Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 21848 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 21848 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 20/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PLATI’ il 25/12/1968
avverso l’ordinanza del 14/11/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
1-)
RITENUTO IN FATTO
1.La Corte di Appello di Reggio Calabria accoglieva parzialmente la domanda di riparazione per la ingiusta detenzione proposta da COGNOME NOME in ragione della detenzione sofferta in carcere per due distinti archi temporali in relazione al delitto di concorso in omicidio volontario di COGNOME NOME, episodio che si inseriva nella così detta “faida di Platì” maturata per il controllo del settore del narco traffico tra le famiglie COGNOME – Platì.
Una prima misura cautelare in carcere nei confronti di COGNOME Natale era disposta in data 12 giugno 2017 ed era successivamente annullata dal Tribunale del Riesame, in sede di giudizio di rinvio, per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. In data 2.2.2019 il COGNOME era attinto da nuovo editto cautelare all’esito della pronuncia di condanna della Corte di Assise di Reggio Calabria per il delitto di omicidio volontario, misura che perdeva efficacia a seguito della pronuncia assolutoria del giudice di appello divenuta irrevocabile il 2 luglio 2021.
2. Il giudice della riparazione riconosceva al TRIMBOLI la riparazione indennitaria soltanto con riferimento alla prima fase cautelare assumendo che, in relazione ad essa, si verteva in ipotesi di ingiustizia formale, regolata ai sensi dell’art.314 comma 2 cod.proc.pen., che precludeva all’autorità giudiziaria di accertare la sussistenza anche della colpa lieve, ai fini di una eventuale riduzione dell’indennizzo. Quanto al secondo periodo di detenzione custodiale riteneva che lo stesso, maturato a seguito di un diverso titolo cautelare, imponeva la verifica della ricorrenza di profili del dolo e della colpa grave in capo al COGNOME, ostativi alla riparazione e sul punto evidenziava come era emerso dal complessivo esame degli atti del processo la circostanza, non esclusa dal giudice dell’assoluzione, che il COGNOME, esponente di rilievo dell’omonimo clan camorristico, unitamente ai propri parenti aveva organizzato una riunione conviviale alla quale era stato invitato COGNOME NOME, esponente di rilievo della distinta e omonima articolazione, nel quale il COGNOME era chiamato a dare conto di alcune condotte che gli venivano contestate dagli appartenenti alla famiglia COGNOME nell’ambito di dinamiche ‘ndranghetistiche che avevano vissuto momenti di frizione.
Argomentava il giudice della riparazione che, sebbene nel giudizio assolutorio fosse emerso che i COGNOME non avevano programmato di uccidere il COGNOME in detta occasione, omicidio che poi era stato
materialmente eseguito da NOMECOGNOME fratello del ricorrente, così da escludersi la prova del concorso del ricorrente nell’atto omicidiario, nondimeno la vicenda si era sviluppata in un contesto associativo in cui il COGNOME era comunque stato chiamato a discolparsi di condotte gravemente lesive del rapporto di fiducia intercorrente tra le due famiglie, di talchè al ricorrente erano attribuibili rilevanti profili di colpa per avere contribuito a realizzare, in un contesto criminale al . ; quale egli non era estraneo e che aveva dato luogo al confronto con il COGNOME, le condizioni, peraltro prevedibili, di possibili ritorsioni e gravi attentati alla incolumità personale di questi, atteso che le motivazioni dell’omicidio venivano individuate nel desiderio di vendetta per due precedenti atti omicidiari consumati nei confronti di appartenenti alla famiglia COGNOME.
Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione la difesa di COGNOME la quale, con un motivo unico, ha dedotto violazione di legge e vizio motivazionale in relazione all’art.314 cod.proc.pen. per le ragioni per cui era stata negata la riparazione del secondo periodo di custodia in carcere subita dal COGNOME
Assume, a tal riguardo, che la motivazione risultava manifestamente illogica e contraddittoria per avere operato una diversa valutazione in relazione ai due distinti archi temporali, laddove la pronuncia assolutoria si era fondata sul medesimo materiale probatorio che aveva dato luogo, dapprima, alla misura cautelare e, successivamente, alla pronuncia di condanna di primo grado all’esito di giudizio abbreviato e che pertanto, se i gravi indizi di colpevolezza erano originariamente carenti, come stabilito dallo stesso giudice della cautela, non potevano essere valorizzate, ai fini della esclusione del beneficio, sia pure per un diverso arco temporale, condotte colpose del TRIMBOLI che si sostanziavano negli stessi comportamenti già valutati dal giudice del riesame e per i quali era stata esclusa la gravità indiziaria. Evidenzia inoltre che non era ipotizzabile la compensazione prevista dall’art.314 comma 4 cod. proc. pen. nel caso in cui la custodia cautelare sia stata disposta per diversi titoli in quanto, nella specie, i periodi erano distinti e si riferivano agli stessi fatti giudicati nel medesimo procedimento penale e che comunque la sentenza di primo grado non poteva ritenersi causa ostativa alla riparazione in quanto assorbita dalla pronuncia assolutoria nel grado di appello.
La Procura Generale presso la Corte di cassazione concludeva per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, il sindacato del giudice di legittimità sull’ordinanza che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio. Resta invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa o sull’esistenza del dolo (Sezioni unite, 28 novembre 2013, n. 51779, Nicosia). Lart.314 comma I c.p.p. prevede al primo comma che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
2.In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, rappresenta causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (cfr. sul punto questa Sez. 4, n. 34181 del 5/11/2002, COGNOME, Rv. 226004). In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. Unite n. 43 del 13.12.1995, COGNOME ed altri, Rv. 203637).
Orbene, nella specie la valutazione operata dal giudice distrettuale, nell’escludere la riparazione per il periodo di restrizione cautelare collegato al secondo titolo cautelare, emesso a seguito della pronuncia di condanna di primo grado è coerente con la giurisprudenza di legittimità concernente la valutazione
della colpa grave ostativa alla liquidazione dell’indennizzo e sostanzialmente non risulta neppure aggredita nei motivi di ricorso, i quali si fondano sulla esclusione della gravità indiziaria riconosciuta in relazione al primo titolo cautelare. Invero il comportamento ostativo può essere integrato anche dalla condotta di chi, nei reati contestati in concorso, abbia tenuto, pur consapevole dell’attività criminale altrui, comportamenti percepibili come indicativi di una sua contiguità (cfr. sez. 4 n. 45418 del 25 novembre 2010, Carere, Rv. 249237; n. 37528 del 24 giugno 2008, Rv. 241218. Da ultimo n.4113 del 13/01/2021, COGNOME, Rv.280391, ove la Corte ha ritenuto immune da censure l’ordinanza che aveva ravvisato la colpa grave, ostativa alla riparazione per l’ingiusta detenzione subita per il reato di cui all’art. 73 t.u stup., nella condotta dell’instante consistita nell’intrattenere rapporti economici con soggetto dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti).
A tale proposito non coglie nel segno il denunciato vizio dedotto dalla difesa della ricorrente secondo cui violerebbe la regola della ingiusta detenzione e di effettività della tutela riparatoria la circostanza che al ricorrente siano contestate, come addebiti colposi, le medesime condotte già valutate dal giudice dell’assoluzione per escludere la sua responsabilità. Invero è stato affermato dal S.C. che la valutazione del comportamento del richiedente la riparazione, integrante la colpa grave ostativa alla liquidazione della indennità per la ingiusta detenzione, va effettuata ex ante a prescindere dall’esito del giudizio di merito atteso che, se il giudizio riparatorio si limitasse a tale accertamento, si stempererebbe in una valutazione paragonabile a quella del giudice del riesame, sulla ricorrenza dei gravi indizi di colpevolezza, senza considerare che i fatti posti all’esame del giudice della cautela, potrebbero risultare incompleti, erronei, contraddittori, smentiti da emergenze di senso contrario o anche falsi. Invero la valutazione riservata al giudice della riparazione non ha per oggetto né la sentenza assolutoria, che ha definito il giudice di merito, né la misura cautelare che ha disposto la privazione della libertà personale dell’indagato, bensì la condotta serbata dal cautelato alla luce delle emergenze acquisite nel corso delle indagini, ma sempre che tali emergenze non siano state escluse o neutralizzate nel giudizio assolutorio.
La condotta da cui scaturisce il rimprovero di colpa, e quindi il fatto preclusivo al riconoscimento dell’indennizzo, può infatti consistere nel fatto già esaminato dal giudice penale dell’assoluzione e da questi ritenuta
penalmente irrilevante, stante il diverso accertamento demandato al giudice della riparazione (S.U., n.32383 del 27 maggio 2010, COGNOME).
Conseguentemente anche la stessa condotta che integra l’imputazione ascritta, ritenuta penalmente irrilevante dal giudice dell’assoluzione, può giustificare l’esclusione della riparazione in quanto connotata dai richiesti profili di inescusabile leggerezza e macroscopica imprudenza come nella specie (da ultimo sez.4, n.34438 del 2/07/2019, COGNOME Maria, Rv.276859; n.2145 del 13/01/2021, COGNOME, Rv.280246 per ipotesi di collegamenti, nel primo caso personali e nel secondo caso economici, con realtà criminose associative), soprattutto allorquando le conclusioni del giudice dell’assoluzione si fondino sull’ermeneusi dell’oltre ogni ragionevole dubbio che lascia pertanto spazio ad un diverso criterio valutativo da parte del giudice della riparazione.
Nella specie il giudice distrettuale ha valorizzato il pacifico contesto criminale in cui era maturato l’atto omicidiario, le relazioni ndranghetistiche tra associati e le rilevanti contrapposizioni criminali e personali tra i clan COGNOME e COGNOME, caratterizzate da precedenti vicende omicidiarie, che costituivano l’antefatto dell’incontro conviviale che avrebbe condotto all’uccisione del COGNOME, incontro cui aveva partecipato il ricorrente unitamente ai propri familiari, in un contesto di evidente conflittualità e di pericolosa resa dei conti.
5.1 A nulla rileva infine che l’indennizzo sia stato riconosciuto con riferimento al primo periodo di custodia cautelare subito dal TRIMBOLI Natale atteso che, in relazione ad esso, la valutazione del giudice distrettuale, in questa sede non sindacabile in quanto favorevole alla posizione del ricorrente, era fondata sul diverso parametro della ingiustizia formale di cui all’art.314 comma 2 cod. proc. pen., con la conseguenza che il sindacato sull’elemento ostativo della colpa grave era soggetto ai limiti indicati dalla giurisprudenza di legittimità in costanza di misura cautelare annullata dal Tribunale del Riesame per carenza di gravi indizi di colpevolezza (S.U. COGNOME, cit.; sez. 4 n. 22103 del 21/03/2019, COGNOME, Rv. 276091 – 01; n. 16175 del 22/04/2021, COGNOME, Rv. 281038 – 01) poichè, in tale ipotesi, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, integrata dall’avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave, non opera se l’accertamento dell’insussistenza “ah origine” delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha adottato il provvedimento
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cautelare, in quanto in tal caso la condotta dolosa o colposa dell’imputato è
priva di efficienza causale in ordine all’emissione della misura.
5.2. Per il secondo titolo cautelare, invece, valgono i principi
giurisprudenziali dettati per la distinta ipotesi di ingiustizia sostanziale
laddove i profili di dolo e di colpa grave ostativi alla riparazione possono
essere esaminati dal giudice della riparazione nella loro complessiva e
integrale portata, sebbene mediante una valutazione ex ante che retroagisca
alla data di adozione del secondo titolo cautelare (Febbraio 2019) in cui
peraltro si palesavano evidenti i collegamenti criminali tra i singoli
appartenenti al clan COGNOME e alle finalità ‘ndranghetistiche della riunione
organizzata con la partecipazione del COGNOME, propedeutica alla messa in
stato di accusa dell’esponente di spicco della famiglia rivale, ove le
conseguenze nefaste per la incolumità di questo, a prescindere dall’acclarata
esclusione di un concorso nel reato del ricorrente, erano da questi prevedibili
e colposamente sottovalutate, in una prospettiva di prevalenza degli interessi
camorristici del clan di appartenenza.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali nonché, non ricorrendo ipotesi di esenzione per assenza di colpa, al versamento di una somma, ai sensi dell’art.616 cod. proc. pen., in favore della Cassa delle Ammende, che si stima equa nella misura di euro tremila, nonché alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente, le cui difese sono risultate pertinenti ed utili ai fini della presente decisione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità al Ministero resistente, che liquida in euro mille.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 marzo 2025