Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 20962 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 20962 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 07/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a TAURIANOVA il 08/08/1991
avverso l’ordinanza del 10/10/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 10 ottobre 2024 la Corte di Appello di Reggio Calabria ha rigettato la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata, a mezzo di procuratore speciale, dall’odierno ricorrente COGNOME NOMECOGNOME limitata al periodo di custodia cautelare in carcere subita dal 20.11.2016 al 28.3.2019 (atteso che per il tempo trascorso fino al 20.11.2016 lo stesso ha beneficiato della fungibilità della pena in relazione ad altra condanna definitiva), in esecuzione dell’ordinanza del GIP del locale Tribunale emessa il 30 ottobre 2014 per il reato di cui all’articolo 416 bis cod. pen. contestato al capo 1) dell’editto cautelare, (con l’asserito ruolo di partecipe del sodalizio mafioso denominato ‘ndrangheta e, segnatamente, della cosca COGNOME COGNOME con funzioni di armiere e custode, mettendosi a completa disposizione degli interessi della cosca e cooperando con gli altri associati nella realizzazione del programma criminoso), ordinanza poi confermata dal Tribunale del riesame di Reggio Calabria in data 30.10.2014.
Quanto al merito, il COGNOME veniva assolto dal reato a lui ascritto con sentenza della Corte di appello di Catanzaro del 28 marzo 2019 per non aver commesso il fatto, sentenza divenuta irrevocabile.
1.1. La Corte d’appello, quale giudice della riparazione, ha motivato il rigetto della richiesta ex art. 314 cod.proc.pen. ritenendo la sussistenza di condotte, quali la presenza ad incontri in cui si discuteva di questioni che coinvolgevano interessi ‘ndranghetistici e proponevano le modalità operative tipiche di dette organizzazioni criminose, tali da esplicare funzione sinergica nell’applicazione della misura cautelare.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia nonché procuratore speciale, COGNOME Nicola deducendo un solo motivo di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con detto motivo assume la violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. c) in relazione agli artt. 125 e 314 cod. proc. pen., sostenendo che l’ordinanza impugnata ha omesso di motivare in ordine alle ragioni per le quali i comportamenti tenuti dal COGNOME, ovvero la partecipazione alla conversazione nel corso della quale si sarebbe discusso di una fornitura di pesce in cui lo stesso aveva consigliato di rivolgersi a COGNOME e la partecipazione ad una cena svoltasi tra un gruppo di maggiorenti della cosca, potessero essere ritenuti sintomatici dell’appartenenza all’associazione mafiosa oggetto di contestazione.
Si sostiene che la valenza dimostrativa delle condotte in questione è già stata esclusa dal giudice del merito sicché appare un errore di diritto rivalutarne la portata fattuale-ricostruttiva.
Peraltro, si fa riferimento ad un contesto delinquenziale che non era stato valorizzato neppure dal giudice della cautela al fine dell’emissione dell’ordinanza cautelare.
Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha rassegnato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
L’Avvocatura Generale dello Stato per il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso é manifestamente infondato.
Va premesso che vi è totale autonomia tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione atteso che i due giudizi afferiscono a piani di indagine del tutto diversi che ben possono portare a conclusioni affatto differenti pur se fondati sul medesimo materiale probatorio acquisito agli atti, in quanto sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione distinti.
Ciò perché è prevista in sede di riparazione per ingiusta detenzione la rivalutazione dei fatti non nella loro portata indiziaria o probatoria, che può essere ritenuta insufficiente e condurre all’assoluzione, occorrendo valutare se essi siano stati idonei a determinare, unitamente ed a cagione di una condotta negligente od imprudente dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice. È pacifico (cfr. tra le tante Sez. 4, n. 45418 del 25 novembre 2010) che, in sede di giudizio di riparazione ex. art. 314 cod. proc. pen. ed al fine della valutazione dell’an debeatur occorra prendere in considerazione in modo autonomo e completo tutti gli elementi probatori disponibili ed in ogni modo emergenti dagli atti, al fine di valutare se chi ha patito l’ingiusta detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti. A tale fine è necessario che venga esaminata la condotta posta in essere dall’istante sia prima che dopo la perdita della libertà personale e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico, onde verificare, con valutazione ex ante, in modo del tutto autonomo e indipendente dall’esito del processo di merito, se tale condotta, risultata in sede di merito tale da non integrare un fatto-reato, abbia ciononostante costituito il presupposto che abbia ingenerato, pur in eventuale
presenza di un errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di “causa ad effetto”. E a tal fine vanno prese in considerazione tanto condotte di tipo extraprocessuale (grave leggerezza o trascuratezza tale da avere determinato l’adozione del provvedimento restrittivo), quanto di tipo processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi) che non siano state escluse dal giudice della cognizione).
Poiché inoltre, anche ai fini che qui ci interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto all riparazione quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica, negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso.
3. Fatte queste premesse, l’ordinanza impugnata, facendo buon governo dei principi fin qui esposti, con motivazione logica e puntuale, chiaramente differenziando il piano del giudizio cui é chiamato il giudice della riparazione da quello del giudice del merito, ha individuato delle condotte integranti l’elemento ostativo alla concessione del richiesto indennizzo.
In particolare, premesso che il COGNOME era stato indagato in una vasta indagine (denominata “Eclissi”), che aveva riguardato soggetti appartenenti alle ‘ndrine COGNOME e COGNOME, ha posto in rilievo degli episodi, non smentiti dal giudice di merito, idonei a dimostrare inequivocamente l’appartenenza del COGNOME alle dinamiche associative della cosca COGNOME– COGNOME e segnatamente la sua presenza ad incontri in cui si discuteva di interessi della cosca, quale la partecipazione ad una cena nonché un incontro intercettato in cui si parlava con altri accoliti di una fornitura di pesce, sottolineando peraltro la peculiare valenza di detta presenza nell’ambito di contesti caratterizzati dalla necessaria segretezza delle informazioni.
Per di più il giudice della riparazione ha evidenziato anche una condotta attiva del Caprino quale suggerire ai propri interlocutori di rivolgersi a COGNOME (esponente di spicco della cosca) per ottenere il suo placet mostrando altresì di temere reazioni da parte dei Pesce.
In conclusione, l’ordinanza impugnata ha ritenuto la sussistenza di condotte inequivocamente indicative dell’inserimento o quantomeno della stretta contiguità del Caprino con un contesto ‘ndranghetistico e che, valutate ex ante nell’ottica del giudice della cautela, hanno esplicato una funzione sinergica nell’applicazione della misura cautelare.
4.
In conclusione il ricorso manifestamente infondato va dichiarato inammissibile. Segue la condanna al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro 3000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Non vanno, invece, liquidate le spese sostenute dal Ministero resistente. La memoria depositata, infatti, si limita a riportare principi giurisprudenziali in
materia di riparazione per ingiusta detenzione, senza confrontarsi con i motivi di ricorso, e quindi senza offrire un contributo alla dialettica processuale (sul punto,
Sez. 4, n. 1856 del 16/11/2023, COGNOME non mass; in argomento anche Sez. U, n. 34559 del 26/6/2002, COGNOME, Rv. 222264; in riferimento alla
costituzione della parte civile, .ma con principi estensibili, Sez., n. 877 del
14/7/2022, dep. 2023, COGNOME, in motivazione).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Nulla per le spese in favore del Ministero resistente.
Così deciso il 7.5.2025