebbe stata adottata in mancanza dei presupposti di legge. A tale proposito va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte riconosce all’indagato (nel caso in esame si rammenta che non è stato proposto neppure riesame) l’interesse a proporre ricorso per cassazione anche nel caso in cui la misura cautelare sia stata revocata o abbia perso efficacia, proprio in funzione dell’interesse a precostituirsi una decisione irrevocabile, utilizzabile ai fini della riparazione per la ingiu detenzione e, quindi, limitatamente alla sussistenza degli indizi di colpevolezza, (Sez. 3, n. 42964 del 04/10/2007, COGNOME, Rv. 238107; Sez. 1, n. 25277 del 27/05/2008, COGNOME, Rv. 240944). Del pari, deve essere rilevato che la pronunzia inoppugnabile di annullamento di una misura cautelare privativa della libertà personale adottata nel procedimento incidentale “de libertate” «costituisce “decisione irrevocabile”, idonea, nei casi di proscioglimento o di condanna di cui all’art. 314 1 comma secondy cod. proc. pen., a fondare il diritto dell’indagato alla riparazione p l’ingiusta detenzione» (Sez. U, n. 20 del 12/10/1993, Durante, Rv. 195355). E’ stato, inoltre, affermato che l’interesse a coltivare il ricorso cassazione al fine di ottenere una pronuncia a sé favorevole in vista di una futura ed eventuale richiesta di riparazione deve essere espressamente e specificamente dedotte i evidenziando in termini concreti il pregiudizio che ne deriverebbe dal mancato conseguimento della stessa (Sez. U. n. 7931 del 16/12/2010, dep. 2011, Testini, Rv. 249002- 01; Sez. 4, n. 39297 del 10/07/2019). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Questa Corte di legittimità ha, altresì, affermato che per “decisione irrevocabile” deve intendersi non solo quella adottata in fase cautelare ma
anche quella resa all’esito del giudizio di merito purchè dalla stessa si ricavi la mancanza, ab origine, delle condizioni di applicabilità della misura (Sez. 4, n. 8869 del 22/01/2007, COGNOME, Rv. 240332; Sez. 4, n. 39535 del 29/05/2014, COGNOME, Rv. 261408; Sez. 4, n. 29340 del 22/05/2018, Gallace, v. 273089).
Sono stati, altresì, ricondotti nell’ambito di operatività dell’art. 31 cod. 2, cod. pen., casi nei quali, pur non essendo stato accertato in fase cautelare che la misura fosse stata disposta in difetto delle condizioni di cui agli artt. 273 e 280 cod. proc. pen, la qualificazione attribuita ai fat all’esito del giudizio, portava a ritenere che le condizioni difettassero ab origine.
Così è stato riconosciuto il diritto alla riparazione nel caso in cui l misura cautelare sia stata applicata in mancanza di un4 condizione di procedibilità la cui condizione sia derivata dalla riqualificazione del fatt diversa da quella ritenuta nella fase cautelare (Sez. 4, n. 39535 del 20/05/2014, COGNOME, Rv. 261408). 0, ancora, nel caso in cui la diversa qualificazione giuridica abbia portato a ritenere applicabile una fattispecie incriminatrice che non consentiva l’adozione di misure cautelari in ragione del limite edittale della pena (Sez. 4, n. 16175 del 22/04/2021, COGNOME, Tv. 281038; Sez. 4, n. 26261 del 23/11/2016, Rv. 270099).
Per ragioni di completezza va osservato che questa Corte, interrogandosi sulla possibilità di applicare la causa ostativa di cui al primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., per coloro che abbiano dato causa o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave alla privazione della libertà personale, anche all’ipotesi di cui all’art. 314, co. 2, cod. proc. pen, h sottolineato che, se per un verso, ai fini del riconoscimento del diritt all’indennizzo si può prescindere dalla sussistenza di un “errore giudiziario, stante l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione o quella funzionale tra la durata della custodia e l’eventuale misura della pena, ha, per altro verso rilevato che il fondamento solidaristico dell’istituto non consente di valutare “ingiusta” la privazione della libertà personale causata (o concausata) da una condotta dolosa o gravemente colposa dell’interessato (cfr: Sez. U., n.51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606; Sez. 4, n. 35689 del 09/07/2009, COGNOME, Rv.245311).
Si è, pertanto, affermato che nel valutare la condotta ostativa debba tenersi conto dei presupposti che hanno determinato la detenzione poi rivelatasi ingiusta, secondo una valutazione ex ante, che tende a verificare se, dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela, potesse
desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio e se a tale apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (cfr. Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247663). Si è, così, pervenuti alla conclusione che la causa ostativa in esame opera anche con riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 314, comma 2, cod. proc. pen.
A ben vedere, il ricorrente non ha chiesto la riparazione per una detenzione disposta in assenza dei presupposti di legge accertata con “decisione irrevocabile” ma in quanto la valutazione operata dalla Corte di appello sarebbe avvenuta sulla scorta del medesimo materiale (l’intercettazione a casa del Pelle e le dichiarazioni del collaboratore d giustizia) che aveva a disposizione il giudice della cautela.
L’assunto è stato confutato dalla Corte della riparazione che ha dato atto dell’ampia istruttoria dibattimentale compiuta con motivazione non manifestamente illogica e coerente con gli elementi acquisiti.
Né, d’altra parte, la Corte di appello, con la decisione assolutoria definitiva, ha accertato che la misura era stata adottata in violazione degli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. La sentenza, invero, non ha negato le condotte poste in essere da COGNOME, ritenute poi dal giudice della riparazione come ostative al riconoscimento dell’invocato indennizzo.
In realtà, neppure il ricorrente sostiene che i comportamenti descritti dal giudice della riparazione sarebbero stati esclusi dai giudici della cognizione quanto piuttosto che detto comportamento sarebbe stato enfatizzato e, comunque, allo stesso non sarebbe stato attribuito il valore che meritava, ossia non la partecipazione a un summit maioso ma una visita di cortesia al “nipote acquisito” senza, tuttavia, dimostrare che l decisione sia fondata sugli stessi elementi sottoposti al giudice della cautela che avrebbero dovuto dar conto di una accertata illegittimità della misura cautelare subita dall’istante, in quanto emessa in difetto dei presupposti di legge. Con il ricorso, infatti, si evoca l’intervenuta assoluzione ad opera della Corte di appello con la conseguenza che nel caso in esame vengono a mancare i presupposti per invocare la riparazione ai sensi del secondo comma dell’art. 314 cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 3004 del 14/11/2024, dep. 2015).
5. La Corte della riparazione, esclusa la ricorrenza di una ipotesi di “ingiustizia formale”, è passata ad esaminare l’aspetto relativo alla
sussistenza o meno di profili di dolo o colpa grave in capo al COGNOME che in termini sinergici si siano posti rispetto all’adozione della misura ed al suo mantenimento.
Gli argomenti posti dal giudice della riparazione a fondamento dell’ordinanza impugnata sono analitici, dettagliati, conformi al principio d autoresponsabilità.
La Corte, con motivazione non manifestamente illogica né contraddittoria ha rigettato l’istanza ritenendo che l’odierno ricorrente, con la propria condotta, abbia contribuito ad indurre il giudice della cautela a ritenere che lo stesso fosse coinvolto nel reato associativo. Ha, così, richiamato la conversazione in modalità ambientale del 26 marzo 2010 all’interno dell’abitazione di NOME COGNOME a Bovalino I ‘intgr Ti O Ci e. -{rh quale si trovavano anche NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME (cl. 87) e, per l’appunto il COGNOME. Che NOME COGNOME detto NOMECOGNOME fosse un personaggio di assoluto vertice non solo all’interno della cosca che fa capo alla sua famiglia e al mandamento jonico ma anche all’intera organizzazione criminale della ‘ndrangheta, era stato rilevato anche dalla Corte di merito che ha assolto COGNOME pur dando conto delle importanti acquisizioni ormai coperte dal giudicato, raggiunte nelle sentenze Crimine e Reale e poi con il processo Mandamento che costituisce la prosecuzione e il completamento dei primi due. Ha posto in evidenza la Corte come COGNOME Domenico nello stesso processo fosse stato condannato a nove anni di reclusione mentre COGNOME era stato giudicato separatamente in altri processi ma che, comunque, entrambi fossero affiliati.
Pur dando atto che COGNOME era zio acquisito di NOME COGNOME per avere sposato NOME COGNOME il giudice della riparazione, ha passato in rassegna i contenuti della conversazione non senza rilevare che, per quanto la trascrizione eseguita nel corso del processo avesse apportato delle “novità”, le stesse rimanevano irrilevanti ai fini del giudizio di riparazione
Per inciso va detto che, al netto del richiamo giurisprudenziale operato dalla difesa nella memoria di replica alle conclusioni del P.G., in punto di frequentazioni legate a rapporti di parentela, questo Collegio aderisce all’orientamento espresso da questa Corte, secondo cui «in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, le frequentaioni ambigue con soggetti condannati nel medesimo procedimento possono integrare un comportamento gravemente colposo, ostativo al riconoscimento del diritto all’indennizzo anche nel caso in cui intervengano con persone legate da rapporto di parentela, purché siano accompagnate dalla consapevolezza che
trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti e non siano assolutam necessitate» (Sez. 4, n. 29550 del 05/06/2019, Rv. 277475 – 01).
6. Il giudice della riparazione ha poi affrontato i temi della discussione, a partire dalle imminenti elezioni per il rinnovo del consiglio regionale della Calabria che si sarebbero tenute a distanza di pochi giorni; qui i colloquianti discutevano senza remore dell’appoggio che numerosi candidati avevano chiesto per sé e per le proprie liste alle cosche reggine e con ironia non nascondevano la difficoltà di accontentare tutti. E’ stato messo in luce come proprio COGNOME avesse introdotto l’argomento, domandando agli interlocutori se anche a loro fossero pervenute richieste di appoggio elettorale da parte di politici regionali. Si intrattenevano a lun sull’argomento con il dire “E come facciamo / compare Pé? Tutti amici sono…” cui proseguiva un lungo elenco di nomi di esponenti politici che avrebbero chiesto l’aiuto delle cosche. Precisava la Corte che tutti i presenti sostenevano di poter garantire significativo sostegno elettorale nei territori sottoposti alle rispettive influenze. E proprio COGNOME mostrava un certo disappunto sul conto di un politico che in precedenza aveva chiesto sostegno elettorale salvo poi non prestare fede alle promesse fatte. Aggiungeva che avrebbe appoggiato un candidato con il quale “siamo stretti stretti” al quale avrebbe garantito “sti dodicimila voti” facendo riferimento al risultato elettorale relativo alla tornata elettorale del 2004.
La Corte ha evidenziato che il tema di fondo non era costituito tanto dalla richiesta di voto avanzata a conoscenti quanto piuttosto dalla richiesta di appoggio delle cosche e dalla gestione del consenso da parte dei locali di ‘ndrangheta su cui si soffermavano tutti i presenti. Erano poi evidenti i riferimenti al tornaconto che ciascuno dei politici eletti avrebbe dovuto garantire, in cambio, alle cosche e nel contempo gli interessi economici e di gestione del potere che ciò poteva determinare. Non mancavano poi pronostici sugli incarichi che questo o quel candidato avrebbe potuto ricevere, giudizi sull’affidabilità manifestata in passato dai politici loc nominati e recriminazioni nei confronti di quei candidati che non avevano mantenuto le promesse. I presenti passavano poi a discutere della difficoltà per i clan di promuovere esplicitamente i candidati avuto riguardo al disegno di legge poi approvato dalla Camera dei deputati, il c.d. “d.d.l. Lazzati” che poneva divieti di propaganda elettorale da parte di soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose o sottoposti a misure di prevenzione. E quando Pelle commentava detto divieto, proprio COGNOME si inseriva dicendo
che “non gli potevano tagliare la testa” e che se anche l’espressione fosse stata “non ti possono tagliare la testa” l’essenza non mutava dato che, comunque, COGNOME prendeva parte attiva anche a quella ulteriore porzione di discorso che riguardava i limiti che la norma poneva a soggetti in odore di criminalità organizzata.
Egli, dunque, secondo la Corte della riparazione, non è stato spettatore estraneo al discorso e alle dinamiche sottese.
Si è messo in luce, in maniera congrua, che, per quanto legato da un vincolo familiare, COGNOME non avebbe mai potuto presenziare a quelle conversazioni, ascoltarne il contenuto, approfondire i temi ed esprimere i propri convincimenti, se non fosse stato ritenuto affidabile e legittimato a prendere la parola sulle vicende, gli accordi e i propositi dei local appartenenti al mandamento ionico della ndrangheta.
D’altra parte, la Corte della riparazione ha pure evidenziato come nella stessa sentenza assolutoria si leggel che «sarebbe fuori da ogni logica ritenere che COGNOME NOME e COGNOME NOME avessero intrapreso argomenti di una certa delicatezza con un soggetto verso il quale non nutrissero fiducia perché estraneo all’organizzazione mafiosa»
La motivazione del provvedimento impugnato passava poi alla disamina della conversazione nella parte in cui si discuteva della possibilità di avere a che fare con i massoni non affiliati convenendo che erano intervenute delle evoluzioni o, comunque, delle interpretazioni più elastiche di alcuni precetti della criminalità organizzata ‘ndranghetista; COGNOME metteva a parte COGNOME delle entrature in rilevanti ambienti istituzionali, ivi compresa l magistratura, che la ndrangheta era riscita a procurarsi tramite l’adesione di suoi membri alla massoneria. E COGNOME, dal canto proprio, partecipava alla discussione con piena adesione portando la propria esperienza adducendo che nella massoneria avevano portato “uomini” salvo, poi, essersene allontanato quando si era reso conto che “il pesce puzza dalla testa”, manifestando quel distacco che doveva essere proprio negli ambienti ndanghetistici della sua generazione.
Veniva poi esaminato l’ultimo argomento trattato nella casa di COGNOME che afferiva ai rapporti conflittuali e a vere e proprie faide che avevano coinvolto diverse articolazioni territoriali della ndrangheta e COGNOME, rivolgendos proprio a COGNOME NOME, gli diceva “compare NOME, l’ottanta per cento muoiono innocenti” riferendosi al fatto che era meglio cercare un dialogo piuttosto che passare alla eliminazione fisica dei rivali.
I temi affrontati consentono di escludere che si trattasse di una mera
visita di cortesia e che al COGNOME sia stato consentito di prendere parte attiva alla conversazione per mere ragioni di ospitalità.
D’altra parte la stessa sentenza di assoluzione ha spiegato che per quanto gli elementi acquisiti non siano stati ritenuti sufficienti a fondare prova della responsabilità penale del COGNOME risulta evidente che la partecipazione convinta e attiva dello stesso a quella riunione, l’avere interloquito su temi di rilievo per la ‘ndrangheta jonica con i vertici del stessa, anzi, l’averlo fatto “da parr ìsenza chiedere il permesso né attendere che gli venisse data la parola ; come ci si sarebbe atteso se si fosse trattato di una presenza occasionale, sono tutte espressioni di una condotta volontaria e dolosa dell’uomo.
La Corte della riparazione, invero, con motivazione ampia e con congrui richiami giurisprudenziali ha dato atto che, per quanto la Corte di merito sia pervenuta alla assoluzione del COGNOME non essendo stata raggiunta la prova del suo “ruolo dinamico”, la condotta dell’istante è stata, comunque, idonea a ingenerare la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto.
A fronte del quadro delineato dalla Corte della riparazione, rimane neutro l’argomento addotto dalla difesa, relativamente all’eventuale rapporto di parentela con NOME NOME, eventuale omonimo del fratello del ricorrente.
Essendo per le sopraesposte ragioni infondate le doglianze sottoposte all’esame di questa Corte, il ricorso deve essere rigettato; al rigetto segue, a norma dell’art.616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Non si ritiene di dover procedere alla liquidazione delle spese sostenute dal Ministero resistente cui conseguirebbe la condanna del ricorrente alla rifusione delle stesse. La memoria depositata, infatti, si limit a riportare principi giurisprudenziali in materia di riparazione per ingiusta detenzione senza confrontarsi con i motivi di ricorso sicché non può dirsi che l’Avvocatura dello Stato abbia effettivamente esplicato, nei modi e nei limiti consentiti, un’attività diretta a contrastare la pretesa del ricorrente (Sez. n. 36535 del 15/09/2021, A., Rv. 281923; Sez. 3, n. 27987 del 24/03/2021, G., Rv. 281713)
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Nulla sulle spese in favore del Ministero resistente.
Deciso il 18 dicembre 2024
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nzionari Giudiziario